V. Bardesane.

Bardesane, l'amico di Abgaro II di Edessa, visse dall'11 luglio 154 al 223, e cominciò a farsi conoscere giovanissimo, ai tempi di Marco Aurelio, come discepolo di Valentino. Ma la vastità del suo ingegno, la delicatezza e la personalità del suo sentimento, la vivacità della sua immaginazione poetica, la sua fecondità letteraria, infine attitudini etniche originali, non tolleravano ch'egli passasse inosservato gregario nel seguito di un caposcuola, ed Eusebio ci dice (IV, 50) ch'egli riprese più volte il suo maestro, rompendola con lui, ma conservando lo spirito del suo pensiero. Ippolito aggiunge (VII, 31) che contro Bardesane «l'armeno» scrisse il marcionita assiro Prepone. In qual tempo della sua vita questa singolare tempra di poeta e di sociologo abbia composto i suoi inni, dai quali ha preso metro e ispirazione la poesia ecclesiastica sira, è difficile dire. Della sua attività letteraria, che fu immensa, rimane una non piccola parte, più che sufficiente a rivelarci i motivi della sua speculazione, l'indole delle sue tendenze sociali, i caratteri della sua propaganda. I suoi inni, migliorati forse e limati dal suo figlio Armonio, (Soz. III, 16) ci sono stati conservati in grande numero da Efrem siro. Del suo dialogo περὶ εἱμαρμένης, dedicato ad Antonino, e nominato da Eusebio nella Storia ecclesiastica, il Nau ha identificato due lunghi tratti colle citazioni del De praeparatione evangelica, e il Cureton ha edito l'originale siro, sotto il titolo: Libro delle leggi dei paesi. Molto probabilmente il vero autore del dialogo è Filippo, discepolo di Bardesane, il quale vi parla costantemente in prima persona: ma le idee espresse sono senza dubbio del maestro, di cui è viva la voce qui e genuino l'insegnamento. Il quale, rivelandosi nel suo contenuto sociale, dà a quest'opera un alto valore di sintomo e indice di tutta la consistenza pratica e politica del movimento gnostico. Perciò ne diamo in italiano un tratto, dal quale appare la confutazione delle superstizioni astrologiche, ricavata dal fatto che le leggi e non la fatale efficacia delle stelle, regolano le azioni umane con la loro autorità veneranda. Scrive dunque Bardesane:

«In ogni regione o regno le leggi son poste dagli uomini, ed esse durano sia per la forza della consuetudine, sia per la testimonianza ad esse data dai libri sacri; nessuno può trasgredirle impunemente. Così i Serii, che abitano l'estrema parte dell'Oriente, non conoscono l'omicidio, nè l'adulterio, nè il furto, nè il culto degli idoli. E in tutto il loro paese, che è immenso, non s'incontra nè tempio, nè simulacro, nè meretrice, nè adultera, nè si sa di uomo ucciso da uomo. La stella Marte dunque non ha mai acceso il loro arbitrio, a soffocare col ferro la vita del proprio simile; nè la congiunzione di Venere e Marte ha stimolato le loro tendenze afrodisiache a voluttà irregolari; e sì che il corso degli astri non è interrotto fra loro. In realtà, il rispetto dovuto alle leggi è più forte di ogni influsso astrale».

L'A. continua a lungo, esponendo le varie consuetudini dei popoli: società a tipo matriarcale, come quella degli Sciti, dove le donne comandano agli uomini, società nella quale l'uomo ha abitudini effeminate, mentre le donne attendono ai più duri lavori manuali; società corrose da una immoralità legale senza ritegni e senza sanzioni; società dove è smarrito ogni concetto d'inviolabilità matrimoniale. Ebbene: mai c'è una corrispondenza tra le disposizioni celesti e le abitudini della terra; mai l'influsso degli astri si rivela come causa determinante delle varie abitudini collettive; paesi più ampii di quelli che astronomicamente soggiacciono a una configurazione di astri e pianeti, hanno identiche leggi; i paesi sottoposti al dominio atmosferico di alcune stelle, non ne risentono alcun'azione morale.

La conclusione che Bardesane ricava da questa constatazione di fatto, è molto notevole. Le leggi sociali, egli conclude, non hanno a veder nulla con la fatalità di una predestinazione cosmica. Esse sono create dal libero arbitrio dell'uomo a regolare i rapporti vicendevoli delle varie classi sociali. Ma queste leggi hanno una forza intrinseca insindacabile, contro la quale si deve spezzare ogni velleità ribelle dell'individuo. Quelle consuetudini, sapientemente stillate nei canoni della legislazione che noi abbiamo raccolto come il patrimonio dei nostri padri, sono per noi inviolabili, e, integre, dovranno essere trasmesse da noi ai futuri. Così si manifesta sul vivo il contenuto sociale del pensiero gnostico: la cui riposta missione sembra essere quella di conservare, attraverso un involucro d'idealismo più affinato, l'eredità legale del paganesimo.

Ma se noi ci arrestassimo qui, conosceremmo solo un aspetto, il sociale, della corrente gnostica di Bardesane. Molto più notevole è l'aspetto morale del suo pensiero. Bardesane prelude al manicheismo, così ampiamente diffuso nei paesi di lingua sira. Egli ha avuto una percezione sensibilissima del contrasto fra gli elementi del bene e del male, lottanti tenacemente nel mondo. Egli ha cantato le tristezze della vita, su cui incombe la minaccia di una perdizione senza limite di tempo. Ha percepito in tutta la sua violenza il duello degli opposti indirizzi, combattenti nell'intimo di ogni spirito umano, e ha inneggiato alla pura bellezza dell'anima redimita dal corpo.

Noi non possiamo sottrarci al desiderio di dar qui, in esatta versione italiana, due suoi inni, introdotti negli atti di Tommaso da mano più tarda, ma che ha senza dubbio ben continuato l'ispirazione dell'anonimo leggendista, poichè noi crediamo che debba rispondersi affermativamente alla domanda formulata da Harnack: non sarebbero tutti gli atti di Tommaso usciti dalla scuola bardesaniana? (Chr. I Bd., I Th., p. 548). Il primo inno è la descrizione della vergine pura, simbolo dell'anima santa, e della chiesa. Il secondo narra l'epico e fortunato tentativo dell'anima, per riscattarsi dall'oscura dominazione del male.

Eccoli:

1. Il canto nuziale di Sofia.

La mia sposa è una figlia della luce,
essa ha la magnificenza dei re.
Altero e affascinante è il suo aspetto:
gentile e di pura bellezza adorno;
le sue vesti somigliano a bocciuoli,
il cui profumo è fragrante e grato.
Sul suo capo posa il re,
e alimenta quei che son posti sotto di lui.
Essa pone veracità nella sua testa
e mulina la gioia ne' suoi piedi.
La sua bocca è aperta: e ciò ben le si conviene
chè puri canti di lode con essa ella parla.
I dodici apostoli del figlio
e settantadue inneggiano in lei.
La sua lingua è la cortina della porta
che il sacerdote solleva ed entra.
Il suo collo è una struttura di gradini
che il primo architetto ha costruito.
Ma le due sue mani
annunziano il luogo dei viventi.
E il numero dieci delle sue dita
apre a lei la porta del cielo.
La sua stanza nuziale è luminosa
e del profumo della liberazione ripiena.
Incenso è posto nel suo mezzo
(consistente in) Amore e Fede
e Speranza, e fa tutto odorante.
Dentro è la Verità in essa sparsa:
le sue porte sono adorne di veracità.
I suoi paraninfi la circondano,
tutti quelli che essa ha invitato;
e le sue vergini compagne (con loro),
cantano innanzi a lei la lode.
Innanzi a lei servono Viventi
e stanno a guardare che il suo sposo venga:
sicchè essi siano rischiarati per la sua maestà,
e pervengano con lui nel suo reame
che giammai non passa,
e alla festa pervengano
dove tutti i giusti saranno raccolti.
E nel gaudio pervengano
nel quale essi soli entreranno.
Sicchè essi vestano le vesti di luce
e si circondino della maestà del loro Signore,
(e) lodino il padre vivente:
perchè essi han ricevuto la splendida luce
e sono stati rischiarati dallo splendore del loro Signore,
e hanno ricevuto il suo nutrimento
che non si perde mai,
e poichè essi han bevuto dell'(acqua) vivente,
che non li fa languire ed aver sete.
Lodate il Padre, il Signore,
e l'innato figlio,
e rendete grazie allo Spirito per la sua Sapienza.

2. Canto dell'apostolo Giuda Tommaso
nella terra degli Indî.

(Il canto della Redenzione).

Quando io ancora fanciulletto – nel regno della mia casa paterna abitavo; – e della ricchezza e della magnificenza – dei miei educatori mi ricreavo; – mi mandarono via i miei genitori dall'Oriente, nostra patria – con un viatico; – dalla ricchezza del nostro tesoro – essi naturalmente a me legarono un fardello. – Esso era grande, ma (così) leggero – che io solo lo potevo portare: – oro dalla terra dei Gheler – argento dal gran Ga(n)rak – calcedonia dall'India – iridescente (opale?) dal regno di Kûsán. – Essi mi cinsero di diamante – che il ferro spezza. – Essi mi tolsero (la veste di) raggi – che essi nel loro amore mi avevano fatto – e il mio abito di porpora – che alla mia statura misuratamente era tessuto; – e fecero con me un patto – e lo scrissero a me nel mio cuore, per non dimenticarlo. – «Se tu verso l'Egitto discendi – e la perla arrechi che è nel mare – nella vicinanza del veleno-spirante serpente – tu devi la tua veste di raggi indossare – e il tuo abito che su lei posa – e col tuo fratello, il nostro secondo – erede diventare nel nostro regno». – Io lasciai l'Oriente e trassi giù – con due corrieri, poichè il cammino pericoloso e difficile – chè (ancor) giovane ero, a viaggiarlo. – Camminai oltre i confini di Maisân – il centro d'accolta dei mercanti dell'Oriente – e pervenni nella terra Babel – ed entrai nelle mura di Sarbûg. – Io discesi più oltre in Egitto – e i miei compagni si separarono da me. – Io andai direttamente al serpente – (e) presi dimora presso al suo ospizio – (onde), mentre esso sopito sarebbe nel sonno, – prender (la) perla. – Poichè uno io ero e affatto solitario, – io ero ai coabitanti della mia casa ospitale straniero. – Anche un nobile parente – dall'Oriente io vidi là – un bello amabile giovine – figlio unto, egli venne per aderire a me – e io lo presi per mia consolazione, – per mio compagno, a cui io comunicavo le mie cose. – Io lo ammonivo (Egli mi ammoniva?) riguardo all'Egitto – e al contatto degli impuri. – Io mi vestii (poichè io mi vestii?) come essi – sicchè essi non mi avessero in sospetto, perchè da fuori fossi venuto – la perla a prendere: – e contro di me il serpente destassero. – Per qual sia ragione – essi osservarono che io non ero loro conterraneo – e mi parteciparono le loro arti – mi diedero perfino a gustare le loro vivande: – ed io dimenticai d'essere figlio di re – e servii al loro re. – Io obliai la perla – per la quale i genitori mi avevano mandato. – Per la gravezza del loro nutrimento – io caddi in profondo sonno. – Tutto ciò che mi accadeva osservavano i miei genitori – ed erano in sollecitudine per me. – Fu bandito nel nostro reame – ognuno dovesse viaggiare alla nostra corte – i re e i capi di Parthan – e tutti i grandi dell'oriente. – Essi presero (insieme) la deliberazione – che io non potrei esser lasciato in Egitto – e mi scrissero una lettera – ed ogni grande vi sottoscrisse il suo nome. – «Dal tuo padre re dei re – e da tua madre signora dell'oriente – e da tuo fratello il nostro secondo – a te nostro figlio in Egitto, salute. – Svegliati e sorgi dal tuo sonno – apprendi le parole della nostra lettera; – ricordati che tu sei figlio di re – vedi a chi (in) servaggio hai servito – rammentati della perla – per la quale tu in Egitto viaggiasti. – Ricordati della tua veste di raggi – rammentati del tuo magnifico abito – di indossarlo e come ornamento metterlo – sicchè nel libro degli eroi il tuo nome sia letto – e tu con tuo fratello, il nostro successore nel trono – sia tu erede nel nostro regno». – La lettera è una lettera – che il re con la sua dritta suggellò – per i malvagi per i figli di Babele – per i ribelli demoni di Sarbûrg. – Essa volò in forma dell'aquila – del re di tutti i pennuti – volò e si lasciò calare accanto a me – e divenne tutta Parola. – Alla sua voce, alla voce del suo suono io mi destai – mi levai su dal mio sonno, – la trassi a me e la baciai – sciolsi il suo sigillo e lessi. – Proprio come nel mio cuore stava scritto – erano scritte le parole della lettera – Io mi ricordai d'esser figlio di re – e che la mia nobiltà reclamava la sua esplicazione. – Mi ricordai della perla – per la quale in Egitto ero stato mandato – e cominciai ad incantare – il terribile (veleno) spirante serpe. – E lo ridussi in assopimento e sonno – col rammentare su lui il nome del padre mio – il nome del nostro secondo – e della madre mia, la regina dell'oriente. – Colsi la perla – e mi rivolsi per tornare alla mia casa paterna. – La sua veste sudicia impura – io trassi via, la lasciai nella sua terra – e diressi il mio viaggio sì che io venissi – alla luce della nostra patria, all'oriente. – La mia lettera che mi ridestò – io la trovai innanzi a me nel cammino: – quella che con la sua voce mi aveva destato – nuovamente guardandomi con la sua luce – su (carta!) cinese (scritta) con sinopia – innanzi a me luminosa nella sua parvenza – con la voce della sua potenza direttiva – nuovamente rianimando la mia angustia – e attraendomi col suo amore. – E io trassi fuori, venni per Sabûrg – lasciai Babilonia alla mia sinistra – e pervenni alla grande (città) Maisân – il porto dei commercianti – che giace sulla riva del mare. – La mia veste di raggio che m'ero tolta – e il mio abito nel quale essa era avvolta – spedirono a me dalle alture dell'Ircania; – là i miei genitori – per mezzo dei loro tesorieri – i quali a cagione della loro veracità ne erano affidati. – Senza ricordarmi della sua dignità – perchè la mia puerizia l'aveva lasciata nella mia casa paterna – subito mi parve, a pena io la ebbi scorta – la veste di raggi somigliare al mio specchio – la vidi del tutto in tutto me – e fui in essa anche di me interamente accorto: – sicchè noi eravamo due in distinzione – e di nuovo uno in unica forma; – e io vidi del pari che i tesorieri – che me l'avevano portata – erano due di un'unica figura – poichè in essi era scritto lo stesso («un») segno del re, – che a me per mezzo di essi l'onore – il pegno della mia ricchezza rendeva: – la veste di raggi – che con splendidi, luminosi colori era ornata: – con oro e berilli – con calcedonie e iridescenti (opali?) – e sardonie dai vari colori. – Anche essa era fatta conforme alla sua (celeste) sublimità – e con diamanti eran fissate tutte le sue giunture; – l'immagine del re dei re – era su di essa per tutto dipinta – ed essa (pura) come zaffiro – anche nelle sue parti alte variamente lavorata. – Io vidi ancora per tutto in essa – brulicare i moti della mia Gnosis – e vidi anche che essa si muoveva come per parlare. – Io percepii il suono delle sue melodie – che essa durante la sua discesa mormorava – «Io appartengo al più alacre servo – per il quale innanzi a mio padre fui tessuta – e io avvertii anche – come la mia statura come (=con) le sue opere cresceva». – E con i suoi regali movimenti si effonde tutta su me – e si affretta per ordine (= alla mano) dei suoi donatori – sicchè io la potessi prendere, – e anche me pungeva il mio amore di correre incontro ad essa a riceverla. – E mi distesi e la ricevetti; – mi adornai con la bellezza dei suoi colori – e trassi la mia veste dagli splendidi colori – sovra tutto me, tutta quanta. – Con essa io mi rivestii e ascesi – alla porta (corte) della salutazione e dell'adorazione. – Chinai il mio capo e adorai – lo splendore del padre che mi aveva mandata la veste – i cui comandamenti io avevo eseguito – e che da parte sua aveva fatto quel che aveva promesso. – Alla corte dei suoi principi – io conversai con i suoi grandi; – colui che lieto mi accolse – e io ero con lui nel suo regno – lui tutti i suoi servi, con voci – d'organi ad acqua lodano – perciò che egli aveva promesso che io dovrei viaggiare alla corte del re dei re – e con presentazione della mia perla – comparire con lui innanzi al nostro re!

Finisce il canto di Giuda Tommaso, che egli cantò nella prigione.

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