Affine a Valentino per acutezza d'ingegno, superiore a lui per genio di organizzatore, Marcione ha guadagnato e goduto una fama più ampia di quella di tutti gli altri gnostici. La sua propaganda ha riportato un successo straordinario. «Egli fu combattuto da Policarpo di Smirne. Giustino intorno al 150 (Apol. I, 26) dice che il movimento da lui promosso si è allargato in tutto l'impero. Verso la fine del secondo secolo noi lo troviamo infatti in quasi tutte le provincie ecclesiastiche, poichè Filippo in Gortyna nell'isola di Creta, Dionisio in Corinto, Ireneo in Lione, Clemente in Alessandria, Teofilo in Antiochia, Tertulliano in Cartagine, Ippolito e Rodone a Roma, Bardesane in Edessa scrissero contro i marcioniti, ed anche nel terzo secolo essi sono combattuti o menzionati da parecchi scrittori. Epifanio (h. XLII, 1) dice che anche ai suoi tempi questa eresia si trovava sempre in Roma e in Italia, in Egitto, in Palestina, in Arabia, nella Siria, in Cipro, nella Tebaide, in Persia e in altri luoghi. Teodoreto racconta (ep. 81) di aver convertito più di mille marcioniti. Altrettanto sappiamo del Crisostomo e di Nestorio. Anche in Armenia c'erano marcioniti e costituivano un pericolo per la Chiesa, come dimostra la polemica di Esuik nel quinto secolo. Vi si erano spinti probabilmente dalla Siria orientale, dove nel quarto secolo li aveva aspramente combattuti Efrem siro». I principali strumenti della propaganda gnostica, sono, anche questa volta, le donne: Marcione raccoglieva intorno a sè «sanctiores feminas» dice Girolamo (ep. 43), e altrove: «Marcion Romam praemisit mulierem, quae decipiendos sibi animos praepararet». (Ad Ctes.). E Apelle, sempre a Roma, «in alteram feminam (una prima aveva già conosciuto, dopo di che era fuggito ad Alessandria) impegit, virginem Philumenen, postea vero immane postribulum» (De praescr. 30). E quanto queste dame, volontarie predicatrici di eresie, fossero petulanti, è attestato da Tertulliano (ib. 41) il quale dopo aver esposto le irregolarità e la superbia di questi filosofanti fra i quali «ante sunt perfecti, catechumeni, quam edocti» esclama: «Ipsae mulieres haereticae, quam! quae audeant docere, contendere, exorcismos agere, curationes repromittere, forsitan et tingere»!
Chi era Marcione e in che la sua dottrina si diversifica dalle altre?
Marcione era figlio di un vescovo: e precisamente del vescovo di Sinope nel Ponto, ed era nativo di colà. Tertulliano, col suo stile furiosamente appassionato, dopo aver enumerato i difetti naturali della regione che non porta degnamente il nome di Eusino, (εὔξενος, bene hospitalis), ne ricorda i difetti... storici, e fra essi l'aver dato i natali all'eretico, «Scytha tetrior, Hamaxobio instabilior, Massageta inhumanior, Amazona audacior, nubilo obscurior, hieme frigidior, Istro fallacior, Caucaso abruptior» (Adv. Marc. I, 1). Egli si era dato al commercio, ed era divenuto armatore di navi. Sembra che, reo di stupro, fosse stato espulso dalla comunità. Questo particolare, di cui potremmo dubitare se non si trovasse già registrato nello pseudo-Tertulliano (51), vale a dire nel trattato perduto di Ippolito, può essere stata l'occasione psicologica dalla quale Marcione, tempra suscettibile di agitatore, fu indotto a prendersi una rivincita, conquistando altrove una posizione ecclesiastica in vista. Venne a Roma verso il 140, e diede subito prova della sua generosità, donando alla comunità cristiana 200,000 sesterzi, circa 50,000 lire. Vi fu accolto: ma ben presto diede nuovamente prova della irrequietezza del suo carattere, ponendosi sulle orme di Cerdone, e seguendone con entusiasmo le dottrine. Cerdone era siro, ed era venuto a Roma ai tempi di Igino. Egli era nettamente dualista. «Difendeva l'esistenza di una duplice divinità, l'una buona l'altra malvagia; quest'ultima, creatrice del mondo. Ripudiava la legge mosaica e le profezie. Non professava gratitudine al Dio creatore; trattava della venuta di Cristo, figlio della divinità superiore; negava che Egli possedesse una sostanza corporea; definiva la sua esistenza solamente fantasmatica; quindi ne negava la passione reale, la natività da una vergine, anzi ogni natività; sperava nella risurrezione dell'anima, non in quella del corpo. Accettava il solo vangelo di Luca e nè pure intiero; di Paolo non tutte le lettere e non intiere» (ps. T.). Spirito conseguente e pratico, Marcione ha completato, organizzato e fuso le dottrine del maestro, non tanto per farne un sistema, quanto per renderle strumento di organizzazione.
Più tardi egli scrisse una lettera per giustificare la sua uscita dalla comunità (Tert. I, 1; IV, 4) in cui era forse contenuto come il proclama delle idee marcioniane. Del resto queste erano chiaramente esposte nella Bibbia in due parti, Εὐαγγέλιον e Ἀποστολιϰὸν, che Marcione stesso aveva compilato, includendovi un Luca arbitrariamente mutilo, e dieci lettere paoline: ai Galati, due ai Corinti, ai Romani, due ai Tessalonicesi, ai Laodicensi, agli Efesini, ai Colossesi, ai Filippesi, a Filemone. Per giustificazione di così singolare raccolta biblica, l'eretico compose un'opera intitolata Ἀντιθέσεις, appunto perchè mostrava la incompatibilità dei due elementi, cozzanti nel vecchio e nel nuovo Testamento. La caratteristica particolare del pensiero marcionita, quella che distingue la tortuosa metafisica dell'eretico da tutti i tentativi gnostici anteriori, è la pretesa di ricondurre il cristianesimo alla semplicità genuina impressagli dal Redentore, nella sua novità clamorosa, di fronte a tutta la tradizione giudaica. Di più, come nota giustamente l'Harnack, egli, diversamente dagli gnostici anteriori, fu guidato, più che da una preoccupazione speculativo-scientifica, da una esigenza soteriologica: «Erumpunt dicere», esclama Tertulliano (I, 17), «sufficit unicum opus deo nostro, quod hominem liberavit summa et praecipua bonitate sua, et omnibus locustis anteponenda»; riponeva nella fede, più che nella gnosi, ogni sua forza: Apelle, suo discepolo (Eus. H. e. V, 13), «adserebat, non oportere omnino fidei discuti rationem, sed unumquemque debere in eo quod credidit permanere»; egli non adoperò mai per la esposizione delle sue idee elementi di culto semitico o metodi propri della filosofia religiosa greca: tanto che nessuno dei suoi avversari gli ha attribuito in proprio un sistema; infine non ha concepito una distinzione fra la religione della massa e quella degli iniziati, così nettamente come i precedenti gnostici. Queste note individuano senza dubbio l'opera di Marcione, e le imprimono un carattere intermedio, fra le esagerazioni della speculazione gnostica e la purezza dell'ortodossia. Harnack sembra però esagerarne la portata, e snaturarle, per dedurne una figura di Marcione molto meno gnostica di quel che a noi non sembri. In realtà, Marcione ha difeso il concetto fondamentale della gnosi: la separazione della materia dallo spirito, lo sprezzo della natura creata. Spirito pratico, però, egli ha lasciato da parte i problemi cosmologici, per attenersi con maggiore fedeltà a quelli etici: di più, ha voluto fare una epurazione interna del cristianesimo, e ha voluto liberarlo da ogni vincolo di parentela dal mosaismo. Egli è un paolino paradossale: un teologo che, sospinto da una austerità esaltata, ha sospirato la liberazione dell'anima da ogni contatto materiale. La confutazione di Tertulliano può suggerirci un'idea approssimata delle sue teorie. «Occorre», dice Marcione, «ammettere due dei: "quem negare non potuit", nota Tertulliano, "id est Creatorem nostrum, et quem probare non poterit, id est suum"». Il primo, creatore della natura e quindi causa del male; e il nuovo, manifestatosi in Cristo. L'eretico di Sinope, partiva dalla contemplazione delle cose imperfette e immonde che sono nel cosmo, per negare la bontà di chi lo ha creato. Tertulliano lo ribatte eloquentemente: «At cum et ammalia irrides minutiora, quae maximus artifex de industria ingeniis aut viribus ampliavit, sic magnitudinem in mediocritate probari docens, quemadmodum virtutem in infirmitate secundum Apostolum, imitare, si potes, apis aedificia, formicae stabula, araneae retia, bombycis stamina; sustine, si potes, illas ipsas lectuli et tegetis tuae bestias, muscae spicula, culicis et tubam et lanceam. Qualia erunt maiora, cum tam modicis aut iuvaris aut laederis, ut nec in modicis despicias Creatorem? Postremo te tibi circumfer, intus ac foris considera hominem: placebit tibi vel hoc opus Dei nostri, quod tuus dominus, ille deus melior, adamavit, propter quem in haec paupertina elementa de tertio caelo descendere laboravit, cuius causa in hac cellula Creatoris etiam crucifixus est. Sed ille quidem usque nunc nec aquam reprobavit Creatoris qua suos abluit, nec oleum quo suos ungit, nec mellis et lactis societatem qua suos infantat, nec panem quo ipsum corpus suum repraesentat, etiam in sacramentis propriis egens mendicitatibus Creatoris. At tu super magistrum discipulus, et servus super dominum, sublimius ilio sapis, destruens quae ille desiderat. Volo inspicere si ex fide saltem, ut non et ipse quae destruis, appetas. Adversaris caelo, et libertatem caeli in habitationibus captas. Despicis terram plane inimice, iam tuae carnis matricem, et omnes medullas eius victui extorques. Reprobas et mare, sed usque ad copias eius, quas sanctiorem cibum deputas. Rosam tibi obtulero, non fastidies creatorem. Hypocrita, ut apocarteresi probes te marcionitam, id est repudiatorem creatoris (nam haec apud vos pro martyrio affectari debuisset, si vobis mundus displiceret), in quamcumque materiam resolveris, substantia creatoris uteris. Quanta obstinatio duritiae tuae! Depretias in quibus vivis et moreris» (I, 14). Questo movimento oratorio, col quale Tertulliano fa risaltare le contradizioni inerenti alla tesi marcionita, e in genere ad ogni rigido pessimismo, è felicissimo. Marcione cerca di giustificarsi con i passi scritturali: ma i suoi testi sono adulterati, male accoppiati, sforzati. Coerente ai suoi principii, Marcione vieta il matrimonio, e si consuma in un desiderio suicida di annientamento corporeo. («Quis enim tam castrator carnis castor, quam qui nuptias abstulit?» esclama l'apologista). Scandalizzato dalla tenace arroganza con la quale l'eretico di Sinope cerca di scindere la storia umana in due periodi antitetici: quello del terrore (sotto il Dio giudaico) e l'altro dell'amore (dopo la venuta di Gesù), il prete di Cartagine crede venuto l'anticristo. Più esattamente, noi possiamo vedere che il pensiero di Marcione è meno audace di quello degli altri gnostici. Forse la disciplina ecclesiastica lo ha temuto più degli altri: ma, filosoficamente parlando, il suo sistema non è così complicato e così originale come quello dei suoi contemporanei e predecessori eretici. Egli si contenta di patrocinare un diteismo, più legale che cosmologico, e di strappare il Vangelo alla sua matrice: al Vecchio Testamento: nello stesso tempo le sue tendenze morali si allontanano recisamente dalla licenza valentiniana, e oscillano verso le rigidezze encratite. In realtà egli è uno gnostico e mezzo. Tanto vero che la sua setta ha dato dei martiri (E. h. e. V, 16), e il suo più illustre discepolo Apelle, è tornato completamente, se non all'ortodossia, al monoteismo: «Manifestum», dice Eusebio (H. e. V, 13) «tamen decernebat de Deo, unum esse principium, ut et nos dicimus».
Questo Apelle scrisse una voluminosa opera, intitolata Sillogismi. Ambrogio (De par. V, 28) ne nomina il tomo 38°. Conteneva la dottrina marcioniana, depurata dal diteismo. Apelle vi repudiava anch'egli la legge e i profeti; vi cercava di provare che tutto quello che Mosè ha scritto intorno alla divinità è falso (ps. T.); vi proponeva questioni insulse e difficoltà accademiche contro il V. T., di cui Origene e Ambrogio riportano parecchi esemplari. Ne cito qualcuno: «Apelles dum assignare cupit, scripta Mosis nihil in se divinae sapientiae nihilque operis sancti spiritus continere, exaggerat huiusmodi dicta et dicit, nullo modo fieri potuisse ut tam breve spatium tot animalium genera, eorumque cibos, qui per totum annum sufficerent, capere potuisset: (si tratta dell'arca). Cum enim bina et bina ex immundis animalibus, hoc est, bini masculi et binae feminae – hoc enim indicat sermo repetitus –, ex mundis vero septena et septena, quod est paria septena in arcam dicantur inducta, quomodo, inquit, fieri potuit istud spatium, quod scriptum est, ut quatuor saltem solos elephantes capere potuerit? Et posteaquam per singulas species hoc modo refragatur, addit super omnia his verbis: constat ergo factam esse fabulam; quod si est, constat, non esse a Deo hanc scripturam» (Orig. in Gen. Hom. II, 2. Lommatsch. VIII, 134). E Ambrogio ricorda: «Iterum quaestio: Sciebat praevaricaturum Deus Adam mandata sua an nesciebat? Si nesciebat, non est ista divinae potestatis assertio; si autem sciebat et nihilominus sciens negligenda mandavit, non est aliquid Deo superfluum percipere; superfluum autem praecepit protoplasto illi Adae, quod eum noverat minime servaturum: nihil autem Deus superfluum facit: ergo non est scriptura ex Deo. Hoc enim obiiciunt, qui Vetus non recipiunt Testamentum et has interserunt quaestiones» (VIII, 38). L'astio marcionitico doveva essere molto vivo contro il V. T., se ricorreva a difficoltà tanto minute, talora anche grottesche. D'altra parte, appare da queste difficoltà che non se ne concepiva allora altra interpretazione, se non letterale. L'esegesi del N. T., per gli gnostici, era ben diversa!