OPERETTA INTORNO AL GALLEGGIARE DE' CORPI SOLIDI DI GIORGIO CORESIO.

ALL'ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO SIGNORE

PADRON MIO COLENDISSIMO,

IL SIGNOR PRINCIPE

DON FRANCESCO MEDICI.

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Il desiderio, che ho sempre avuto, di corrispondere con qualche virtuoso effetto all'obbligatissima mia servitù verso il Serenissimo Gran Duca suo fratello, mio Signore, m'indusse a formare, come ho fatto, il presente Discorso intorno al galleggiare de' solidi secondo l'opinione d'Aristotile, per l'occasione che già diedero di ciò le superbe machine fatte nelle reali nozze dell'A. S. e la continuata favoritissima sua protezione verso di me, dedicandolo a V. E pubblicarlo, cioè porgere al mondo la fatica mia stabilita ed illustrata con l'autorità e splendore di Lei. La quale con ogni riverenza supplico ad accettarlo, e per fare questo nuovo onore, che è grandissimo, all'ossequentissima devozione e servitù che le tengo, e sì per accrescere l'ardire a quelli che la riveriscono di spendere allegramente il tempo a benefizio universale con lodevoli fatiche. E riverente all'E. V., Le prego ogni contento da Chi può dar ogni bene.

Di Firenze, il dì 10 di settembre 1612,

Di Vostra Eccellenza

Servitore devotissimo e umilissimo

Giorgio Coresio.

DICHIARAZIONE DELL'OPINIONE D'ARISTOTILE

INTORNO AL GALLEGGIARE DELLA FIGURA

di

GIORGIO CORESI,

NOBILE GRECO,

LETTORE DELLA LINGUA GRECA NELLO STUDIO DI PISA,

contro l'opposizione del Signor Galileo Galilei.

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Se gli uomini si quietassero ugualmente nella cognizione del vero, Illustrissimo ed Eccellentissimo Principe, e non fossero più tosto dalla celeste Providenza partiti i petti e gl'ingegni di molto isvariamento, starebbono senza dubbio oltr'a tutti gli altri i letterati in continua concordia tra di loro e si goderebbono tranquillamente il proprio ozio. Ma poi che questo non è concesso, ma addiviene che ciascuno si muova a diversi fini e 'ntendimenti e operi secondo il numero delle forme dell'animo, che non è minor di quelle de' corpi, quindi è che nascono in altrui l'opinioni diverse, e da queste le discordie il più delle volte, non meno tra gli uomini volgari delle cose loro, che delle scienze tra' letterati; le quali, come l'altre cose caduche, secondo gli autori e le qualità loro camminano a diversi fini di bene e di male, non altrimenti che ne' reggimenti le discordie civili che mutano le forme primiere, perchè altre portano alla dirittura delle leggi loro peggioramento, ed altre miglioramento. Ma se vorremo considerare quali di queste apportino più spesso alcun bene a' mortali, non si dubita che più spesso d'ogni altra il fanno quelle degli scienziati, conciosiacosa che la loro contenzione illustri sempre via maggiormente la verità delle cose, e la maestà sereni della sapienza umana. Per lo che sono coloro grandemente da commendare, che per acutezza d'intelletto porgono a' dotti occasioni di contemplazioni nuove e maravigliose, così risvegliando gl'intelletti altrui, troppo per aventura addormentati nell'ozio, ovvero generando nuovi parti al mondo. Il muoversi, adunque, qualche volta alcuna discordia tra' letterati sarà cosa utile, bella e gioconda e degna altresì d'un amator di virtù, e conveniente alla difensione che si dee prendere degli uomini grandi e delle dottrine di quegli in cui altri ha smarrito il fior degli anni suoi. Là onde, essendo uscito fuori il Discorso del Signor Galilei, e considerate in quello cose degne di impugnazione, ho giudicato grazioso e forse utile agli amici miei e, secondo l'opera e 'l tempo, cosa degna di qualche stima, imprendere in brevi divisamenti ad impugnare con le seguenti mie ragioni alcun sue proposizioni, affinchè da questo, in un certo modo, sprovveduto e contenzioso accidente si produca qualche effetto conveniente alla filosofia, che dovrà forse essere il nascimento di molte considerazioni intorno alla 'nvestigazion del vero; avvegnachè, come dice quel savio greco, la dubitazione sia madre della 'nvenzione. E potrà in alcun modo avvenir questo a noi proporzionatamente alle proposizioni che pigliamo ad oppugnare: contro le quali volgo queste presenti mie ragioni come amico della verità, che supera ogni altra cosa in nobiltà, per lo cui abbellimento si ha volentieri a combattere e soffrire ogni molestia e fatica; perchè, se per la sanità del corpo ci sottopogniamo a cose travagliose, dobbiamo questo molto più fare per essa sanità e forma dell'anima, che è, secondo Aristotile, come una tavola rasa. L'obbligo, adunque, di difender questa, e non altra cosa, mi ha mosso a formare queste ragioni contr'al Discorso del Galilei, estimando che egli l'abbia mandato in luce per risvegliare più tosto gli animi de' letterati, che per altra sua opinione. Ma perchè da' fondamenti, come dice Demostene, si conosce ogni azione, terminando ora mai il proemio, che dee essere, come pur vuole Platone, breve verso gli amici, sarà bene ch'io mi rivolga a por quelli che sono necessari a quest'Operetta delle nostre ragioni: e lasceremo il giudicare di essi (perciocchè gli amori propri difficilmente lascian mutare sentenza altrui) a gli uomini d'alto e incorrotto intelletto. E discendendomene già già all'opera, porrò imprima in essa i fondamenti universali, e poi i particolari, adattando partitamente alle proposizioni del Galilei quelle risposte che saranno convenienti alla qualità delle nostre ragioni.

Discorso Primo.

Che 'l ghiaccio sia acqua per sè condensata.

Le parole, adunque, onde il Galilei prende la mossa alle sue proposizioni, diano cominciamento a questo primo nostro Discorso. Le quali sono, che trovandosi in una conversazione di letterati, fu detto che 'l condensare era proprietà del freddo e glie ne fu addotto l'esempio del ghiaccio; a' quali disse, credere più tosto il ghiaccio essere acqua rarefatta che condensata, perchè la condensazione partorisce diminuzione di mole ed augumento di gravità, e la rarefazione fa maggior leggerezza ed augumento di mole, e l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, e 'l ghiaccio esser più leggieri dell'acqua, standovi a galla. Intorno alle quali parole sono da considerare tre cose: che 'l Galilei contr' a quei letterati o negava il ghiaccio esser condensato, negando essere proprietà del freddo il condensare; o vero non negava questa proposizione in universale, ma in particolare sì, cioè che 'l freddo non condensava il ghiaccio come l'altre cose; o vero egli intendeva, il ghiaccio non essere rarefatto propriamente, ma accidentalmente.

E cominciando dal primo modo della distinzione, sarò breve, sì perchè la cosa è assai ben manifesta, sì perchè queste materie sono diffusamente trattate da altri. Ma non per tanto tralascerò le descrizioni d'Aristotile del caldo e del freddo, nel secondo libro della Generazione e corruzione, ove dice: Il caldo è quello che congiugne le cose del medesimo genere, o vero quello che disgiugne le cose del diverso; e 'l freddo e quello che congiugne tanto le cose del medesimo genere, quanto quelle del diverso. Ma è da notare intorno a tale descrizione, che se bene la cera con la pece e li medicamenti e altre simiglianti cose, tra loro diverse, si congiungono insieme dal caldo, basti che egli fa ancora questo, secondo gl'interpreti d'Aristotile, per ragion di qualche simiglianza: e 'l medesimo ristrigne ancora qualche volta per accidente, discacciando le cose umide, come per accidente e non propriamente nel fango avviene, cioè non per la virtù dell'operazione, ma per la disposizione della materia che, avendo poca umidità e quella cacciata dal sole, viene a condensarsi. E venendo alla descrizione del freddo, egli, quantunque propriamente congiunga le cose tanto del medesimo genere, quanto quelle del diverso, nientedimeno disgiugne ancora per accidente, scacciando le cose sottili: come si vede nello 'nverno, che, mediante il costregnimento del gran freddo, vengono premute le lagrime da gli occhi; dileguandosi nel medesimo modo, per lo agghiacciamento, le parti sottili dall'acqua. Ma torniamo alle descrizioni d'Aristotile, che non è da dubitare s'elle sian vere: perchè, elevandosi dalla terra e dall'acqua, riscaldati da' raggi del sole operanti la rarefazione, due aliti, esalazione e vapore, le parti della terra per cotali ragioni divengono rade e si convertono in esalazioni fumose; il vapore, per lo contrario, levato in alto e congelato dal freddo e per la gelazione condensato, si fa pioggia o rugiada o brina o grandine o neve. E simigliantemente dal caldo s'allargano i pori ne' corpi degli animali, e li medesimi dal freddo, per contrario, si ristringono; e queste, con altre simili cose, sono manifeste al senso: come anche è manifesto, la cera liquefatta, rappigliandosi dal freddo, unire mescolatamente insieme sassetti e altre simili materie, le quali sono poi dal caldo disunite. E questo è sì chiaro, che se alcuno lo volesse negare, negherebbe, oltr'alla ragione, ancora il senso; principalmente considerando che le nature, le quali hanno queste operazioni, sono tali, cioè che il fuoco e l'aria sono rari e perciò rarefanno, e l'acqua e la terra sono densi e perciò condensano, e ciascuno di questi dà solamente quello che ha, e non mai quello che non ha. Onde Simplicio, nel comento 70 del terzo del Cielo, dice a questo proposito eccellentemente in questa guisa: «e simigliantemente e li Pitagorici, ricorrendo alle figure piane, e stimando le figure e le grandezze essere le cause del caldo e del freddo; imperciochè quelle che sono disunitive e divisive ritenevano senso di caldo, e quelle che univano e condensavano ritenevano quello del freddo, e perciochè ogni cosa secondo la sostanza vien di poi fatta quanta; ma la figura, eziandio che ella sia qualità, nientedimeno è presa del genere della quantità, per lo che ciascheduno de' corpi è un quanto figurato». E nel medesimo luogo soggiugne: «E questa instanza sciogliendo Proclo dice, bene al producente il freddo essere stata assegnata conveniente figura, e bisognare insieme ridurre a memoria, del caldo, in che modo non dicevamo la piramide essere il caldo, ma la virtù incisiva, per quella acutezza che è secondo gli angoli, e per quella sottigliezza che è secondo i lati; che adunque il freddo nè esso sia il primo, siccome nè il caldo, ma la virtù di alcuna figura, e che, come questa è divisiva, così quella è unitiva per iscacciamento, e che, come questa secondo l'acutezza degli angoli e la sottigliezza de' lati, così, per lo contrario, quella per l'ottusità degli angoli e grossezza de' lati, opera. È contraria virtù, adunque, questa a quella, non essendo contrarie le figure, ma le virtù che sono nelle figure; e inferisce la ragione non figura, ma virtù contraria. Qualunque, per tanto, hanno angoli ottusi e lati grossi, queste hanno virtù contrarie alla piramide e sono unitive de' corpi. Ma tali elementi de' tre corpi: per lo che tutte le cose unitive sono costrignenti per iscacciamento; e solo il fuoco, come detto abbiamo, è disunitivo». Nè più oltre, del primo modo della distinzione.

E venendo al secondo, se l'Autore concede che 'l freddo condensi, ma non il ghiaccio, sarà una maraviglia che, condensando egli tutte l'altre cose, rarefaccia solamente l'acqua; e massimamente perchè, essendo l'operazione d'esso una in numero, come potrebbe mai fare cose contrarie in un medesimo tempo? Ma che il ghiaccio sia acqua condensata, e non rarefatta, dimostrisi con queste ragioni:

Il ghiaccio si fa lo 'nverno, quando il freddo costrigne tutte le cose; costrignerà, adunque, altresì lo ghiaccio: perchè essendo il freddo una causa, non può produr due effetti, e contrari, in un medesimo tempo.

Il ghiaccio, se fosse acqua rarefatta, non costrignerebbe insieme cose diverse: perchè le cose, quanto più son rarefatte, tanto meno ritengono.

Le cose più sensibili al tatto e più visibili sono più dense: il ghiaccio è più sensibile al tatto e più visibile che l'acqua: adunque il ghiaccio è più denso di essa.

Le cose, quanto son più dense, tanto più difficilmente si tagliano: il ghiaccio più difficilmente si taglia che l'acqua: adunque è più denso di essa. E tagliansi più difficilmente le cose più dense, per l'union maggiore delle parti, quando però non fossero secche, come il ferro, per la cui durezza il piombo, ben che sia di lui più denso, nulladimeno più facilmente si taglia. Ma parliamo delle cose del medesimo genere: e così sarà vero che mai le cose, diventando più rare, siano più forti; perchè vengono a disunirsi, e la disunione partorisce la debolezza.

Quello che si rarefà e s'assottiglia dal caldo, innanzi è costretto dal freddo: questo avviene nel ghiaccio: adunque non è raro, ma denso.

Il ghiaccio se non fosse fatto per congelazione, nessuna ragion ci avrebbe per la quale, non essendo dell'acqua più freddo, e' si facesse in ogni modo sentir più gelato, come e' fa; se questa non fosse la densità, la quale, per aver maggior quantità di parti, opera più, in quanto nella maggior quantità è maggior virtù: come si vede che il caldo abbrucia più nel ferro infocato che nella fiamma. E per la medesima ragione il ghiaccio è ancora secco, e si ditermina da' termini propri, dileguandosi, per lo costrignimento e gran frigidità, contraria all'umido, le parti umide in esso; perciochè, sì come l'umidità non può stare col gran caldo, com'è quel del fuoco, così non può stare con l'estremo freddo.

Se 'l ghiaccio non si facesse per costrignimento, qual sarebbe la ragione per la quale l'acque delle nevi e de' ghiacci fossero malsane, se nel costrignimento, come dice Ippocrate e Aristotile, non uscissero le parti più sottili e rimanessero le terree? E da questo nasce che, nel disgelarsi il ghiaccio o la neve, l'acqua non ritorna mai in quella medesima quantità che era innanzi alla congelazione.

Il ghiaccio, se fosse più raro dell'acqua, si dissiperebbe più facilmente di essa; ma veggiamo il contrario, che resiste più; adunque è più denso di essa, e più resiste: come degli elementi, l'acqua e la terra resistono più che 'l fuoco e l'aria, come che questi abbino maggiore operazione.

E, finalmente, se 'l ghiaccio non fosse cosa costretta e condensata, non avrebbe nè da' Greci, nè da' Latini, nè da altri, conseguito nome di tal concetto: i quali essendo nel corso di tanti secoli stati tanti e di sì gran valore nelle scienze, non sarebbe mai stato possibile che tutti si fossero ingannati. Perchè, lasciando altri argomenti che si potrebbono fare, seguiamo il proverbio che dice: Lascia anche qual cosa a' Medi.

Se poi il Galilei intende, il ghiaccio essere acqua rarefatta per accidente, come diremo poi, è errore il contradire in quella maniera che fa, perchè non si niega mai la proposizione necessaria per accidente alcuno: se egli però non volesse ancora negare che Pietro fosse sustanza, perchè come padre o filosofo fosse accidente; perciochè, sì come questo non si dee fare, così ancora non si può negare che 'l ghiaccio non sia condensato, se bene per accidente è rarefatto. Ma è da distinguere la rarità secondo le diverse cause: delle quali una è secondo la sottigliezza delle parti, di cui Giovanni Grammatico, nel secondo della Generazione parlò così: L'aria diciamo rara e l'acqua densa, non perchè le parti dell'aria siano distanti tra di loro e abbino interposti vacui, perchè veramente niente è di vacuo nell'aria nè altro corpo è interposto tra le sue parti, ma perchè l'aria ha sustanza sottile e l'acqua grossa. E pare che questa densità proceda dalla sustanza del freddo, e la rarità del caldo. L'altra rarità è, la quale non consiste nella sottigliezza della sustanza, ma nella distanza delle parti tra di loro, come nella spugna. E questa rarità è quella che si fa nel ghiaccio: poi che non tutte le parti dell'acqua sono atte a congelarsi, ma quelle che hanno qualche siccità, per tenere più di terra, che le fa anche più grosse; e però le parti più sottili, come inette, sono cacciate, e, per supplire al vacuo, parte si costringono le grosse, e parte vi resta l'aria che l'agghiaccia.

Discorso Secondo,

nel quale si pruova che Aristotile senza ragione è biasimato dall'Autore, intorno a' principî del discendere il solido.

Ora, poi che l'Autore dice che Aristotile non conobbe che 'l più grave discendesse più giù, cioè che le parti terree non cercassero d'andare al luogo loro, cosa veramente che non solo da Aristotile, ma nè da niun altro, quantunque rozzo, è stata mai ignorata, toccherò per necessità alcuni luoghi del medesimo Aristotile, da' quali si cava la vera specolazione di questi principî. E perchè il discendere, come il salire, son moti secondo l'ove, considereremo intorno a ciò alcune cose, per conoscere quello che fa di bisogno in questo proposito.

Dico, per tanto, che nel moto locale degli elementi si hanno da considerare cinque cose: il movente, principio del moto; il mosso; il luogo; la causa finale; e 'l tempo. Quanto al principio, o ver causa, si distingue in due modi: nell'essenziale ed accidentale. E dall'essenziale, che produce il moto, cominciando, intorno ad essa considereremo cinque opinioni, differenti l'una dall'altra. Poichè:

Empedocle ebbe opinione che 'l cielo fosse principio, scacciando col suo rapidissimo moto gli elementi. Che fu in questa guisa rifiutata da Aristotile: Se 'l cielo scacciasse gli elementi, i moti loro sarebbono violentati. Oltracciò, l'aria non si muoverebbe in giù, ma sarebbe scacciata dal cielo. Altri dicono che, non avendo il cielo altro moto che quel della luce, non può muover gli elementi. A questo aggiungo che l'agente sarebbe molto lontano dal mosso. Ma s'Empedocle non avesse detto altro che quello, cioè che 'l cielo fosse principio, senza quell'altre parole «che scaccia gli elementi», non direbbe forse una novella; considerando io che Aristotile, nel terzo delle Meteore, ci insegna che le qualità degli elementi procedono dal cielo, anzi, come saviamente dice Ermino, il mondo inferiore al superiore viene ad essere come materia all'operante; e però i filosofi dissero che tutte le cose del mondo sottano si governano dal sovrano, costituite da esso per azione ovver privazione.

E la seconda opinione fu di quegli che pensavano che 'l luogo fosse principio; perchè il desiderio d'esso muove gli elementi ad acquietarsi e riposarsi in lui. Ma egli non è veramente causa; ma è piuttosto causa di quiete, che di moto. È adunque causa finale, e non efficiente: per lo che Alessandro e Simplicio dividono il moto dell'elemento in due modi; nel proprio, in quello cioè che riceve dal generante per acquistare il suo luogo, e nell'accidentale, quando uscitone cerca di riacquistarlo; là onde è manifesto che 'l luogo è causa finale, e non agente. Abbiamo fino a qui veduto il mosso e 'l luogo, lasciata al presente la causa finale, di cui parleremo poi.

La terza opinione fu di quelli che tennero principio il generante; poi che chi dà la forma, dà ancora le cose che la seguono. Ma questi parlano delle parti degli elementi, che sono generabili e corruttibili, e non del tutto. Generante sarà poi quello che trasmuta da un elemento a un altro, qual che si sia o sole o elemento. La quale opinione si conferma con due prove: una d'Aristotile, il quale, nell'ottavo della Fisica e nel quarto del Cielo, facendo differenza tra le cose animate e inanimate, dice l'animate muoversi da principio intrinseco e l'inanimate da estrinseco, cioè dal generante; e l'altra, ben che sia anzi ragione che autorità, nulladimeno è fondata in Aristotile, ed è questa: che ogni cosa che si muove, e mossa da altra; perchè niuna cosa può da sè medesima patire, nè esser più nobile di sè stessa, conciosia cosa che l'agente sia più nobile del paziente.

La quarta opinione fu di coloro che vollono, la causa essere il togliente lo impedimento, in quanto, essendo lo elemento impedito da lui nel muoversi, chi lo toglie opera che l'elemento vada al luogo suo. Ma questa è causa per accidente, e conferisce a togliere lo 'mpedimento, ma non al moto naturale dell'elemento: ed èvvi ancora altra ragione, che la causa volontaria non può produrre effetto naturale.

La quinta ed ultima ebbero quegli che dissero, muoversi gli elementi dalla propria natura, cioè dalla forma, essendo la materia solamente radice delle passioni. Perciò affermarono alcuni che in latino si dice actus, perchè agit; non avendo considerato loro, che in greco si dice εντελέχια, per aver ridotta la cosa nel fine, come la significazione del vocabolo vuole, sì che dice fine per lo quale la natura opera propriamente, come è l'anima: onde Aristotile chiamava la natura fine di ciascuna cosa. Significa anco l'operazione, in quanto anch'essa è come fine. Ma ritorniamo al nostro proposito. Cotale opinione fu fondata nel testimonio d'Aristotile nel 2 della Fisica, ove dice, a distinzione delle cose naturali dalle artifiziali, le fatte dall'arte non avere in sè stesse per sè principio di facimento: adunque le cose naturali avranno in sè stesse principio attivo. E nello stesso libro egli dice, aver detto per sè, e non per accidente, per cagione del medico sanante sè stesso. E tale fu l'opinione di Temistio, nell'ottavo della Fisica, ove parla così: «Diciamo, il fuoco da altro esser mosso all'insù e la terra all'ingiù, perchè da altro son fatte queste cose, e non si fanno da sè stesse; ma quando sono generate, subito e per quella natura per la quale sono generate operano»; fondata in quell'autorità d'Aristotile, nel secondo della Fisica, che vuole che l'effetto esistente in atto abbia in atto esistente la causa, e nel secondo della Posteriora, ove dice, dell'effetto passato esserne passata la causa, del presente la presente, e del futuro la futura.

Ma oramai, e forse con brevità, abbiamo palesata la specolazione d'Aristotile intorno a' principî de' moti: parliamo adunque degli accidenti, come siano loro principî. Ma perchè opera la natura sempre mediante i suoi strumenti, che sono accidenti, di questi noi considereremo solamente quegli che conferiscono a tali moti. Per chiarezza della qual cosa dico che la sustanza, di sua natura, non è nè grave nè lieve: si fa, adunque, tale acquistando certi accidenti, i quali Aristotile, nell'ottavo libro della Fisica e nel terzo del Cielo, riferisce alla densità o rarità, veggendosi manifestamente che 'l fuoco e l'aria sono rari, e l'acqua e la terra densi; perchè, sì come la gravità dipende dalla strettura grande delle parti, così la leggerezza dalla largura di esse. E se mi dicesse alcuno che 'l corpo celeste è denso, ma non grave, adunque la densità non è causa della gravità; gli risponderei che noi non parliamo del corpo celeste, che ha l'essere diverso dalle cose presenti, cioè più perfetto: oltracciò dico che non ogni sustanza esequirà il medesimo effetto, datole il medesimo accidente; perchè si ricerca tal sustanza. Onde diciamo: L'acqua e la terra solamente, secondo la forma loro, possono fare tal effetto, mediante la maggiore o minor densità, secondo la maggiore o minore inclinazione verso quest'accidente della densità; e così eziandio de' misti, quel che ha più densità è più terreo, per essere la terra densissima, e tanto maggiormente questo interverrà, quanto le parti terrestri sono più pure; e quel che participa dell'aqueo, in tal parte è men denso della terra, per esser l'acqua men densa d'essa. Ma torniamo al proposito. La densità è, adunque, causa della gravità, come la rarità della leggerezza. Or, lasciata quella, dico che la gravità non è altro che un'attitudine e naturale inclinazione al luogo inferiore, come la leggerezza è naturale attitudine al superiore; onde, non essendo altro che potenza, non opera, ma sì bene è attitudine della causa nell'operare. Di più, l'operazione si fa da atto; adunque, non da potenza. E perciò non si dice mai che la gravità muova; come a uno che domandasse perchè l'uomo rida, non si risponderebbe: «Ride, perchè egli ha la potenza», ma «perchè ha la razionalità». Per lo che abbiamo ancora noi detto che la gravità è principio come potenza: la qual cosa considerò Aristotile ne' libri del Cielo, ove spesso nominò gravissimo quello che sta di sotto a tutti, e leggerissimo quello che sta di sopra a tutti; di poi disse, esser grave quello che va al mezzo e all'ingiù; e ne 'nsegna che gli elementi gravi si muovono all'ingiù per la gravità, ed i leggieri per la leggerezza all'insù. Onde è manifesto che, pigliandosi la gravità in due modi, o secondo la natura o secondo il moto, Aristotile ne parlò tanto chiaramente dell'uno e dell'altro, che quasi niuno degli interpreti v'ha che non abbia cavato da lui che la gravità e la leggerezza sono principi strumentali del moto; poi che c'insegnò come i corpi si muovono mediante l'interiore inclinazione loro, e tal inclinazione non sia altro che la gravità e la leggerezza.

Rimane il tempo, cioè quando si muove il mosso: conciosiacosa che, essendo il tempo numero de' moti, non possa mai essere moto senza tempo; e però Platone lo diffinì «immagine mobile dell'eternità ed intervallo del moto del mondo», e fece il medesimo Aristotile chiamandolo «numero»: onde il moto si dice temporale, non perchè si faccia in tempo, a guisa d'azione, ma perchè è misurato da esso, facendosi l'azione nello istante, come la intellezione, la illuminazione e simili altre cose. Il moto, adunque, non è azione. Ma in che modo è misura il tempo? La misura è, secondo Simplicio, o numero o grandezza o luogo o tempo; il numero misura la distinzione; la grandezza misura lo intervallo; il luogo, la posizione; il tempo, l'estensione della generazione, diterminandola secondo il prima e 'l poi. Ora, presupposto questo fondamento, si tolgono via due cose: il vacuo e 'l cedere. Il vacuo: perchè se non fosse la continuità del mezzo, che per la successione delle parti ritarda il moto, non potendo essere in un medesimo tempo in tutte le superiori e inferiori, non sarebbe mai moto; è adunque necessario il mezzo. Si toglie ancora il cedere senza resistenza, più velocemente muovendosi il più grave del meno: all'incontro, nuotando per l'aria alcune cose di minima gravità e altresì per l'acqua, si farà variazione per la figura e secondo il mezzo; perchè si muoverà una cosa più velocemente nell'aria che nell'acqua, e un sasso si muove ancora più velocemente nel fine che nel principio, e più velocemente da un luogo più alto che da un più basso; similmente una nave s'immergerà più nell'acqua dolce che nella marina, e nella stess'acqua un legno quanto sarà più grave si profonderà più: e la causa di questo non dipende da altro che dalla resistenza del mezzo, in quanto ella più o meno vince; ove se le parti avessero a dar luogo senza resistenza, non si vedrebbe la cagione perchè dessero più luogo ad uno che ad un altro e come si facesse la variazione. Onde l'opinione di coloro che stimarono che 'l mezzo e la figura non operasse proporzionatamente al ritardamento del moto del mobile, fu sempre mai stimata vana dagli uomini savi. Ma trapassiamo oramai all'altro Discorso.

Discorso Terzo,

pertinente all'esamine delle cagioni del discendere il solido.

A formare questo Discorso mi muove il dubbio che nasce contro la naturale aspettazione, stimandosi che i corpi più gravi dell'acqua non galleggino, ma discendino al proprio luogo, come l'autorità d'Aristotile e d'Archimede conferma. E la ragione di questo è perchè la natura, che diede loro il proprio luogo di sotto come perfezione, gli diede ancora la maggior densità, acciochè, se lo perdessero, lo potessero di nuovo ancora racquistare; il qual fine non conseguirebbono, se per la maggior densità non vincessero, che contiene più forze della minore, da che nasce la pugna: perciochè il corpo più grave dell'acqua vuole acquistare il proprio luogo, e l'acqua non vuol soffrire il suo nimico appresso; in un certo modo suo nimico, mediante la siccità e la gran freddezza della terra, che, se bene non contraddice a quella dell'acqua, gli è nulla di meno contraria, in quanto la gran freddezza della terra porta seco gran siccità, che muta la natura o almeno l'altera molto, quando però è meno, come nel ghiaccio si vede, perchè Alessandro nel libro primo delle Naturali Questioni disse l'acqua mancare più di suo essere per la perdita dell'umido che del freddo, perciochè ella patisce, per passiva qualità che non vuole, come corpo, nè meno patir la sua divisione: come abbiamo già detto. Ma da questo fondamento nasce via più maggior maraviglia, perchè il corpo più grave non conseguisca il proprio luogo, ma si stia sopra l'acqua. La qual cosa Aristotile considerando, solve riducendone la causa alla figura piana, come quella del quattrino o della tavoletta d'ebano. La riferisce, dico, a una certa resistenza dell'acqua, non superata da quella: la qual resistenza è di due sorte; una, che, ritardando alquanto la vittoria all'inimico, è alla fine superata; e l'altra, che non è superata. Questa seconda si fa tra l'acqua e la materia terrestre in due modi: uno, per ragion della figura del solido, il quale, per aver le sue parti distese, è debole; e l'altro per la sua minima forza, per la quale non può vincere le forze inferiori: e questo secondo modo non toglie il detto d'Aristotile e d'Archimede, se bene in astratto, come di poi diremo, che parlano secondo il proprio modo del favellare, cioè che, data la medesima proporzione del più e men grave, il più grave supera, e 'l meno no. In contrario, la seconda resistenza è molto sproporzionata, e non fa niente in questo caso. Torno adunque a dire, che chi conoscerà la resistenza del mezzo, non avrà difficultà a intendere in qual modo le cose gravi galleggino, come si è di già detto: ma chi non conosce questa resistenza, è necessitato riferirne la causa all'aria; e la ragione è, perchè se l'acqua solamente cede, e non resiste alle parti del solido, non potrà sostenerlo, ma cederà alla sua sommersione; sarà, dunque, altra la causa che la sosterrà e questa sarà l'aria, concluderà un cotal bello ingegno. Ma all'incontro, se si farà manifesta la verità della resistenza, come s'è fatto in parte e come la esperienza dimostra, cioè che 'l quattrino non istà in aria ma in su l'acqua, si conoscerà che l'acqua lo sostiene perchè non può da forze minori delle sue esser divisa, tenendosi ella forte, come si vede, e non cedendo solamente.

Discorso Quarto.

In qual guisa l'aria sia o non sia vera cagione di far galleggiare il solido.

Nega finalmente al tutto il Galilei che la figura possa far galleggiare solido alcuno, e s'oppone ad Aristotile che afferma che ella il possa fare in alcuni. Ed in questo mi pare che l'opinion sua pur contraddica alle sue proprie ragioni: perchè, secondo lui, ancora l'aria non fa galleggiare i solidi in ogni sorte di figure, ma in alcune particolari solamente; onde, conseguentemente, ancora è necessitato a confessare che la figura ne sia in qualche modo la cagione. Imperciocchè, se l'aria mediante questa e non quella figura fa galleggiare il solido, significando la parola mediante causa istrumentale, ne seguirà necessariamente che anche la figura operi qual cosa: che è quello che niega l'Autore. Per cognizione della qual verità, dico ritrovarsi tre opinioni di questa cosa: due estreme, una di mezzo. La prima tiene che l'aria solamente operi; la seconda, l'aria e la figura; la terza, la figura sola: la prima abbraccia l'Autore, volendo che l'aria solamente, che si contiene nella concavità degli arginetti che si fanno intorno al solido dall'acqua, sia la cagione che i corpi più gravi in essa galleggino; la seconda è di quegli che vogliono che l'aria e la figura insieme faccino l'effetto.

Ma lasciamo, di grazia, l'equivocazione; e notisi non negarsi da noi che l'aria ritenga, ma il modo di ritenere che si dice. Può dirsi, l'aria in tre modi sforzare: o per predominio, come si vede nelle cose leggieri ed altri modi che l'aria ritiene; o per moto, come l'aria mossa dalla calamita tira a sè il ferro; o per simiglianza, qual si scorge nelle coppette o vero nelle putrefazioni: fuor di questi modi, se ne stà l'aria nella sua naturalità. Vediamo ora se l'aria toccando ritiene: e pensa l'Autore che ritenga per ragione d'affinità con virtù calamitica. Ma questa non è men desiderata dall'aria che da qualsivoglia altro corpo; ne seguirà adunque che ogni corpo, toccando l'altro, lo ritenga sospeso ed abbia virtù calamitica: il che è falso; perchè il corpo leggiere tocca, non tiene; il corpo grave non solamente tiene, ma di più spinge: adunque argomenta contra di sè medesimo. E dato che questo intervenisse all'aria sola e non agli altri corpi, doverebbe questo convenire a tutta l'aria; e ritirandosi ad un effetto particolare, doverebbe l'Autore renderne la ragione: anzi questa aria, accostandosi più all'acqua, doverà essere più umida, e per questo meno tenace; il che tanto più deve l'Autore tenere per vero, quanto anche, e contra Aristotile, niega che l'aria possa sostenere cose, per minime che elle sieno. Quello poi che si dice dell'affinità o contiguità, è molto ambiguo: perchè la natura non abborrisce la contiguità in particolare, perchè s'impedirebbono tutti i moti, ma sì bene l'universale, la quale consiste nel toccare, non nel tenere, che sono effetti diversissimi: che il toccare significa unione estrinseca di due corpi senza violenza veruna, ed il ritenere significa medesimamente unione estrinseca ma con violenza, massimamente che tanto tocca chi tiene, quanto chi spinge; e notisi come l'aria spinge i corpi toccandoli, come si vede ne' moti: sia che la natura vuole tra le sue parti una certa unione ed armonia, sia che non dà mai cosa alcuna ad esse che non riguardi la constituzione dell'universo, nè meno da lei si produce cosa alcuna a destruzzione dell'altra, se non per accidente, volendo conservare se stessa (perciochè se altrimenti operasse, sarebbe tra le sue parti una certa discordia, simile a quella che nasce tra' cittadini che si dipartono dall'unione di loro civiltà), per il che non viene corrotta la forma e l'ornamento primiero; onde dissero i filosofi che cosa niuna opera senza il fine della natura, tutte le cose di alcuna e per qualcuna facendosi; perchè Platone, nel dialogo Della natura, distinguendo le cause in due, una chiamò necessaria e l'altra divina, ponendo quella necessaria che opera per li mezzi, in quanto senza questa non si può conseguire il fine, e nominò poi il fine divino, come ottimo e simigliante alla causa prima, per il quale tutte le cose, che sono mezzi, s'incamminano; donde viene che nessuna opera contro la intenzione naturale nè contro l'altra, se non per utilità propria o comune, e perciò l'una non vuole la distruzzione dell'altra. Concludiamo per tanto che, se l'aria avesse da natura il ritenere in figura piana o in concava le materie terrestri, ne seguirebbono molti assurdi: perciochè questo contraddirebbe principalmente all'ordine di natura, alla intenzione dell'acqua quanto all'ordine, non quanto alla divisione; contradirebbe alla natura terrestre, e, quel che sarebbe inconveniente maggior di tutti, la stessa aria arebbe contrari desiderii in un istesso tempo, parte volendo toccare l'acqua per la somiglianza che ha con essa, e parte volendola ritenere per l'affinità; onde seguirebbe che, per la contrarietà d'appetiti naturali, anche avesse contrarie nature l'aria: ma se l'aria è contraria secondo la caldezza e umidità alla materia terrestre, la scaccerà più tosto che terrà, perchè ogni cosa più tosto vuole essere con il suo simile che con l'inimico.

Sia, di più, che se, data molto maggior quantità dell'aria che della terra, vince la terra, per essere molto densa, anzi serva la sua gravità nell'aria, con questo che resista alla divisione la medesima aria; come, adunque, sarà possibile che per contatto solo abbia a vincere la terra nell'acqua, e impedirla dal proprio luogo, una minima e così debole virtù, di natura molto rara e dissipabile?

E di poi, se poca aria sostiene poca parte terrestre, come aria, l'aria adunque che circonda la terra la sosterrà tutta; che ne seguirebbe che la terra non fusse nel proprio luogo: ma pur vi è: adunque la terra non è sostenuta dall'aria, e, per conseguenza, l'aria non sosterrà. Nè meno farà questo una parte di essa; perciochè quello che ha una parte di essa per natura, l'averà ancora il suo tutto.

Ed anche: ogni potenza la quale non viene all'atto, è invano; se adunque tal potenza è naturale, sarà invano nell'altra aria, poi che non tien mai tal materia.

Si dirà con ogni ragione che non è corpo, nel mondo, fatto unito che desideri esser diviso; anzi, cosa che si divide è divisa da altra, e nessuna cosa è divisa da sè medesima. Ora, presupposto questo, domando se l'acqua resiste dividendosi: se non, adunque non sarà corpo sullunare, perchè il corpo, come corpo, mai si divide da sè; se resiste, dunque l'aiuto dell'aria è invano, perchè se l'aria può sostenere certi corpi sottili, non sarà impossibile che l'acqua, corpo molto più sodo in suo paragone, possa sostenere alcuni corpi deboli senza l'aiuto di essa, e, come più soda, abbia a tenergli molto maggiori di quelli.

Sia la prima esperienza tale. Pongasi nell'acqua un vaso, di qualsivoglia materia più grave di essa, e, per l'avversario, galleggi per l'aria contenuta nella sua concavità; pesate due corpi di medesima gravità, ma disuguali di grandezza, e dipoi mettete dentro a quel vaso or l'uno or l'altro: tanto si sommerge con l'uno, come con l'altre. Or, se l'aria ritenesse, non doverebbono ugualmente sommergersi, essendo in uno maggiore copia d'aria che nell'altro; l'aria, dunque, o non ritiene, o tanto ritiene la poca quanto la molta: il che è assordo, perchè universalmente cresce la virtù dell'operare, estendendosi più la forma nella materia; perchè, sebbene la forma in sè stessa così in una quantità come nell'altra non riceve nè più nè meno, e pur è vero che, in quanto alla potenza dell'operare, riceve augumento. Presupposto, dunque, che nella maggior quantità s'accresca la virtù, si concluderà che l'aria non ritenga.

La seconda esperienza: empiasi un vaso di qualsivoglia materia men grave dell'acqua, sì che galleggi, e che tocchi per tutto, sì che cacci l'aria: bisognerà dire una delle tre cose, o che, per esempio, il legno sia fatto un composto con quel vaso che lo sostiene, o l'aria inclusa nel legno, o vero altr'aria che sia restata tra il vaso e 'l legno. Il primo non si può dire, perchè il legno da sè non sostiene, ma aggrava. L'aria inclusa nel legno non tocca il vaso; come adunque lo tiene? Quella poca aria che si contiene nella parte estrema, non può ritenere; perchè se tutta l'aria inclusa nel legno non lo ritiene per aria, ma discende violentata dalla terrestre parte, come potrà quella poca sostenere insieme il legno ed il vaso? Nè meno l'aria che si possi pensare rimasta tra il vaso e 'l legno, può aver forza di sostenerlo; perchè se tanta poca ha virtù di ritenere il vaso ed il legno, riterrà certo la medesima gravità o poco minore in figura sferica, perchè un medesimo peso lo porterà uno sotto qualsivoglia figura. Sì che non resta veruno scampo. E notisi pure come un tal solido galleggierà sempre tanto, quanto il peso del vaso lo sommerge sott'acqua.

La terza esperienza è, che un catino di rame, fin che non tocca l'acqua, viene in giù con moto continuo; ma arrivato all'acqua, nè anche spinto, nè ripieno di quel corpo grave, si profonda.

La quarta esperienza è, che se l'aria sollevasse peso per la figura piana, doverebbe chi pesa a suo pro o ferro o piombo fuggir la figura piana, quale farebbe per chi compera.

La quinta esperienza è, che quelli artefici che accommodano i legni da edifizio navale, hanno solo riguardo all'acqua, e non punto all'aria.

La sesta ed ultima esperienza è, che se l'aria potesse sostenere qualche nave in su, le impedirebbe il corso, perchè ritenuta non si muoverebbe. Non dico per ora de' notatori, che pur si veggono saldi star a galla non per altro che per la figura.

Concludiamo adunque, che il galleggiare, in quanto a' corpi leggieri, procede principalmente dal predominio dell'aria; quanto a' corpi più gravi dell'acqua, dalla resistenza del mezzo, perchè in tali l'aria inclusa può molto poco.

Prova che l'aria non potrebbe comunicare la leggerezza alla parte terrestre.

La comunicanza è, o per natura, o per participazione, o per arte, o ver per uso. L'aria non può comunicare la leggerezza alle parti terrestri per natura, perchè la tavoletta non è trasmutata nell'aria. Nè per participazione: perchè non possono gli elementi comunicar gravità o leggerezza se non mediante le qualità alteratrici, come sono le quattro prime degli elementi; e però non è cosa leggiera, che non sia aria o fuoco o cosa che abbia predominio da queste. Nè per uso: perchè l'uso non si comunica, ma si fa da sè. Non per arte, propria degli uomini. L'aria, adunque, non può in guisa alcuna tale comunicare la leggerezza alla materia grave.

Discorso Quinto.

Che la figura sola fa galleggiare il solido.

Per cognizione della verità di questa proposizione si ponga, in prima, che niuna sustanza in questo mondo sollunare opera se non mediante gli accidenti che sono convenienti alla sua operazione: in quella guisa che avviene all'artefice che ricerca gli strumenti accomodati alla sua opera, che, non gli conseguendo atti, ne viene in quella più tosto impedito che apperfezzionato; quantunque l'azione convenga più all'agente primario che al secondario, come Aristotile insegna nell'ottavo della Fisica, dicendo che la causa secondaria non opera per virtù propria, ma per virtù della primaria; e per questo nello stesso libro dice che 'l primario agente è più nobile del secondario. Per lo qual fondamento è necessario che la natura, la quale è produttrice de' moti, adoperi qualche strumento, senza il quale non opererebbe. E perciò Aristotile, nel sesto della Fisica, per la quarta condizione necessaria al moto: Che 'l mobile fosse quanto e passibile.

Secondo fondamento più particolare pogniamo. Se gli elementi si deono muovere, conviene che abbiano qualche figura. La figura è quantità terminata da superficie d'una o più linee; e questa è quantità continua e figurata. E perchè abbiamo detto che, se lo stromento sarà atto, concorrerà all'operazione, e se no che la impedirà più tosto; sarà ancora manifesto (essendo la figura strumento), che se 'l mobile l'avrà conveniente a dividerne il mezzo, facilmente egli se ne discenderà più veloce, e se disconveniente, non solo discenderà con tardità, ma gliene sarà bene spesso impedito interamente il moto.

Là onde, per esplicare la facilità o difficultà del mezzo, si ha da notare, nel terzo luogo, che, quanto al mobile, tal differenza nasce dall'essere più e men grave, come Aristotile nel quarto del Cielo afferma, dicendo: «Se la virtù della gravità supererà la resistenza del mezzo, discenderà più velocemente all'ingiù; ma se sarà più debole, soprannuoterà il mobile che avrà tal gravità»: e quanto al mezzo, se sarà più denso, sarà più difficile alla divisione; se più raro, più facile; e la ragione è che, essendo il denso quello che in poco distendimento contiene gran quantità di materia, e raro quello che in molto ne contien poca, ne succederà, conseguentemente, che secondo le proporzioni delle forze del denso e del raro ne nascerà la varietà de' moti più o men veloci. Ed in questo opera la figura. Ne seguirà finalmente che, non essendo il resistere altro che non essere vinto, che è una privazione, come Teodoro Metochita dice nella sua parafrasi della Generazione e corruzione, che la figura non produrrà tardità di moto operando, ma resistendo, che è privazione. E così non solo si dee chiamare strumento della natura operante che desidera il suo luogo, ma impedimento e cosa operante, non col mobile, ma col mezzo: perchè, sì come la molta virtù dell'agente è impedita grandemente dalla figura, così la poca è totalmente superata da essa; perlochè Aristotile, nel quarto del Cielo, vuole che la figura piana possa far soprannotare certi solidi, nel modo che si è detto e si dirà appresso. Perciò piglisi una materia, che nella figura sferica vada al fondo, e ridotta nella piana galleggi: dico che si farà manifesto che, volendo ritrovar la causa del galleggiare e avendo provato che non puote essere l'aria, resterà necessariamente che sia la figura. Perchè le cose, quanto sono più acute e più gravi, penetrano più facilmente, e quanto sono più ottuse e meno gravi, dividono più difficilmente: le materie, adunque, piane galleggiano, per lo mancamento dell'acutezza e della gravità, toccando l'acqua per lo lato piano, per tali cagioni non potendo rompere la superficie della molt'acqua; come possono fare quella dell'aria, non si potendo in essa sostenere per la debolezza del suo corpo. Là onde, paragonando le forze dell'aria e dell'acqua, si potrà concludere che, se l'aria sostiene un corpo in alcuna gravità, l'acqua ne sosterrà un altro in una molto maggiore. E considerata la resistenza dell'un mezzo, maggiore, e quella dell'altro, per la maggior estensione delle parti nella figura del solido non sarà difficile comprendere come l'acqua possa sostenere le materie gravi, in paragon dell'eccesso delle forze divenute, per l'accidente detto, meno potenti delle sue; servata però l'egualità delle forze della materia mobile in tutte le parti della figura, senza pendere per qualche accidente più da una che da un'altra parte.

Risposte particolari alle proposizioni del Discorso del Galilei.

Posti i fondamenti universali delle nostre ragioni, conviene oramai rispondere in particolare alle proposizioni del Galilei che contengono in sè cose conveniente alla nostra presente materia.

Dico adunque che, di quelle che nel proemio si ritruovano, è da concedergli quella che 'l mettere in carta manifesta più la verità o falsità delle opinioni, che non fa il disputare in voce; sì perchè, tralasciando altre ragioni, colui che non mette in carta, può sempre mai negare il suo detto; sì ancora perchè altri non può così facilmente, essendo il tempo della disputa breve e fuggevole, in quel subito trascorso sceverare il vero dal falso e discoprire le fallacie delle cose che si dicono. Questo provano i proverbi seguenti: «Il tempo solo è giudice di tutte le cose»; e l'altro: «Il tempo tutte le cose occulte conduce a luce». E concedesi altresì la sentenza d'Alcinoo, che 'l filosofare dee essere libero. Ma che dobbiamo stare nella ragione, e nell'autorità no, non lo consentiamo; perchè è palese che gli uomini grandi fecero sempre grande stima dell'autorità, e Aristotile se ben disse: «Amico Socrate e Platone, ma più amica m'è la verità», nulladimeno citò spesso nelle sue opere diversi autori: ed ènne la ragione, che 'l volersi partire dall'autorità seguita da un consenso grandissimo di savi, e massimamente senza esperienze e ragioni evidentissime, è veramente una cosa temeraria, e porge sospetto e occasione giusta di dire che uomo non intenda la cosa più tosto, o vero abbia mente inchinevole naturalmente al falso. A confermazione di ciò, è da considerare che da Aristotile, sì come non è mai rifiutata la ragione per l'eccellenza del senso, così nè l'autorità ancor che la ragion prevalesse; perciochè è una maraviglia della natura che ella in ogni scienza e arte abbia prodotto il sovrano maestro, avendo divisamente in alcuni soggetti adoperato l'ultimo di suo magistero, ed in quelli pur dimostrato le bellezze delle sue idee, additandone gli altri che là si riferiscono e prendano la norma.

Ma lasciamo questi preambuli del Galilei, e vegniamo alle proposizioni che furono cagione che egli componesse il suo Discorso. E cominciamoci da quella che dice, che in una conversazione di letterati fu detto che 'l condensare era proprietà del freddo, e glie ne fu addotto l'esempio del ghiaccio; a' quali contraddisse, affermando che 'l ghiaccio era più tosto acqua rarefatta: il che crede avere primieramente dimostrato, perchè egli sta a galla (che se fosse acqua condensata, per esser divenuto, per la condensazion, più grave, non vi starebbe altrimenti) e, l'altra ragione, perchè l'acqua nel ghiacciarsi cresce di mole, segno, come dice, di rarefazione. Alle quali ragioni rivolgendomi, dico che la seconda non è vera, cioè che l'acqua nel gelarsi cresca di mole da per sè, affermandosi il contrario: ed alla prima dico che 'l ghiaccio, detto dall'agghiacciamento e costringimento fatto dal gran freddo, si rarefà per accidente, come in molte altre materie interviene; perchè, ristrignendosi in esse alcune parti, alcun'altre per necessità escono, non essendo atte a congelarsi; e così le dense si rarefanno, e si generano perciò entro di loro alcune porosità, nelle quali penetrando l'aria che si ritruova congiunta al freddo, vi riman rinchiusa (non dandosi il vacuo); le quali cose insieme divengono cause del galleggiamento suo. Ed argumento di ciò è il vedere che 'l cristallo, condensato dal freddo, è trasparente, per la mischianza dell'aria e dell'acqua, come dice Ermino. Anzi il ghiaccio, per essere un poco più grave dell'acqua e, per conseguenza, dilungato dalla natura di essa per accidente, mediante la ragione della condensazione, essendo, secondo Alessandro, nel primo delle Quistioni, capitolo sesto, il ghiaccio acqua alterata molto, dovrebbe alquanto discendere; il che non fa, divenuto per l'aria contenuta, che supplisce e supera la gravità acquistata per accidente, più leggieri: ed in questa guisa un accidente va contrappesando l'altro. La quale opinione non è invenzione nuova dell'Autore, perchè fu innanzi d'Averroe, nel comento decimo del terzo del Cielo, che volle che 'l ghiaccio fosse acqua rarefatta; la quale fu da tutti rifiutata. Ma chi sa che egli non volesse dire «rarefatta per accidente», in quanto, essendo dell'acqua uscito lo spirito e l'altre parti più sottili che corrispondono all'aria, viene, in quelle parti allargandosi che rimangono nel costringimento, il tutto a rarefarsi? Altrimenti sarebbe contro alla dottrina d'Aristotile, che spesso esclama l'acqua esser condensata dal freddo; e sarebbe contro Ippocrate nel libro Dell'aria acqua e luogo, Teofrasto nel capitolo Se l'aria grossa o sottile conferisca alla condensazione, ad Alessandro Afrodiseo nel libro Della generazione e corruzione, a Galeno Delle facoltà de' semplici medicamenti, nel primo capitolo, nel 16 e nel 17 o altrove, a Macrobio nel libro settimo de' Saturnali capitolo duodecimo, e Simplicio, e altri infiniti.

Il Galilei dice che di poi gli fu risposto, che 'l ghiaccio stava a galla per la ragion della figura larga; alla qual cosa contraddisse, asserendo che la figura non era cagione di far galleggiare o andare al fondo. Ma di questo parleremo al suo luogo, e volgeremo al presente il nostro ragionamento a quello che egli va ricercando, cioè la intrinseca e vera cagione dell'ascendere alcuni corpi solidi nell'acqua e in quella galleggiare, o vero discendere; ove egli asserisce, non acquietarsi interamente nella ragione data da Aristotile, e perciò conclude, con Archimede, essere l'eccesso della gravità dell'acqua che supera la gravità di quelli. Nella qual cosa dovrebbe pure acquietarsi, poichè non solo per la ragion d'Aristotile, ma per la natura ancora della cosa stessa, è noto appresso a tutti gli uomini che, quanto la cosa è più grave, vada tanto più in giù. Anzi Aristotile in poche parole esplica chiarissimamente la cosa ne' libri del Cielo e in altri luoghi: che le parti per intrinseca inclinazione vanno al proprio luogo, chiamando intrinseca inclinazione la gravità o vero la leggerezza; e la cagione ne' misti dichiara in una parola, farsi il moto loro dall'elemento predominante. Ma è ben da considerare, contro all'Autore, che non conviene chiamare la gravità intrinseca e vera cagione, concorrendo ella all'operazione come potenza solamente e non come intrinseca causa, appartenendo questo alla natura della cosa o almeno alla densità, come vera causa se bene accidentale. Ma gli principi sono molti: il cielo, il generante e qualche volta il togliente lo impedimento, la forma (la quale se sia principio solamente passivo o attivo, o attivo e passivo, non è al proposito), la densità e la gravità. E Alessandro Afrodiseo, nel primo dell'Anima cap. 2, dice: «Il caldo e 'l secco facciamo spezie di fuoco, e da questi e in questi è generata la leggerezza». E 'l medesimo si può dire della gravità, cioè esser generata dalla freddezza; tralasciando la disputa se la qualità degli elementi siano le forme loro, dicendo solamente che ancora le alteratrici qualità sono principi de' moti. Però si conclude che, volendo insegnare il Galilei ad Aristotile i principi, vada cercando di portar la luce al sole: il quale, mentre cerca esplicare il più o 'l men grave, parve che non si curi di abbassare i termini filosofici. E, primo, per formar una spezie ricerca due cose, ugualità di mole e di gravità, che sono tra sè molto differenti, trovandosi l'una senza l'altra: come, dunque, forma un'essenza di due enti così separati? Oltre che, il più e 'l meno non mutano spezie: come, dunque, più o men grave potrà mutarla? E di poi, dà al legno la gravità assoluta; e pure è di sua natura leggiere. E nondimeno, acciò che per la varia significazione de' termini non s'oscurino i concetti, dicasi di medesima grandezza e gravità, non di medesima grandezza, nè gravità di medesima grandezza, ma non gravità di medesima gravità, ma non grandezza.

Adduce poi le proposizioni matematiche, le quali sono: I corpi che soprannuotono, deono essere men gravi dell'acqua; e quelli che vanno al fondo, più gravi di essa. Queste proposizioni appella l'Autore vere, ma difettose: le quali veramente non sono difettose, come egli dice, per tal accidente della trave; perchè, ben che la trave fosse di mille libbre, potrà forse galleggiare sopra un'acqua di cinquanta, per essere per natura più leggiere dell'acqua mediante l'introclusa aria e la resistenza dell'acqua. È ben vero che si ricerca proporzionata quantità di acqua per sostenere la trave, quale è quella di cinquanta libbre messa in stretto vaso; sì che interverrà il medesimo alla trave come alle navi, che per mare galleggiano sostenute dall'acqua sola che circonda attorno. Al che se avesse avuto riguardo l'Autore, non si sarebbe maravigliato della trave galleggiante in acqua di minor peso, ma più tosto che poca acqua in un bicchiere sostenga un altro bicchiere carico di qualche sasso e, per questo, assai più grave. Il medesimo interviene negli altri vasi. Che si dirà adunque? forse che le cose gravi non possino acquistare il luogo loro naturalmente? non dirò io già questo; ma solo per accidente, quale è la figura. L'Autore pone l'aria, e qui è la nostra disputa; e per questo, più accidentale che essenziale, egli esclama contro la figura, e la disputa è, se l'aria tiene, o vero l'acqua; perchè la medesima ragione che muove Aristotile a riguardare la figura per conto dell'acqua, la medesima poteva persuadere il Galilei a metter la figura per ragione dell'aria. Anzi nella resistenza dell'acqua esso da sè stesso discorda in più luoghi; imperocchè ora dice che l'acqua resiste, ed altrove dice che non contrasta punto: basta che l'Autore niega l'invincibile resistenza dell'acqua.

Ma perchè il Signor Buonamico, conforme alla dottrina del suo maestro, insegna che ne' moti degli elementi siano congiunte l'inclinazione con la divisione del mezzo, in che riprese Archimede che afferma, i solidi che galleggiano non esser più gravi dell'acqua; ne fu ripreso dal Sig. Galilei: defendendo ora noi la dottrina peripatetica, ne verrà anco difeso il Buonamico. Il quale, nel quinto libro del Moto, non si quieta nel detto di Archimede, essendosi poco innanzi fidato nel detto di Seneca, che i sassi e uomini senza notare soprastiano in cert'acque; e pure i sassi sono più gravi dell'acqua. Ora, se l'esempio sia vero o no, cerchilo chi non crede a Seneca: a me basta che la dottrina sia vera. Ma veniamo noi ad altre sperienze. Si vede che il piombo e l'oro galleggiano, sì per la figura, si per la piccolezza; e pure non è dubbio che sono per natura più gravi dell'acqua: onde assolutamente può esser vero il detto d'Archimede; ma posta la divisione del mezzo, per molti riguardi può riuscire falso: e però Aristotile, nel secondo della Metafisica, diceva che l'esquisitezza del parlare intorno alle cose matematice non bisogna ricercarla in tutte le cose, ma solamente in quelle che non hanno materia. Non basta, dunque, dire che non galleggia il più grave, ma bisogna aggiugnere «che divida il mezzo»; perchè non lo dividendo, senza dubbio galleggerà, e dividendolo si affonderà, come disse Aristotile nel quarto del Cielo. E però l'Autore più tosto doverebbe dimostrare la leggerezza del ghiaccio perchè posto nel fondo ritorna a galla, che perchè galleggi: ed allora avrebbe concluso: «adunque il ghiaccio è aereo alquanto», poi che ogni solido che sta su l'acqua è aereo. E per chiarezza maggiore diciamo che delle cose galleggianti, altre per la sua natura galleggiano, come più leggieri, altre o per la figura o per la piccolezza, ancorchè più gravi, non si sommergono. Ora la disputa nostra è di quelle cose che non per la leggierezza, ma per la figura, stanno a galla; il che non solamente conviene alle cose gravi, ma aiuta anco le leggieri, che per la figura si tuffano più o meno difficilmente. E per ritornare alla divisione, guardisi come un legno non solo galleggia perchè è aereo, perchè così l'averebbe l'aria sostenuto in alto come fa la paglia ed altri minutissimi corpi, ma anche per il sollevamento dell'acqua, in modo che l'aria resista per starsene al proprio luogo, l'acqua poi resista al terreno del legno per non dividersi, e più per conservarsi che per opporsi ad altri: chè se l'acqua cedesse, arriverebbe anche il legno fino al fondo, non essendo l'aria bastante a sostenerlo, come già si è detto. Ora, che la gravità presupponga la divisione, con due ragioni si può dimostrare. La prima è: l'andare o non andare a fondo si fa trapassando o non trapassando, che avviene per la maggiore o minore resistenza, e questa dalla maggiore o minor densità, essendo più o meno parti unite: ma la gravità nelle cose sollunari è efletto della densità: adunque la densità è la principal causa della facile o difficile divisione; e non la gravità, se non secondariamente. L'altra ragione è, che, tolta la difficoltà di dividere il mezzo, non ci sarà cagione per che il più grave più presto si muova del men grave; perchè altrimenti si caccerebbe in giù dal mezzo quello che fusse men grave con prestezza maggiore. Qui fu ripreso il Signor Buonamico, quasi abbia detto che un vaso di legno pieno d'acqua se ne vada al fondo: e non si avverte che quel filosofo non afferma che vada o che non vada, ma presupposta l'esperienza ne rende la cagione, e confessa che questa esperienza è difficile a strigare; basta che sia viva la sua ragione, che l'acqua, movendosi in giù, aggrava per non essere al proprio luogo.

Quanto al sospetto che potrebbe dare Archimede, non avendo fatto menzione della divisione del mezzo, ma solamente toccato il cacciamento dell'acqua, come causa di tornare a galla i solidi men gravi di lei; il Signor Galilei dice che si potrebbe sostenere per verissima la sentenza di Platone e di altri, che niegano assolutamente la leggerezza, contra il Buonamico ed il suo precettore Aristotile. Averei qui desiderato che il Galilei avesse detto, se sa che Anassimandro e Democrito mettevano l'universo infinito, dove naturalmente non può dirsi nè su nè giù: il che ancora negò Timeo, appresso Platone, per cagione dell'assimiglianza; che, per essere il mondo sferico, ha solamente l'intorno e mezzo, de' quali nè l'uno nè l'altro può aver su e giù (poi che il mezzo è nel mezzo; e l'intorno, verso il suo antipode, sarebbe sopra e sotto); voleva ancora che tutti gli elementi fussero gravi, acciò che potessero restare nel proprio luogo. Ma Aristotile, considerando nel mondo l'estremo e mezzo, chiama l'estremo sopra e 'l mezzo sotto, e che naturalmente il sopra prima sia del sotto, sì come il destro del sinistro; sì che non per l'assimiglianza circulare, ma per la differenza dell'estremo al mezzo, vuole Aristotile che altro sopra, altro sotto, possa chiamarsi. Ora, essendo tre sorti di moti, cioè secondo la grandezza, secondo la qualità e secondo il luogo, non meno nel moto locale si fa la mutazione da un contrario all'altro, che la si faccia ne gli altri moti. E contrarii sono, secondo il luogo, sopra e sotto, e ne rende Alessandro la cagione: perchè l'istesso, come tale, non può essere in cose contrarie; e però il suggetto allora si dice mutarsi, quando lascia la prima forma e ne piglia un'altra. Ora, essendo il luogo forma, e movendosi il mobile dalla potenza all'atto, ed essendo questo moto naturale, poi che n'ha il mobile principio in sè stesso, ne segue chiaramente che 'l fuoco si muova in su, non per cacciamento de' corpi più gravi, ma per sua natura. Ed io, conforme ad Aristotile, domando ora se il fuoco abbia moto naturale o no: non si può negare ch'egli non l'abbia, perchè si darebbe natura senza moto; e avendolo, non può all'ingiù: bisogna, dunque, che abbia potenza a salire, perchè si muove quello che può e non quello che non può: questa potenza chiamiamo leggerezza. Onde se egli non fusse inclinato per natura al suo luogo, ma che vi andasse cacciato, tal moto non gli sarebbe naturale, ma fuor di natura; poi che tal principio non è a lui intrinseco nè naturale, ma del tutto estrinseco e violento. È, adunque, leggiero il fuoco per sua natura, e non per privazione: anzi vediamo, e lo nota Simplicio, che il maggior fuoco più presto si leva in alto che il minore, il quale pur dovrebbe esser men grave che il maggiore. Finalmente, tutto quello che si è detto della resistenza del mezzo, qua si appartiene. Si concede bene da noi il cacciamento, per non darsi il vacuo e per la continuità che deono avere le parti; ma quel che importa è la divisione del mezzo. Quell'esperienza che adduce, che l'esalazioni ignee più velocemente ascendono per l'acqua che non fa l'aria, vorrei ch'egli dicesse donde ha tal esperienza, e se mai ha visto tali esalazioni ascender per l'acqua; perchè nè io, nè altri con i quali abbia ragionato di questo, siamo stati di vista tanto acuti, che le abbiamo potute discernere.

Dice poi, contra il Buonamico, che tanto è considerare ne' mobili il predominio delli elementi, quanto l'eccesso o 'l mancamento di gravità; e però, tant'è il dire che il legno dell'abete non va al fondo perchè ha predominio aereo, quanto il dire, perchè è men grave dell'acqua. Si risponde, molto meglio essere il dire che galleggia il legno per il predominio aereo che per esser men grave, perchè nel legno notante si deono considerare due cose: l'una è l'immergersi alquanto nell'acqua, l'altra è il non sommergersi: quella viene per ragione della terra, questa per la ragione dell'aria che si contiene in esso; a quella fa l'acqua resistenza, con questa non ha combattimento veruno, che non cerca l'aria andar sotto acqua; e pur con questa doverebbe esser la contesa, se l'acqua resistesse al men grave. Oltre che già si è provato che anche i più gravi galleggiano; sì che la cagione immediata del galleggiare non è l'essere men grave dell'acqua, ma il predominio aereo, con la resistenza del mezzo, come si è detto.

Comincia il Galilei con l'esperienze a dimostrare che la figura non operi nel galleggiare. E l'esperienze sono: la prima d'un conio o piramide, fatta d'abete, cipresso, cera, o altra materia simile; ed afferma che ugualmente tanto la parte larga, quanto l'acuta, del conio o piramide, penetra l'acqua; donde raccoglie che niente operi la figura. Al che, primo, si risponde, non essere tale esperienza a proposito; di poi, concludere cosa falsa. Non è a proposito: perchè quando parliamo della figura piana, intendiamo una figura assolutamente tale, quale potria essere una tavoletta d'ebano o un quattrino; ma quando l'Autore parla del piano del conio o piramide, parla di una sola parte, e perciò non è maraviglia che 'l piano della piramide, per gravità del resto, si sommerga fin tanto che non ritrova tant'acqua a sostenerlo. Se poi, rivolgendo la parte acuta verso l'acqua, si vedrà che tanto della parte più larga resterà fuora dell'acqua, quanto ne restava fuori volta per l'altro verso; la ragione sarà, perchè quando le forze del grave imposto superano le forze dell'acqua, tanto vincerà un corpo più grave, quanto un men grave. E bisogna ben notare, che quella parte della piramide che è più facile a dividere l'acqua, è più difficile a essere sospinta; e per il contrario, la parte che è più larga, come è più difficile a fendere, così è facile ad esser cacciata: tal che simili esempi non fanno a proposito. Poi, che concludono cosa falsa, si vede chiaramente, fermandosi la piramide tutta quasi in un punto dalla parte acuta, e in larghezza dalla base, cioè in più punti; e più difficilmente trapassano più punti che uno: donde si conosce che lo stesso Autore, forzato dalla verità, dice di sotto che più velocemente vada al fondo una palla che una tavoletta piana della medesima materia; che da altro non può derivare che dalla figura. Il medesimo si può dire de' cilindri, le parti de' quali si profondano per la gravità di sopra che gli spinge. Quanto all'esperienza della cera, si vede che ella violentemente è portata sotto dal piombo, e sollevato il piombo violentemente dal sughero; sì che in queste violenze non si può vedere quel che operi la figura. E se tale esempio valesse, varrebbe anco contro la natura, che spesso viene violentata. Ed in tutti questi esempi si vedrà la diversità dell'operare, in diverse figure, secondo il più o men veloce. In quanto poi a quello che si dice, tanto andare al fondo una tavoletta quanto una palla quando saranno poste nell'acqua, ed esser poste nell'acqua intende, secondo la diffinizione del luogo data da Aristotile, esser circondata dall'acqua, e che la tavoletta non si può dir posta nell'acqua, ma sopra l'acqua, non essendo ella circondata dall'acqua; si risponde che il ricercare se l'ebano quando non è bagnato sia sopra l'acqua o nell'acqua, non fa al proposito di quel che si ricerca: perchè si tratta che cosa sia quello che lo fa galleggiare quando non è bagnato. Oltracciò, lamentandosi l'Autore de gli avversari che posano l'ebano, non bagnato, sopra e non nell'acqua, possono anche quelli ricercare da lui, perchè, bagnato l'ebano, non si posi nell'acqua, cioè nella superficie, ma sotto la superficie dell'acqua. Diciamo, dunque, che questi sono rispetti relativi e differenze di luogo, che non tolgono l'essere una cosa nel luogo. Chè essere in luogo, parlando però propriamente del luogo, si può intendere in quattro modi: o in quiete naturale, cioè quando il mobile si quieta naturalmente; o in quiete fuor di natura, quando il mobile si quieta per essere impedito; o nel moto naturale, quando si muove al proprio luogo; o nel moto violento, quando è del proprio luogo cacciato: ora l'ebano, o vero il quattrino, si dice essere in luogo, mentre che è nell'acqua fuori della natura sua; perchè se l'acqua che sostiene tal solido non fusse luogo di quella parte che tocca, ne seguirebbe che quella parte contenuta dall'acqua non fusse in luogo, cosa pur troppo assorda. Quello poi che l'Autore aggiugne, dover essere il luogo della medesima natura, cioè tutto aria o tutto acqua, si vede nella natura il contrario: che la terra è parte circondata dall'aria, parte dall'acqua, come ed altre cose patiscono il medesimo.

Quello poi che l'Autore soggiugne, che la medesima figura piana non possa essere ora causa di quiete e ora di tardanza di moto; si risponde che il solido molto dilatato perde della sua forza, e sopra di lui l'acquista di modo il mezzo, che lo sostiene e ferma: il che non avvenendo in molti, per non essere molto dilatati, dividono il mezzo, e tanto più velocemente o più tardamente si muovono, quanto sono più o meno atti a dividere il mezzo resistente. Onde si vede nell'acqua stessa altri corpi galleggiare, altri andare al fondo, chi più presto e chi più tardi, secondo la maggiore o minore estensione: tal che la figura giova alla quiete ed alla tardanza, secondo diversi modi e rispetti.

Dice di poi: «Eleggasi un legno o altra materia, della quale una palla venga dal fondo dell'acqua alla superficie più lentamente che non va al fondo una palla d'ebano della stessa grandezza, sì che manifesto sia che la palla d'ebano più prontamente divida l'acqua discendendo, che l'altra ascendendo; e sia tal materia, per esemplo, il legno di noce. Facciasi dipoi un'assicella di noce simile ed eguale a quella d'ebano degli avversari, la qual resta a galla: e se è vero che ella ci resti mediante la figura, impotente, per la sua larghezza, a fender la crassizie dell'acqua, l'altra di noce, senza dubbio alcuno, posta nel fondo, vi dovrà restare, come manco atta, per lo medesimo impedimento di figura, a dividere la stessa resistenza dell'acqua». Rispondo, secondo il maestro del Galilei, che l'acqua scaccia in su le cose più leggieri d'essa; e però la figura, non avendo nessuna natura in suo aiuto, non può fare la quiete, come la fa nelle cose più gravi d'essa acqua, avendo il mezzo cooperante per non dividersi. Rispondo, di più, che, secondo il Gallilei, ogni solido penetra l'acqua; onde sarà necessario, per levare il vacuo, che l'acqua sottentri alle cose leggieri e le mandi in su per coltello, il che non interviene nelle cose più gravi dell'acqua. Rispondo anco, che la cosa leggiera non può stare nel fondo, per qualunque commozione che si faccia nell'acqua ne l'intrare il corpo e poi nel ritornare l'acqua nel proprio luogo, le quali parti cercano riunirsi; non così nella parte di sopra, per ragione della siccità.

Segue l'Autore che «dell'andare a fondo la tavoletta l'ebano o la sottil falda d'oro, ne è cagione la sua gravità, maggiore di quella dell'acqua, e del galleggiare la sua leggierezza, la quale, per qualche accidente forse sin ora non osservato, si venga a congiungere con la medesima tavoletta, rendendola non più, come prima era, mentre si profondava, più grave dell'acqua, ma meno; e tal nuova leggierezza non può dependere dalla figura, sì perchè le figure non aggiungono o tolgono il peso, sì perchè nella tavoletta non si fa mutazione nessuna della figura, quando ella va al fondo, da quella che l'aveva mentre galleggiava». Qui si contengono più dubbi che parole. Primo, già si è dimostrato che anco le cose più gravi dell'acqua galleggiano in essa; onde non è vero quel che si dice, che ne sia cagione la leggerezza, la quale meglio si diceva minor gravezza. Quell' accidente, poi, che si dice fin ora non osservato, dall'Autore forse non è osservato, ma gli altri sanno esserne cagione la figura: la quale assolutamente non muta il peso; ma che ella non trattenga la tavoletta, si niega, e tocca a lui provarlo; il che non fece, sì come si è dimostrato, e però pete il principio il Galilei nostro. E per dare in questa parte qualche sodisfazzione, quando si dice che la figura non dà nè toglie peso, bisogna avvertire che il peso si può intendere in due modi: o al quanto della gravità del corpo in sè stesso, alla quale non importa la figura, perchè un corpo sotto qualsivoglia figura sarà sempre del medesimo peso; o vero in quanto al mezzo, rispetto il quale la figura senza dubbio fa riuscire il corpo più o meno grave: perchè se sarà di figura sferica, toccherà a poca parte del mezzo sostenerlo, ma se sarà di figura piana, sarà da più parti sostenuto; e per questo sarà men grave in questa che in quella figura, non altrimenti che più uomini da un medesimo peso vengono meno aggravati che i pochi.

Dice di poi, esser falsa la dottrina d'Aristotile e degli avversari «cioè che la tavoletta resti a galla per la impotenza di fendere e penetrare la resistenza della crassizie dell'acqua; perchè manifestamente apparirà, le dette falde non solo aver penetrata l'acqua, ma esser notabilmente più basse che la superficie di essa». Si risponde che non si farà, quant'al presente, differenza nessuna tra lo spingere ed il penetrare, se bene alcuni la fanno, avendo opinione che il quattrino o l'ebano più tosto faccia l'acqua essere spinta in giù che penetrata: ma questo poco importa, perchè si chiama galleggiare il rimanere su l'acqua, cioè non profondandosi il corpo sotto l'acqua: per la qual causa non già si niega mai il subentrare alquanto, secondo le parti, il corpo galleggiante per ragione della maggiore o minore partecipazione terrena, che ricerca proporzionate parti del mezzo a sostenere le parti terrestri; altrimenti si negherebbe anco che i legni stiano su l'acqua, poi che anco quelli subentrano, secondo le parti, nell'acqua: ma sia, di grazia, la nostra disputa del galleggiare, il che vuol dire «non profondarsi tutto il corpo sott'acqua».

Va di poi dicendo: «Ma se ella ha già penetrata e vinta la continuazione dell'acqua, ed è, di sua natura, della medesima acqua più grave, per qual cagione non seguita ella di profondarsi, ma si ferma e si sospende dentro a quella piccola cavità che co 'l suo peso si è fabbricata nell'acqua? Rispondo: perchè nel sommergersi sin che la sua superficie arriva al livello di quella dell'acqua, ella perde una parte della sua gravità, e 'l resto poi lo va perdendo nel profondarsi e abbassarsi oltre alla superficie dell'acqua, la quale intorno intorno le fa argine e sponda; e tal perdita fa ella mediante il tirarsi dietro e far seco discendere l'aria superiore e a sè stessa, per lo contatto, aderente, la qual aria succede a riempiere la cavità circondata da gli arginetti dell'acqua; sì che quello che, in questo caso, discende e vien locato nell'acqua, non è la sola lamina o tavoletta d'ebano o di ferro, ma un composto d'ebano e d'aria, dal quale ne risulta un solido non più in gravità superiore all'acqua, come era il semplice ebano o 'l semplice oro». Per risposta dirò, come l'Autore si fida troppo nell'aria, refugio troppo debole; e pur sa che la natura non se ne cura troppo, che l'ebano o il quattrino o altre cose simili stiano a galla, essendo questo effetto della volontà o vero arte, che spesso si oppone alla natura, con questo che anco la imita: per il che la natura non arebbe dato all'aria tal proprietà, contro il suo ordine e contro la natura dell'aria istessa, di sostenere su l'acqua le parti terrestri. E che sia contro la sua natura, è manifesto: poi che l'aria più conviene, per ragione dell'umidità, con l'acqua che con la terra, contraria a essa tanto nella qualità attiva come passiva; onde la terra più tosto sarebbe scacciata che ritenuta, come impedimento dell'ordine della natura. Diamolo, dunque, alla resistenza dell'acqua; dove meglio si vede la prudenza della natura, che vuole unite le parti, come le fece, e non separate. Non si niega il tenere dell'aria per ragione della resistenza, perchè tal modo veramente è naturale: ma ben si niega il tenere per contatto, poi che, oltra le dette esperienze in principio, è pure chiaro che, levata la contiguità d'alcuni solidi che galleggiano con qualche cosa fluida, non si vedono profondarsi, anche che sia il fluido più grave dell'acqua. E non si vede con gli occhi nostri che alcune figure, quanto più entrano nell'acqua, tanto maggiormente si sostengono? e pure dovrebbe essere il contrario, poi che si sminuiscono le forze dell'aria negli arginetti, per essere di minore quantità d'aria e, per conseguenza, di minore virtù.

Nell'ebano galleggiante appariscono tre cose: la prima, che alquanto discende; la seconda, che fa sponde; la terza, che non si sommerge: ora ricerca la causa della terza apparenza, massimamente essendosi così affondato, e dice essere l'aria contenuta in quella cavità che si fa tra l'ebano e gli arginetti. Contra a questo, argumento così: Nel modo medesimo tocca l'ebano l'aria innanzi che si profondi, che doppo fatti gli arginetti: ma innanzi non lo sostiene: dunque nè anche doppo non si può dir che l'aria, toccante gli arginetti, sostenga l'ebano; perchè non lo tocca, adunque non lo tiene. Nè si può dir che quest'aria rinforzi quella che tocca l'ebano: perchè in simili corpi l'una parte non rinforza l'altra, avendo ciascuna la sua perfezzione per natura, e senza nessuna varietà non variandosi la natura. Diciamo, dunque, che l'ebano discende alquanto, perchè le prime parti dell'acqua non sono bastanti a sostenere quel peso; e però si ricerca più copia di acqua, tanto che lo sostenga. Il medesimo interviene a' legni ed altri simili, sostenuti dall'acqua che li circonda attorno. Li arginetti poi si fanno, perchè, occupando l'ebano quella parte di acqua, bisogna che tanta ne salga, quanta è stata l'entratura d'esso; onde quanto più s'assottiglierà l'ebano, tanto meno s'alzeranno le sponde. E non voglio tacere che l'acqua non trascorre per quella tavoletta, perchè fugge la siccità, sua contraria; come si vede l'acqua alzarsi versata nella terra secca, e correre per la bagnata. Concludiamo, dunque, che l'ebano non si sommerge per la ragione della figura, nel modo che si è detto innanzi.

Quello poi che dice, che dell'aria e dell'ebano se ne fa un composto; doveva prima a simil composto trovargli nome, e mostrare come per il solo contatto si faccia composizione. E pur io credevo che la composizione dell'aria e della terra non fusse in altro che nel misto, nel quale concorrono i restanti due elementi a produrlo tutti insieme; i quali, doppo la pugna ridotti in una contemperanza e per essa in una concordanza, ancorchè siano contrarii e per un rispetto inimici, per un altro divengono poi amici. In questa guisa dice Ermino, nelle sue Quistioni fisiche, che nella medesima parte di corpo si ritrovano gli elementi contrari; ma che sia un altro modo nuovo di composizione tra l'aria e la cosa terrea, e massimamente rimanendo l'una e l'altra cosa nel suo essere, non credo si potrà mai immaginare; perchè Aristotile, nel secondo delle Parti de gli animali, pone tre modi di composizione, una de gli elementi nel misto, l'altra delle parti similari, e la terza delle dissimilari; poi, nel dichiararli in quel luogo, non fa mai menzione alcuna di questa nuova composizione; nè meno niuno de gl'interpreti suoi nel distinguerla ne' tre modi, cioè di potenza e d'atto e di cose perfette, le quali o si fanno per aggiunzione o per mistione o per mescuglio o vero secondo la concorrenza delle parti discrete in un fine, come la città che si compone di cittadini e l'universo delle sue parti, se bene che sia tale detta impropriamente composizione. E che questa cotal composizione non sia, dimostriamolo in poche parole. Perchè nella composizione è qualche unione, è necessario che consideriamo quattro cose: cioè la causa, le parti, il fine e 'l tempo. Quanto alla causa, non si ritrova: perchè chi le compone? Le parti come possono convenire insieme, essendo in tutto e per tutto contrarie? Il fine, che deve esser comune alle parti mediante la composizione, dov'e, se una tiene e l'altra sta a galla? queste non sono diverse? Il tempo, se non si può mai l'aria disgiugnere dalla tavoletta, per non darsi il vacuo, ove si ritrova? Diciamo, dunque, non essere composizione veruna tra l'aria e la tavoletta.

Dice l'Autore più di sotto, esser falso che la tavoletta vada al fondo in virtù del nuovo peso, perchè l'acqua nell'acqua non ha gravità veruna. Si risponde: Che l'acqua non porti gravità, si può intendere in due modi: o immediatamente, cioè quando l'acqua con l'acqua è unita, e così sarà vera la proposizione: perchè la naturale inclinazione è desiderio del proprio luogo; conseguitolo, si quieta e, per conseguenza, non aggraverà più innanzi, sì come il saziato non desidera più il cibo, come nota Simplicio. È pur vero che l'elemento nel suo luogo aggrava secondo l'attitudine: e così intese Aristotile quando disse che tutti gli elementi, fuor che il fuoco, aggravano nel proprio luogo; male inteso e peggio ripreso da Tolomeo. O s'intende la proposizione mediante un altro corpo, e così riuscirà falsa: perchè a questo modo non meno aggrava l'acqua nell'acqua che qualsivoglia altro corpo; e per tanto si sommerge il vaso, avendo dentro acqua, come se avesse piombo o sasso: e la ragione forse è questa, perchè in tal caso la gravità del vaso e la gravità dell'acqua diventa una gravità che supera quella dell'acqua, nella quale per questa causa si profonda.

Replica l'Autore, che «non è la gravità dell'acqua contenuta dentro al vaso quella che lo tira al fondo, ma la gravità propria del rame, superiore alla gravità in specie dell'acqua: che se il vaso fusse di materia men grave dell'acqua, non basterebbe l'oceano a farlo sommergere». Replico anch'io, non esser vero che la gravità propria del rame lo tiri al fondo; perchè, rispetto l'estensione ed assottigliazione del solido fatta dall'artefice, s'è in tal modo indebolita la forza, che non può sommergersi, e così il più forte per natura è diventato per arte più debole; aiutato poi dalla gravità dell'acqua infusa, subito comincia a profondarsi, sì che, parte per essere spinto in giù dall'acqua, come alieno dalla natura acquea, parte per essere in moto, per il qual più aggrava, ed anche per mutare la figura, descende più presto: e non avvien questo nella materia notabilmente meno grave dell'acqua, perchè sì come l'acqua spigne in giù le cose più gravi, così caccia in su le cose più leggiere, tanto per evitare il vacuo, quanto per il desiderio dell'unione; dove notabil cosa è il vedere nel medesimo corpo una pugna di chi lo spigne e di chi resiste. Ma se la materia sarà poco meno grave e che per esperienza vada al fondo, come io ho sentito da molti degni di fede che i legni da navigare in Germania, collegati con chiodi di legni e senza ferro veruno, pieni di acqua vanno al fondo; io non vi saperei trovare altra ragione che quella del Signor Buonamico.

Quanto alle più gocciole che, avendo maggior gravità d'una sola, non mandono al fondo la tavoletta, e che l'una, bagnando tutta la superficie della tavoletta, l'affonda; fu risposto innanzi: e però si dice che non fa la maggior gravità al profondare il solido, ma il trascorso dell'acqua sopra esso lo fa andare in giù; per che quelle gocciole, mantenendosi qualche poco di siccità sopra la tavoletta, non la manderanno mai al fondo. Ed è da considerare come l'Autore all'opposizione che ha dato contra la risposta che la tavoletta bagnata andassi al fondo per il desiderio delle parti superiori dell'acqua d'unirsi con l'inferiori, non fu vero che, se concludesse la risposta degli avversari, anco le inferiori parte d'acqua spignerebbono in su la tavoletta: perchè l'acqua per sua natura non ascende mai; oltre che, le parti hanno bisogno del tutto, e non il tutto delle parti; massimamente che le parti elementari rimanendo in più perfezzione che le parti degli animali, non sono tanto desiderose del tutto, perchè senza quello godono le loro operazioni perfette; e però il tutto non ricerca le sue parti, rimanendo anco questo perfetto senza quelle, per la medesima ragione.

Forse alcuno di quei signori etc. [pag. 101, lin. 35 e seg.] Innanzi che risponda, notisi che i principii messi dall'Autore nel principio del suo trattato saranno di poco valore: perchè se l'aria ritiene le cose più gravi dell'acqua, la conclusione non è per sè, ma per accidente; ma i principii d'Archimede parlano per sè; adunque è difettosa l'opera del Galileo, e più tosto contraria a' principii che favorevole. L'Autore in questa materia va dimostrando la retenzione dell'aria con tre esempi: il primo è che una palla di cera asciutta va a galla, e bagnata, aggiuntovi un poco di piombo, va al fondo; e di poi, sollevata dall'aria del bicchiere spinto in giù rivolto, sta a galla. Per risposta s'ha da notare contro l'Autore, primo, che egli non vuole che l'aria operi su corpi bagnati, e ora dice che l'aria porta in su la palla bagnata: secondo, erra volendo che l'aria sola la porti in su; e pure tale effetto appartiene principalmente all'acqua, che muovendosi muove le cose in essa; anzi l'aria si porta dalla terra e non porta la terra: terzo, noi disputiamo se l'aria per contatto sostiene; ed egli va mostrando che porta per moto: quarto, che la palla bagnata va al fondo per esser bagnata; e pure, parendo miracolo che ritornando dal fondo non abbia ad essere bagnata, non rende la ragione di tale effetto; e pure poteva dire, non essere più interamente bagnata: quinto, equivoca nel dire che la medesima aria la porti in su; perchè se intende dell'elemento, questo è il medesimo; se intende della parte, come lo può sapere? nè si può conoscere una parte dall'altra in tanta quantità d'aria mescolata. Ma tralasciando tale esame e venendo alla causa, dico che ogni corpo nel muoversi, se vince l'impedimento che trova innanzi, lo porta seco; altrimenti, resta impedito e fermo: perchè, adunque, spignendo in giù il bicchiere, si caccia dal proprio luogo tanta quantità di acqua quanta importa la grandezza del bicchiere e l'aria contenuta in esso, nel trarre fuori il bicchiere ritorna l'acqua al luogo suo e l'aria anch'ella ricerca il suo; e così mandono per violenza in su la palla, come anche possono mandare il bicchiere in su, se non si rivolta per coltello.

Il secondo esempio è che, se tufferemo nell'acqua qualche corpo, nel trarlo fuora ella lo seguita. Si risponde che l'acqua non seguita quel corpo per ragione del contatto, ma perchè, avendo quel corpo, per quanto è la sua grandezza, levato l'acqua dal proprio luogo, necessario è che, ritirandosi, l'acqua sottentri, acciò non resti il vacuo. Oltre che, questo non fa a proposito, disputandosi solo come l'aria sostenga: anzi tale esempio averebbe dimostrato come l'acqua tiene, se per il contatto un corpo tenga l'altro; e pure l'Autore attribuisce all'aria il tenere per ragione del contatto e lo niega dell'acqua, se bene più difficilmente si separano i corpi dall'acqua che dall'aria, perchè li sarebbe forse pericolo di levare la contiguità in universale, ma non nell'aria, poichè subito toccherebbe l'acqua, come l'aria tocca l'aria ne' moti, non solamente ritenendo, ma di più spingendo. In che, adunque, tal esempio gli può giovare? e che vuole concludere?

Il terzo esempio è de' corpi solidi, li quali «se saranno di superficie in tutto simili, sì che esquisitissimamente si combacino insieme, nè tra di loro resti aria, che si distragga nella separazione e ceda sin che l'ambiente succeda a riempire lo spazio, saldissimamente stanno congiunti, nè senza gran forza si separano». Si risponde, primo, che la disputa è dell'aria contigua al solido, e non di due solidi; che separandosi difficilmente, non però ne segue che si separi con la medesima difficoltà l'aria dal solido, come si vede chiaramente per esperienza: oltre che nè questi solidi, per tal difficoltà, uno toccando l'altro lo sospende, ma ben lo trattiene alquanto fin che per moto, che ha bisogno di tempo, entra l'aria, per pericolo del vacuo o vero della contiguità universale. È ben vero che può assai qualche simiglianza, dalla quale nasce l'amor naturale nella natura; e segno manifesto è che non in tutti li contigui esquisitissimamente si fa tale difficoltà, e pure da tutti è desiderata nel medesimo modo la contiguità universale. Basta che tra l'aria e 'l solido non interverrebbe tal pericolo, nè è nessuna simiglianza; ed anche che fosse, niente fa al proposito nostro. Ma questo appartiene ad un'altra materia.

Dice l'Autore: «ma perchè l'aria, l'acqua e gli altri liquidi molto speditamente si figurano al contatto de' corpi solidi, sì che la superficie loro esquisitamente si adatta a quella de' solidi, senza che altro resti tra loro, però più manifestamente e frequentemente si riconosce in loro l'effetto di questa copula e aderenza, che ne' corpi duri, le cui superficie di rado congruentemente si congiungono». A questo diciamo che, se la contiguità meglio si fa tra corpo liquido e solido che tra due solidi, si staccherà senza dubbio più difficilmente un solido dall'aria che da un altro solido; e pure la sperienza è in contrario, conforme alla ragione che non vuole, essere salda la copula del corpo non saldo. Quello poi che si dice della virtù calamitica, con salda copula congiungente tutti i corpi; non si può udire senza maraviglia che sia tanto la virtù calamitica diffusa e comunicata quasi a tutto l'universo: oltre che la calamita tira da lontano il ferro; non così l'aria il solido, che, secondo l'Autore, congiunta lo tiene: ed in questo proposito mi sovviene di Blemmida, che nella Parafrasi Politica disse, il tenere della calamità essere come fine del tirare, come quello che tira ha per fine il godere la cosa tirata. Segue l'Autore: «e chi sa che un tal contatto, quando sia esquisitissimo, non sia bastante cagione della unione e continuità delle parti del corpo naturale?» Io vorrei che mi si dichiarasse che differenza si faccia tra squisitissimo contatto, unione e continuità. Primieramente, continuo e contiguo non è l'istesso; e due corpi, ancorchè esquisitissimamente contigui, non si diranno mai continui, che solo sono quelli che hanno le parti unite con termine comune, quali non sono i contigui: come può dunque la contiguità essere causa della continuità? Oltre a ciò, chiamisi, ancorchè impropriamente, esquisitissimo contatto nelle cose continue: che differenza sarà tra esso, l'unione e la continuità? Saranno senza dubbio tutt'uno: perciochè non sarà mai uno causa dell'altro. Diciamo, dunque, che potendosi questa parola uno pigliare in tre modi spettanti al proposito nostro, per tralasciare ora l'equivoco e la ragione o secondo il genere o secondo la spezie o secondo il numero; sì come il genere unisce le spezie tra loro differenti, e la spezie gl'individui, così la forma corporea unisce le parti del corpo fra di loro separate, con maggior perfezione che non fa nè la spezie nè il genere; onde la parte che si separa dalla forma, non si dirà già mai essere parte del tutto: e la ragione è manifesta, nè fa al proposito nostro.

Ecco, l'Autore intorno alla resistenza pare contradire a sè medesimo, parte negando la resistenza quanto alla quiete, ma non quanto alla tardità, e parte negandola in tutto e per tutto, come si vede in qualcuno di questi suoi esempi. Ma se l'acqua non camina su l'acqua, nè descende per l'acqua, nè si divide da sè, nè si muove al moto d'altrui, è necessario concedere che si divide per violenza: e pur chi non sa che niun corpo desidera la propria divisione? essendo ciascuno fatto dalla natura non diviso, ma continuo; e 'l contrario, allora è perfetto quando ha le sue parti unite. Stando adunque la cosa così, non è dubbio che, chi volesse dividerlo, esso resisterebbe al dividente e cederebbe allora quando fosse da forze maggiori superato; perchè cede veramente, non avendo però mancato di fare quanto ha potuto per ritardare almeno la vittoria al nimico: e tanto più resiste nel combattere, quanto è più denso. E si vede ancora per esperienza che, quando si spigne con la mano l'acqua in giù, si sente qualche resistenza; la quale non si sentirebbe, se le parti cedessero solamente, e non resistessero: come anche il medesimo avviene a chi va contro al vento o a chi fende la terra.

Ma torniamo alle ragioni del Galilei, che impugnano la resistenza del mezzo: delle quali la prima è che, se fosse la resistenza, tanto sarebbe nelle parti interne, quanto nelle prossime alla superficie. Alla quale si risponde che la cosa meno grave dell'acqua, ancorchè galleggi, si sommerge in ogni modo, più o meno secondo la maggiore o minor gravità; e la stessa acqua, secondo la maggiore o minor grossezza, sostiene più o meno la cosa che le sta sopra: come, per esempio, una nave si solleverà più nell'acqua salata che nella dolce; come ogn'altra cosa atta a salire dal fondo, salirà più presto nel mare che nell'acqua dolce. Ma torniamo alla nave, e diciamo che questo le avviene perchè la cosa che sta sopr'acqua più e meno vince, secondo la proporzione della gravità sua in paragone di quella dell'acqua; e sosterrà più la maggior quantità che la minore, delle parti dell'acqua: e però sosterranno più una cosa grave le parti dell'acqua che sono prossime alla superficie insieme con quelle che le sono lontane, che loro sole, che potrebbono esser vinte dalla maggior gravità; perchè, se bene la cosa è più lieve secondo la natura, ricerca nientedimeno una certa proporzione del mezzo, in proporzione della figura e della gravità.

Il secondo argomento è che ogni corpo nell'acqua, se è grave va al fondo, se è lieve sta a galla; adunque cede, ma non resiste. Questo argomento è contro di lui: perchè, se delli corpi più gravi dell'acqua, che per loro natura vanno al fondo, altri vanno più presto ed altri più tardi, e delli corpi leggieri altri s'immergono più ed altri meno, ne seguirà necessariamente che si dia la resistenza; perochè se l'acqua solamente cedesse, come per termine di creanza fa al nobile il plebeo, non ci sarebbe causa alcuna di varietà, perchè il cedere sarebbe uno ed indifferente.

Adduce, seguendo, l'esempio dell'acqua torbida, nella quale dice che le materie intorbidanti stanno sei o sette giorni a discendere al fondo: il quale esempio fa simigliantemente per noi; perchè, se non fosse la resistenza, quelle particelluzze non starebbono tanto a discendere al luogo loro, ma vi discenderebbono in un momento. Perlochè, quantunque il Galilei si dimostri di mal animo contro Aristotile, pure porta le ragioni sue in suo favore.

Indi segue dicendo che non si potrà trovare minima virtù, che alla resistenza dell'acqua all'esser divisa non sia minore: che «se fosse di qualche sensibil potere, qualche larga falda si potrebbe trovare di materia simile in gravità all'acqua, la quale non solo si fermasse tra le due acque, ma non si potesse senza notabil forza abbassare o sollevare». Si risponde a questo in due modi: il primo, per contraddizione, che da cose impossibili non ne segue mai niente; impossibile è che si ritrovi, quanto alla natura, cosa simile in gravità all'acqua, che non sia similmente acqua (imperciochè dato il medesimo effetto, ne seguirà sempre la medesima causa; come, per esempio, data la medesima risibilità all'uomo ed al leone, ne seguirà che tanto il leone quanto l'uomo sia ragionevole): il secondo che, dato e non concesso che fosse una cosa simile in gravità all'acqua, non avrebbe in essa luogo diterminato, ma per tutto sarebbe il suo.

Ci mancava l'esempio ch'un capello tirasse una trave per acqua: ma rispondiamogli, in ogni modo, negando che nella paura ch'altri avrebbe che e' non si strappasse, non si sentisse un poco di resistenza: la quale si pruova manifestamente; perchè, se la trave che si tirerà avrà dalla parte che ha da fendere l'acqua la figura più larga o si tirerà per lo traverso, dividerà il mezzo con maggior difficultà che in altra guisa. Sì che questo argomento ancora, non fa contro Aristotile; perchè mossa la medesima trave secondo diversi moti, se non fosse la resistenza, tanto le poche quanto le molte parti cedendo nel medesimo tempo e nel medesimo modo, non sarebbono più difficultà in uno che in un altro modo; la qual differenza è nota nella differente forma di un navilio largo e stretto.

E venendo alle sue figure matematiche, diciamo che la proporzione che pruova in esse, non fa al proposito nostro; perchè egli piglia per concesso in quelle la cosa che si cerca, che è errore di logica. Là onde abbiamo di già provato che la materia che sta sopra l'acqua, galleggia in due modi, o perchè di natura è più lieve di essa, o vero perchè in una certa proporzionata gravità la figura la fa galleggiare. E simigliantemente abbiamo provato che quella vada al fondo, che non solo eccede nella gravità secondo la natura, ma che ha ancora le forze maggiori di quelle del mezzo o le può superare in proporzione. E similmente diciamo che egli non pruova che un solido di più grave materia debba, per galleggiare, aver l'aria che lo sostenga, come era necessario dovendo provare la sua opinione. Si conclude, adunque, universalmente che le parti degli elementi che si muovono al luogo loro, lo fanno combattendo e vincendo; in maniera tale che, non vincendo, non lo conseguiscono mai con la propria loro natura solamente, impedite da maggiori forze, come a un sasso sospeso a un filo avviene. Però le figure sono cagioni di far galleggiare quel solido in cui le parti non sono unite, e perciò non possono superare il mezzo cooperante con esse.

Alla fine viene il Galilei a dimostrarsi più che mai inimico d'Aristotile, impugnandolo, e Democrito difendendo, e dando ancora contro all'uno ed all'altro. Mi sforzerò, adunque, io non di difendere Aristotile, che non ha bisogno di mia difesa, ma, quanto potrò, dichiararlo solamente; il che farò, non perchè Aristotile fosse di nazion greca, ma per la verità: imperciochè se questa ragion valesse, nessun valente greco nelle scienze avrebbe mai contraddetto all'altro; e pur vergiamo tante dispute fatte tra loro medesimi. Perlochè dico che chiunque, qual che si sia lo interesse, non pregia o riverisce la verità, non si dee veramente, il bene dello 'ntelletto abbandonando, stimare uomo, ma più tosto una mala bestia, Torniamocene al nostro proposito, e consideriamo le parole d'Aristotile, che sono: «Le figure non sono causa del muoversi semplicemente in giù o in su, ma del muoversi più tardi o più velocemente; e per quali cagioni ciò avvenga, non è difficile il vederlo». Il Galilei intorno a queste parole dice che Aristotile nomina le figure come cause del tardo e del veloce, escludendole dall'esser cause del moto assoluto e semplice. Ma io non veggio che Aristotile abbia detto che le figure sian cause del moto assoluto e semplice, ma dice che sono άπλω̃ς, cioè semplicemente, cause: e la ragione è chiara; perchè Aristotile mai distingue i moti assoluti e non assoluti, ma nel retto, nel circolare e nel misto, e parla in questo testo universalmente, dicendo che le figure non sono cause da per sè di niun moto. Nè meno intende che le figure siano cause del moto semplice e non composto, ma intende universalmente di qual si voglia moto locale. E venendo all'esplicazione di quella parola semplicemente, credo che ci potremo quietare nella dichiarazione d'Ammonio nel capitolo Del genere, esponendola in quattro modi, cioè universalmente, particolarmente, propriamente e vanamente. In questo luogo la prende Aristotile «propriamente», volendo dire che 'l moto proceda dall'essenzia della cosa, e non dalla figura, come altri avevano detto, seguendola in quella guisa che fa l'ombra il corpo, essendo essa accidente, cioè ente imperfetto; e per questa cagione non può produr moto, però che tale opera appartiene alla natura. Anzi essendo il moto più perfetto della figura, ella non può esser causa efficiente d'un effetto più nobile di sè: però questa serve alla natura a produrre tale effetto, come all'architetto servono gli strumenti all'opera. E sì nobile è il moto, che rappresenta quasi la natura che lo fa: onde non senza ragione gli antichi filosofi chiamarono i moti termini delle nature, perciochè sì come i termini separano le cose tra loro, così i moti distinguono le nature. La figura, adunque, non fa altro che concorrere più o meno alla intenzione del proprio motore, per la maggiore o minor resistenza, come abbiamo detto. Però conclude Aristotile che la diversità de' moti secondo il più o meno tempo non può procedere dalla natura, essendo la stessa, ma dalla diversità delle figure, in quanto sono cagioni che 'l solido più o meno vinca. Siano, adunque, le figure da per sè cause non del moto, ma del modo, cioè del più veloce e più tardo, che si fa per la più e meno resistenza.

Il Galilei segue che, se per Aristotile le figure sono cause del moto più tardo o più veloce, adunque non potranno essere cause della quiete. Si risponde, essere tutto il contrario: che se, per essere dilatate, alcune figure impediscono il mobile dal suo moto e fanno il moto più tardo, quando saranno molto dilatate lo impediranno totalmente e saranno causa di quiete, come anche si vede per esperienza: e però Aristotile congiugne, nel quarto del Cielo, il tardo con la quiete e li referisce alla figura come causa.

Ricerca poi: Se alcune figure fanno la quiete, adunque alcune raccolte saranno cause di moto; che è contr'Aristotile. Si risponde che non ci è conseguenza: perchè le figure non per sè sono cause di moto, ma di modo, cioè più veloce o più tardo, ed anche da per sè sono cause della quiete, in quanto il più forte per natura, per estensione lo fanno più debole, ed il superante superato.

Va ancora investigando l'Autore, se quella parola semplicemente si debba congiugnere con la parola causæ o vero col verbo ferantur. A questo diciamo, che si ha da congiugnere con la parola ferantur, dove la pone Aristotile; ma ancorchè si congiugnesse con la parola causæ, non farebbe niente in favor suo: perchè Aristotile, come abbiamo detto, dalla diversità delle figure conclude il più o meno veloce moto, onde se le figure si dessero, quali appartengono, a gli elementi, aiuterebbono elle bene il moto loro, inquanto la cosa mossa dee avere quantità figurata; ma perchè in tal caso sono indifferenti, la indifferente natura seguendo, non vengono a variarlo secondo il tempo, perchè sì come da indifferenti cagioni procedono indifferenti effetti, così dalle differenti, differenti effetti.

Dice più avanti nel suo libro il Galilei, che da Aristotile, nel quarto della Fisica, sono attribuite le cause primarie del più e men veloce alla maggiore o minor gravità de' mobili paragonati tra di loro, ed alla maggiore o minor resistenza de' mezzi dipendente dalla maggiore o minor crassizie, e che la figura vien poi dallo stesso considerata più tosto come causa strumentaria della forza della gravità, e che da queste cose conclude che la figura per sè stessa non farebbe nè gravità nè leggerezza. La qual conseguenza diciamo esser falsa: perchè Aristotile nel quarto della Fisica parla di materie diverse, e nel quarto del Cielo della maggiore o minor velocità del moto nella medesima materia per la ragione delle figure.

Viene anco l'Autore a battaglia con Aristotile per un ago, e dubita contr'esso perchè posato leggiermente su l'acqua resti a galla non meno che le sottili falde di ferro o di piombo. Distrighiamoci di questa ancora, dicendo, in prima, che il Galilei cerca tra queste cosette se alcuna ne potesse trovare, per la quale gli riuscisse còrre Aristotile in qualche errore, come, per esempio, d'ortografia, e non in cose gravi; poi, che il fare l'esperienza se un ago sta a galla o no, è tanto facile ad ogn'uno, che non sarebbe stato men facile ad Aristotile, il quale volle vedere infinite e difficili esperienze. E gli intendenti della lingua greca sanno ormai che 'l vocabolo usato da Aristotile in questa materia, βελόνη, che in lingua latina significa acus, significa l'ago da reti, il dirizzatoio de' capelli, ed altri aghi grandi: perchè, adunque, il Galilei non prese di questi? Ma per fare la sua esperienza ne prese uno che propriamente si dee dire aghetto o agnino, e non ago, e viene in tal maniera strignore Aristotile, sì come non fosse altro l'ago che aghino: e pure acus significa per metafora ancora aciculam, cioè ρ̉αφίὸιον. Oltre che, il paragone non si fa mai negli estremi, ma nelle cose più prossime: e però nelle parole d'Aristotile ove dice «e altre cose minori e meno gravi», cioè de larghi ferramenti e piombo, che se sono ritonde o lunghe, come l'ago, vanno al fondo, si deono adunque prendere aghi un poco minori de' larghi ferramenti e piombo, e non i minimi; i quali soprannuotano nel modo che afferma Aristotile di alcune cose, per la picciolezza loro nuotano per l'aria e l'acqua, come la rena d'oro e altre cose terrestri e polverizzate; e non è dubbio che le cose minime si sostengono più nell'acqua che nell'aria, se non avviene qualche altro accidente.

Contradice ad Aristotile, perchè afferma che l'oro battuto e la rena d'oro ed altre cose terree e polverizzate nuotano per l'aria, negandone la esperienza e dicendo nuotare commosse dal vento. Al che pur si risponde, che Aristotile in questo luogo parla figuratamente, cioè συνεκδοχικω̃ς, nominando la parte per lo tutto, perchè il vento contien due parti, l'esalazione e l'aria contigua che è mossa per violenza: e questo è modo comune di parlare; sì come si suol dire che l'aria porta alcuna cosa, perchè quasi sempre nell'aria è alcuna commozione. Ma diciamola come sta: ψη̃γμα non si chiama l'oro battuto, ma la limatura; nè Aristotile dice che nuoti su l'aria, ma su l'acqua, come osservò Simplicio, e così non occorre fondarsi nel vento.

Impugna di nuovo l'Autore la risposta d'Aristotile contr'a Democrito: il quale ebbe opinione, che alcuni atomi ignei, che continovamente ascendono per l'acqua, sospingono in su e sostengano quei corpi gravi che sono molto larghi, e che li stretti calino a basso per la poca quantità d'atomi che contrasta e ripugna loro: perchè rispondendo Aristotile a Democrito, disse che ciò dovrebbe più facilmente avvenire nell'aria; sì come il medesimo Democrito ne muove contro di sè instanza, ma, dopo averla mossa, la scioglie leggiermente, con dire che i corpuscoli che ascendono in aria fanno impeto disunitamente.

Dico che Aristotile non ha risposto al falso scioglimento di Democrito, perchè era fondato su principii falsi, cioè su' calidi da' quali voleva si facessero tutte le cose, e contra quelli altre volte aveva disputato Aristotile e mostratone la vanità loro, tal che sarebbe anco stato vano il trattarne più volte di questi senza proposito: ed in vero è quella dottrina una tal pazzia, che mi vergogno io, non che Aristotile, a trattarne. E pure, poi che pare se ne tenga conto, dicamisi, di grazia, per qual cagione abbino quei calidi più forza di sostener per acqua che per aria? Se perchè vengono più uniti, ma perchè più nell'acqua s'uniscono che per aria? E dovunque s'uniscono, necessario è che lascino un luogo e che s'accostino all'altro: nel luogo, dunque, lasciato non potranno aver forza di sostenere; e pur la forza si vede uguale a tutte le parti: se già non vogliamo dare tanto cervello a gli atomi, che, non altrimenti che soldati in battaglia, vadino soccorrendo secondo il bisogno; e non niego però che potessero essere a tempo, Ma, di grazia, usciamo delle pazzie tanto espresse.

Dice l'Autore, che s'inganna Aristotile non avvertendo che i medesimi corpi sono men gravi nell'acqua che nell'aria, e però si sosterranno più facilmente in quella che in questa. S'inganna ben egli doppiamente: prima, perchè non lui inteso Democrito, il quale non attribuiva il sostenere all'acqua, ma a quei calidi solamente, e però il sostenere più nell'acqua che nell'aria non fa a proposito di Democrito; dipoi, perchè non vuole la resistenza posta da Aristotile, senza la quale non si può render ragione perchè una cosa pesi più nell'aria che nell'acqua, perchè altrimenti un corpo dovunque sia posto ha la medesima gravità.

Adesso l'Autore si sforza a confutare Democrito, non stimando in nessuna maniera la riprensione d'Aristotile contra Democrito. Onde dice che «se gli atomi caldi ascendenti nell'acqua sostenessero un corpo che, senza 'l loro ostacolo, andrebbe al fondo, ne seguiterebbe che noi potessimo trovare una materia pochissimo superiore in gravità all'acqua, la quale, ridotta in una palla o altra figura raccolta, andasse al fondo, come quella che incontrasse pochi atomi ignei, e che, distesa poi in una ampia e sottil falda, venisse sospinta in alto dalle impulsioni di gran moltitudine de' medesimi corpuscoli, e poi trattenuta al pelo della superficie dell'acqua; il che non si vede accadere, mostrandoci l'esperienza che un corpo di figura, v. g., sferica, il quale a pena e con grandissima tardità va al fondo, vi resterà e vi discenderà, ancora ridotto in qualunque altra larghissima figura. Bisogna dunque dire, o che nell'acqua non sieno tali atomi ignei ascendenti, o, se vi sono, che non sieno potenti a sollevare e spignere in su alcuna falda di materia che, senza loro, andasse al fondo. Delle quali due posizioni io stimo che la seconda sia vera, intendendo dell'acqua costituita nella sua natural freddezza: ma se noi piglieremo un vaso, di vetro o di rame o di qualsivoglia altra materia dura, pieno d'acqua fredda, dentro la quale si ponga un solido di figura piana o concava ma che in gravità ecceda l'acqua così poco che lentamente si conduca al fondo, dico che, mettendo alquanti carboni accesi sotto il detto vaso, come prima i nuovi corpuscoli ignei, penetrata la sustanza del vaso, ascenderanno per quella dell'acqua, senza dubbio, urtando nel solido sopradetto, lo spigneranno sino alla superficie dell'acqua, e quivi lo tratterranno, sin che dureranno le incursioni de' detti corpuscoli; le quali cessando dopo la suttrazion del fuoco, tornerà il solido al fondo, abbandonato da' suoi puntelli».

Intorno alle parole del Galilei è da notare che egli, primieramente, erra volendo che la figura ampia e larga, che tocca il fondo, abbia da esser sollevata da quelli atomi caldi, che nell'acqua, secondo l'opinione di Democrito, si ritrovano in pochissima quantità; perchè fra la superficie della figura larga e la parte della superficie della terra, che si toccano fra loro, non può esser quantità bastante a muovere tali figure in su. Di poi erra, perchè potrebbe confutare Democrito con il dire che qualsivoglia gravità, in figura dilatata, che galleggia in su l'acqua, sarebbe anco sostenuta sotto la superficie dell'acqua e, di più, potrebbe anco esser sollevata in alto per la medesima gran quantità, che tanto sarebbe nel mezzo dell'acqua come nella superficie; poi che l'istessi in numero che lo potrebbono sostenere in alto, lo potrebbono anco sollevare in alto. Erra, ponendo gli atomi. Erra, ponendo la penetrazione de' corpi. Erra, chiamando la caldezza corpo. Erra, dicendo che il caldo sostenga, del quale è proprio riscaldare e penetrare; e 'l sostenere, de' corpi. Erra, perchè, ancora che quelli calidi fussero fuoco, ad ogni modo non potrebbono sostenere sopra di loro le cose terrestri, essendo questi per natura leggieri e quelle per natura gravi. Erra, mettendo il fuoco dentro all'acqua, senza esser mantenuto da qualche convenevole materia. Erra, perchè, vuole che sia nell'acqua fuoco, senza vederlo e senza provarlo. Erra, perchè il fuoco, movendo, si ricerca il suo luogo, e non resta nell'acqua. Erra, perchè l'acqua calda non sostiene i corpi più gravi d'essa, se non sia per qualche commozione. Erra, ponendo moto a gl'indivisibili. Erra, perchè tali atomi arebbono sostenuto meglio nell'aria che nell'acqua; perchè nell'aria non sarebbono così sparpagliati come nell'acqua, per la contrarietà interposta. Erra, mettendo il fuoco nell'acqua senza essere spento. Erra, perchè il fuoco nell'acqua non sosterrebbe, ma più tosto s'armerebbe contro l'acqua come destruttiva del suo essere. Erra, chiamando la caldezza atomo; che si distende con la quantità del subietto. Erra, perchè chiama indivisibili i corpi ignei. Erra, ponendo l'acqua mezzo del moto naturale del fuoco. Erra, ponendo i corpuscoli sostenere più in cima che nel mezzo. Erra, perchè dà al fuoco più forza che all'acqua. Erra, perchè l'inconveniente crede essere causa contro Democrito. Erra, dando alle cose indivisibili tatto. Erra, ponendo essere fisico indivisibile. Erra, perchè quelli corpuscoli abbrucerrebbono quelli corpi, e non li sosterrebbono. Erra, perchè i corpi rari non sostengono sopra di sè tali corpi gravi, ma si dividono da loro facilmente. Erra, finalmente, per non ricercare altre minuzie, dicendo che il fuoco partorisca fuoco atomo per servizio di quelli corpi gravi.

Concludiamo, dunque, che chi non vuole caminare alla cieca, bisogna che si consigli con Aristotile, ottimo interprete della natura; che, nel fine del quarto libro del Cielo, non se la passa solo con addurre un inconveniente, ma con renderne la cagione, bene esplicata da lui: cioè che il tutto depende dalla più e men facile divisione del mezzo; cioè che le cose larghe, essendo più spaziose, sono causa che la gravità del solido si appoggia in più punti, e, per conseguenza, accrescendo anche le parti del mezzo, pigliano tanta forza contro il galleggiante solido, che così lo fanno stare a galla. Il contrario è nella figura acuta, nella quale, posando la gravità in manco punti, vengono accresciute le forze di sopra e diminuite quelle di sotto, e, conseguentemente, vincendosi il mezzo dal solido, è penetrato in tutte le sue parti; e si vede per esperienza che quanto più le figure sono acute, tanto più si sommergono. E questo vuole intendere Aristotile, quando dice che le figure piane comprendono molto: donde si cava manifestamente che la figura piana non solo e causa della tardità del moto, ma d'una intera quiete. Questo non può intervenire all'aria, per essere molto debole: anzi l'esempio che adduce l'Autore, che un legno tanto vincerà l'acqua ascendendo come l'aria discendendo, è falso; perche, con questo che nell'ascendere non solo è mosso dall'aria, ma anche così scacciato dall'acqua, a ogni modo ascende più tardi per l'acqua che non discende per l'aria senza comparazione veruna. E chi negherà mai che non si tagli più difficilmente il corpo più sodo che il più debole, per la maggiore resistenza? È falso, adunque, che non s'abbia a poter ritrovare o imaginare virtù, della quale la renitenza dell'acqua all'esser divisa e distratta non sia minore; perchè la virtù d'aria e minore. E per ritornare al nostro proposito, benchè le strisce fatte d'una falda di piombo o d'altra materia sopranuotino, ciò non è contro quello che scrive Aristotile; perchè esse galleggiano per la loro picciolezza. E da questo si comprende chiaramente, esser falso quello che asserisce il Galilei dicendo che «quando ben fusse vero che la renitenza alla divisione fusse la propria cagione del galleggiare, molto e molto meglio galleggierebbono le figure più strette e più corte che le più spaziose e larghe». Dico esser false simili parole: perchè in questa parola stretto, o intende d'un corpo continuo che abbia la medesima gravità che aveva la figura piana, o vero intende d'una, figura stretta che soprannuota per la piccolezza: se del primo modo, non solamente non soprannuota meglio tal figura, ma nè meno soprannuota in guisa alcuna; ma lui intende del secondo, come si vede nella tavola ABDC, e però non fa al proposito nostro, perchè noi parliamo d'una figura piana e d'una raccolta o stretta, come d'un ago, e che abbino la medesima gravità in un medesimo subbietto, cioè in un medesimo corpo continovo.

Indi si rivolge pure a esso, che, confutando Democrito, argomentava così: Se una gran mole d'aria avesse maggior quantità di terra che una piccola d'acqua, l'aria senza dubbio sarebbe più grave, e discenderebbe, conseguentemente, in giù più presto dell'acqua: sì che Aristotile vuole che la maggior parte di terra si muova più presto della minore: il che è falso. Mostreremo noi che non è falso: ma tra tanto dicasi perchè più presto in giù si muova il ferro che il legno, ancor che di grandezza disuguali.

Questa opinione, posta dal Galilei, fu avanti del Mazzoni, mosso dalle parole del testo d'Aristotile che si porranno qui appresso, nelle quali afferma che più velocemente si muova il tutto che la parte, per contenere il tutto quantità maggiore; la qual cosa stimando il Mazzoni errore, lasciò nel suo libro scritto che Aristotile vi cascò per non aver conosciute le proporzioni matematice. Per la quale inconsiderata ed arrogante calunnia, siamo sforzati di nuovo a prendere la dichiarazione d'Aristotile: per lo che fare esamineremo prima le parole del testo, e di poi dimostreremo il senso di esse.

Il testo dal Mazzoni addotto, nel terzo del Cielo, è questo: «E se si dividerà un corpo che abbia gravità come la linea CE alla linea CD, se 'l tutto si muove per tutta la linea CE, è necessario che la parte si muova nello stesso tempo della CD»: la qual cosa il Mazzoni dice essere per esperienza falsa; tenendo che Aristotile affermi ancora il medesimo nel quarto della Fisica, con quelle parole «lo stesso corpo e lo stesso peso, per la parola stesso, che stima che significhi lo stesso, secondo la medesima spezie, cioè secondo la medesima materia. Risponderemo, adunque, al Mazzoni ancora, e dimostreremo in prima gli errori ch'egli ha commessi, e quindi trapasseremo a far manifesto il restante.

Primo error del Mazzoni è stato, aver creduto che Aristotile non abbia conosciute lo proporzioni matematiche. Ma chi dubita che questo sia falsissimo? poi che è noto che gli studiosi della filosofia attendevano in que' tempi molto più alle scienze matematiche che non fanno oggi i nostri, nè studiava già mai alcuno logica che non avesse prima dato opera a quelle; ma più degli altri facevano questo gli scolari di Platone, il cui precetto era che niuno senza la scienza della geometria entrasse nella sua scuola. Come sarà adunque credibile che Aristotile, scolare suo, il maggiore che egli avesse, vi fosse entrato senza la cognizione di essa? E chi crederà mai che uomo di sì eminente dottrina non l'avesse appresa? la quale imparavano allora i fanciulli, come fanno ora i nostri le lettere dell'alfabeto. A confermazione di ciò, si vede che quasi in tutti i suoi libri sono sparse molte cose di matematica, e principalmente in quelli delle Meccaniche, ne' quali egli le usò quanto giudicò, necessario a' suoi insegnamenti. Oltracciò, la proporzione appartenente al nostro testo non era sì difficile, che senza una molto esatta cognizione di matematiche non l'avesse potuta intendere e usare. La quale era che, data parità di proporzione in cose contrarie, tanto fosse, per esempio, quella del combattere dodici con quattro, quanto quella di sei con due; perlochè, dati nella medesima materia di sasso gradi dodici di gravità e nella parte del medesimo sei, di necessità ne avvenisse che 'l mezzo avesse a contrastare nella medesima proporzione, e ne seguisse che 'l tutto si dovesse muovere nello stesso tempo che la parte, quando però nello esperimentarsi la cosa in materia ne succedesse tale effetto. Ma di questo ne parleremo poi. E concludendo, dico che Aristotile, dato che avesse negata tal proporzione in altri luoghi, non la niega in questo, perchè parla in altro proposito; e 'l Mazzoni stesso lo avrebbe concesso diverso, se avesse inteso il luogo.

Dice, adunque, Aristotile in quel testo 26 del terzo del Cielo, primieramente, che i moti de' corpi sono naturali, perchè non si fanno nè per violenza nè fuor di natura. Secondariamente dice, esser necessario che alcuni corpi abbiano inclinazione a gravità e leggerezza, perochè niuna cosa si può muovere che non sia grave o lieve; e che se sarà grave, si muoverà al mezzo; e se lieve, da esso: parlando in questo luogo solamente del corpo sollunare, e non celeste, movendosi quello solo circolarmente. E ritornando alla cosa, perchè «avrebbe forse alcun dubitato contr'Aristotile che un corpo non grave potesse anche discendere, volendo egli all'incontro che i gravi solo facciano questo, mosso da ciò, a distruzione del dubbio argomentò nella maniera seguente, conducendo l'avversario in uno assordo necessario, cioè che 'l non grave e 'l grave discenderebbono nel medesimo tempo. A pruova di che, piglia come concesso che 'l grave debba muoversi più presto del non grave, ed argomenta in questa guisa per lettere: «Sia A non grave, sia B grave; muovasi il non grave per la linea CD, e 'l grave per la linea CE, cioè per la porzione più veloce per ragion del concesso; e dividasi il corpo grave: se 'l tutto si muove per la linea CE, sarà necessario che la parte si muova meno; onde, per conseguenza, avrà la medesima linea del non grave, cioè CD, e avverrà che nello stesso tempo si muoverà il grave e 'l non grave; che è impossibile». Ora, per intendere questa cosa, è da notare che Aristotile in questo testo parla d'una gravità minima, della quale non se ne possa dare alcun'altra minore. Il che si pruova in questo modo: Pigliamo A non grave, che si muova per la linea CD; e piglisi per grave, per esempio, un sasso e muovasi per la linea CE, e di esso una parte della quale si possa trovare altra cosa men grave e muovasi per la linea CD del non grave: ora, perchè, date le linee uguali, quando una di esse eccede un'altra, necessariamente ancora la sua uguale eccederà la medesima; e perchè s'è detto ancora che 'l non grave e la parte del sasso si muovono nel medesimo tempo; ne seguirà che 'l non grave abbia a muoversi più presto di quel grave che era men grave della parte del sasso, e per conseguenza, si verrà a concludere che 'l non grave s'abbia a muovere più presto del grave; che sarebbe una conclusione contro 'l concesso, che era che 'l grave si muovesse più presto del non grave: il che sarà non solo conclusione diversa a quella che vuol fare Aristotile, ma concluderà contro 'l concesso, cosa contraria al modo dell'argomentare. Onde sarà sforzato il Mazzoni ed ogn'altro a confessare che Aristotile intenda in questo luogo una minima gravità, della quale non se ne possa trovare altra minore, e che parli più tosto in astratto che in concreto e, per conseguenza, niuna altra cosa non possa di essa muoversi più tardi, per corrispondere la minima gravità al minimo tempo. Onde, per non dare Aristotile lo infinito, il quale niega nel primo del Cielo, ove fa corrispondente la gravità e leggierezza, piglia il contrario di esso, che è il fine, cioè la minima gravità: che se pigliasse parte proporzionata, non concluderebbe niente, perchè l'avversario negherebbe sempre che 'l non grave potesse muoversi in un medesimo tempo con la parte proporzionata del sasso; massimamente che Aristotile vuole che la parte abbia un grado meno del tutto quanto alla gravità, la qual cosa non è vera nel parlar concreto, dove la parte sempre ha assai manco gradi del tutto.

Seguita l'altro suo errore, che credeva, per quelle parole d'Aristotile nel quarto della Fisica, che fosse 'l medesimo materia e spezie. E pure Simplicio, che ne sapeva più di lui, fa la gravità una spezie e la leggerezza un'altra; e niente di meno non direbbe che tutte le cose gravi fossero della medesima materia, e pur sono della medesima spezie; adunque altro e spezie ed altro materia: perchè, o pongasi la gravità nel predicamento della qualità o della relazione o del dove o della quantità, inquanto la gravità segue la moltitudine della materia, sempre sarà una nella spezie, se bene fosse participata da diverse materie gravi, secondo i più o meno gradi.

Commette di nuovo due altri errori il Mazzoni, non di poco momento: il primo, negando l'esperienza che in una medesima materia si muova il tutto più presto della parte. Nella quale s'ingannò, perchè ne fece forse l'esperienza dalla sua finestra, la quale perchè fu bassa, da essa tutte le materie gravi andarono forse ugualmente a basso; ma noi l'abbiamo fatta di cima al campanile del Duomo di Pisa, esperimentando vero il detto d'Aristotile, che 'l tutto della medesima materia in figura proporzionata alla parte discendeva più velocemente di essa: luogo veramente a proposito fu, poi che il vento, mediante l'impulsione, potrebbe variare l'effetto, nel qual luogo non sarebbe mai tal pericolo. E così viene avverato il detto d'Aristotile nel primo del Cielo, che 'l corpo maggiore si muove più velocemente del minore della medesima materia, e nel medesimo modo che cresce la gravità, cresce ancora la velocità: e questo testo faceva molto più per loro, che quegli che hanno citati di sopra. Ma l'error del Mazzoni è stato che ha paragonato solamente il mezzo col mobile secondo la grandezza della materia, e non secondo le forze sue; e però la sua proporzione non è a proposito. Si dee, adunque, distinguere l'eccesso in due modi: o secondo la quantità, o secondo la qualità. Siano, v. g., due sassi, un maggiore e un minore; sia secondo la quantità il maggiore doppio del minore, ma di qualità sia tre volte più: ora, quanto alla quantità procede bene la proporzione del Mazzoni, ma quanto alla qualità non è vera. Perchè, avendo il maggiore più forze, supererà per conseguenza il minore in proporzione, rispetto al mezzo disuguale; ma non si dee pigliare la quantità senza la qualità: perchè, se bene l'aria contrasta secondo l'occupamento della figura, si muoverà niente di meno, per le forze maggiori o minori contenute in essa, uno più velocemente dell'altro. Onde si vede che, pigliando ferro e sasso della medesima figura, si muoverà più presto il ferro che 'l sasso: perchè nel ferro la virtù della gravità è maggior di quella del sasso e, per conseguenza, egli per l'eccesso delle forze supererà più le parti resistenti dell'aria, che non farà il sasso le sue; le quali parti erano tra di loro uguali. Piglisi di poi un sasso il quale pesi dieci libbre, e ferro che ne pesi cinque; discenderà indubitatamente più presto il ferro del sasso: perchè, se bene il sasso aveva maggior gravità, per necessità aveva ancora molto maggiore la figura, e così, in proporzione al mezzo, le forze del ferro erano maggiori di quelle del sasso; onde, se bene nel sasso era maggior gravità, ritrovava niente di meno, per maggior estensione della figura, maggior contrasto nel mezzo. Concludiamo, adunque, che paragonando insieme la quantità con la qualità rispetto al mezzo, si ritroverà che la proporzione, come abbiamo detto, sarà disuguale.

Ma ritorniamo all'Autore, il quale contraddice ad Aristotile che argomentava così contro a Democrito: Che se una gran parte d'aria contenesse più parti di terra che una picciola quantità d'acqua, l'aria discenderebbe, per le molte parti di terra, più velocemente in giù che non farebbe l'acqua per le poche. A questo s'oppone il Galilei, dicendo non esser necessario che una gran mole d'aria, per la molta terra contenuta in essa, discenda più velocemente che la picciola mole d'acqua; anzi, per l'opposto, qualunque mole d'acqua dovrà muoversi più veloce di qualunque altra d'aria, per essere la participazione della parte terrea in spezie maggiore nell'acqua che nell'aria. E la risposta a quest'opposizione del Galilei sia oramai la conclusione di questo nostro libro.

Per lo che fare, si ha da distinguere la velocità in più modi: cioè o secondo il maggior moto in paragon del minore, o secondo la propinquità del fine, o la diversità del mezzo, o della figura, o l'eccesso delle gravità di diverse materie, o quello della gravità della medesima, o vero secondo quello della men grave in paragone della più grave ma ridotta in minima quantità. Ora di qual velocità di moto all'ingiù intendesse Aristotile nell'argomentare contro a Democrito, diciamo che egli parlò dell'ultimo modo, cioè dell'eccesso. Per pruova di questo, è da notare tre cose: la prima, che Aristotile parla di qualche moltitudine, ma non di ogni, perchè non fosse intesa ogni moltitudine in paragone di qualsivoglia minor acqua: la seconda è, che Aristotile non pone minor parte d'acqua di quella d'aria, ma assolutamente dice «poca», acciochè non fosse presa poca in paragone di qualsivoglia maggior parte d'aria; perchè, dicendosi «poca», si potrebbe intendere ancora una gran copia, come interviene per lo più ne' paragoni: la terza cosa finalmente è, che Aristotile non congiugne la voce greca corrispondente alla dizzione poca con l'articolo. Per la cognizione di che, è da sapere che l'articolo significa o la idea universale delle cose differenti da essa, come insegna Ammonio nel libro Della interpretazione; o vero il proprio e diterminato, a differenza dello 'mproprio; o vero significa, ma di rado, cosa detta in universale ma ristretta al particolare, come afferma Magentino nel libro della Priora, dove Aristotile dice «il piacere non esser buono», ed in questo modo conviene con la voce che è senza articolo propriamente, se bene con l'articolo si dice impropriamente. E però Aristotile in questo luogo non piglia ogni poca acqua, ma qualche poca, per non concludere come il Galilei, che conclude: «Adunque ogni maggior parte d'aria si muoverà più velocemente che la minor acqua»: la qual conclusione se Aristotile facesse, contraddirebbe egli stesso a' suoi dogmi, tra' quali uno è che il più grave debba più velocemente muoversi, intendendo più grave o secondo diversa materia o secondo la medesima. Il che si dee prendere in proporzione, poichè qualche volta avviene il contrario, cioè quando non si piglia la proporzione uguale, ma disuguale; perchè in tale estremità si può dire che non solo le cose gravi si muovono più tardi, ma che cessi poi tutto il lor moto, cioè che la terra voli per aria e che la cosa più grave dell'acqua nuoti sopr'essa, sì come l'oro battuto, quel minimo, e la rena volano per l'aria, e l'ebano e l'aghetto soprastanno all'acqua. Ed anche si vede per esperienza come un legno si muove più presto in giù che un sasso piccolo, con questo che è più gravità nel sasso che nel legno; e pure è molto maggiore la quantità dell'aria in quel legno che non è la terra, nè può fare, secondo il Galilei, tanta quantità del fuoco in quell'aria che la parte terrena, con la quale è unita, non s'abbia a muovere più presto d'un sasso o d'altra cosa per natura più grave del legno; molto, adunque, più presto si muoverebbe dall'acqua, che è meno grave di tali materie, per avere il suo fuoco, secondo l'opinione di Democrito. Concludasi, adunque, che non solo la terra in minore quantità porta l'aria o vero il fuoco in giù, ma anco non può essere così trattenuta, che non possa muoversi più presto da una minima parte di terra o gocciola d'acqua.

Ma quello in che doverebbe fare il Galileo difficultà è più di sotto, dove Aristotile argumenta che anche una gran quantità d'acqua si muoverebbe più presto in su che poca d'aria: ma se poca terra vince molto fuoco, come adunque manco fuoco porterà in su più terra? Tal dubbio m'induce a credere, che Aristotile contra Democrito argomenta avendo più riguardo a' nomi che alla natura della cosa. Poi che quelli antichi filosofi andavano dicendo che si muovessero gli elementi ora per il triangolare, ora per la grandezza, ed ora per il pieno e vòto, e non ponevano altrimenti la natura principio del moto: e così diceva Democrito, che la terra si muoveva in giù per il pieno, ed il fuoco in su per il vòto; e dipoi voleva che l'aria participasse più di vòto che di pieno, e l'acqua più di pieno che di vòto. Contro di lui Aristotile argomenta che, se per il pieno l'acqua si muove in giù, adunque una gran quantità d'aria, avendo più pieno che poca acqua, si muoverà più presto in giù; come anche una gran quantità d'acqua, per avere più di vòto che poca d'aria, si muoverà più presto in su. E se bene la gran quantità d'aria avesse più di vòto che di pieno e, per il contrario, l'acqua più di pieno che di vòto, non gioverebbe questo punto a Democrito: perchè, se per il più vòto non venisse in giù l'aria, non sarebbe adunque vero che il pieno fusse causa del moto all'ingiù, e più di vòto dove non s'accelera il moto all'insù; adunque nè pieno è nell'aria, nè vòto nell'acqua, nè questi possono dirsi principio di moto: sì che la disputa sta ne' nomi e non in re, come ha creduto il Galilei nostro. Oltre che, si darebbe repugnanza nella natura degli elementi per il pieno e vacuo, se il pieno per il più vòto non facesse il muoversi in giù, nè il vòto per il più pieno non facesse il muoversi in su. Di più, un nome non leva la forza d'un altro.

E questo basti a dichiarazione della vera dottrina d'Aristotile, la quale ho difeso e m'offerisco a difendere.

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