A
MONSIGNOR MARZIMEDICI,
ARCIVESCOVO Dr FIRENZE.
[22 SETTEMBRE 1612,].
Illustrissimo e Reverendissimo Signor e Padron mio Colendissimo,
Quand'io venni ultimamente a Firenze a baciar le mani a V. S. Illustrissima, non avevo, per l'impedimento della mia muraglia, ancor potuto vedere il trattato del Sig. Galilei, nè altra cosa intorno a questo. Ora che io ho auto un poco di comodo, l'ho letto con molto mio gusto, se bene non inteso come bisognerebbe; e con la presente m'è piaciuto, più per mostrar d'averla obbedita in leggerlo che per altro rispetto, dirle qualche cosa in questa materia, se ben tutto sarà cosa frivola e di niun fondamento.
Primieramente, sono tutta via col Sig. Galilei, che la figura non sia causa di io stare, o di non stare, sopra l'acqua ad alcuna cosa, ma che tutto si deva giudicare dalla gravità. Se sarà grave più che altrettanta acqua, anderà a fondo; se meno, galleggerà. E parmi che la lega e l'Incognito procedino contro di lui con ingannucci, e non faccino a buona guerra.
La prima cosa, la disputa ha due capi, e mai si viene a cimento se non d'un solo. Vuole la lega che si pigli questo giudizio non dalla gravità, ma dalla figura, e che però la figura raccolta è cagione d'andare al fondo (e questo è 'l primo capo), e la figura distesa è cagione del galleggiare (e questo è il secondo). Del primo capo non si è mai fatta una parola. Sarebbe pur dovere, a mostrar questa verità realmente e non con sofisticherie, che si facesse vedere come una materia più leggiera di egual mole d'acqua, ridotta in figura raccolta, andasse al fondo; il che non si mostra, e non si troverà mai. Sì che, essendo in questa parte, della figura raccolta, la verità col Sig. Galilei, egli ha vinta la metà della quistione: e anco è da credere che il simile avvenga nella parte opposta, della figura distesa, se qualche accidente non impedisce.
Quanto il 2° capo, di questa figura distesa, tutta la disputa e difficoltà finalmente è ridotta a quella esperienza dell'assicella d'ebano, che, essendo più grave d'altrettant'acqua, con tutto ciò galleggia. A questo risponde il Sig. Galilei, e dice 2 cose: una (che è la principale e più importante), che questo avviene accidentalmente, per conto di quegli arginetti etc., come tutto dimostra esquisitamente nel suo trattato; la seconda è, che, volendo egli render la ragione per la filiale si reggono quegli arginetti, dice che questo avviene per una forza attrattiva e calamitica dell'aria, in virtù della quale l'aria appiccata a quell'assicella la sostiene che ella non vadia al fondo. L'Incognito, di queste 2 cose lascia star la prima; e non distrugge mai in verità questo dogma, ciò è come, reggendosi quelli arginetti, l'assicella cresce di mole, o almeno, avendo in virtù di essi fatto alzare tant'acqua quanta è la sua gravità, non ne può far alzare più, perchè il più leggiero non alza il più grave, e per questo non può andar più giù e non si profonda.
Com'io dico, se si guarda bene, questa verità non è mai distrutta dall'Incognito; ma fa bene una grand'invettiva contro al 2°, cioè mostra che la cagione del reggersi quegli arginetti non vien dalla virtù calamitica dell'aria, ma dalla siccità dell'ebano etc., come si vede nel suo libro a fac. 11, ver. 32 [pag. 108 lin. 2 e seg.]. Ora, dico io, questo non fa a proposito. Regghinsi questi arginetti con qual cagione voglino essi, pur che si regghino, e, reggendosi, sieno cagione che l'assicella abbia alzato acqua pari alla sua gravità, e, non ne potendo alzar più, non possa anco andar più a basso. Contro a questo, che è l'importanza del fatto, dovrebbe proceder l'Incognito, e mostrare come quelli arginetti non son causa di questo, e come, levandogli via, l'assicella si regge in ogni modo; ed egli lascia questo, e fa una grande sparata contro all'accessorio, ciò è contro alla ragione assegnata del reggersi gli argini. Che importa a me che questa non sia la vera cagione di reggergli? Basta che si regghino, e che da questo proceda che la tavoletta non si profonda; ed a voler mostrar il contrario, sono obbligati a mostrare; come la tavoletta senz'essi si regga in ogni modo: il che non faranno mai. Sì che, essendo questi arginetti cagione di regger l'assicella, e non dependendo loro dalla figura, ma dalla siccità dell'ebano o da altro, la figura non ha parte in questo galleggiamento. E che ciò non penda dalla figura, è manifesto; poi che, bagnando l'assicella, la figura rimane quella medesima, e nondimeno gli argini non si reggono e la tavoletta va al fondo. Il dir poi che, quando si bagna l'assicella, o quando se gli chiuggono sopra quelli arginetti, quell'acqua la pigne affondo, questa è un'ostinata sofisticheria e una meschinissima fuga, perchè l'acqua in proprio loco non gravitat; e quella cosa che per sua natura non va al fondo, se avesse sopra di sè mille braccia di profondità d'acqua, mai sarebbe rattenuta, non che pinta, al fondo; tanto manco avrà questa potestà quella pocolina d'acqua che si chiude sopra l'assicella: oltre all'esserci poi quella efficacissima ragione addotta dal Sig. Galilei nel suo trattato a fac. 35, ver. 36 [pag. 99, lin. 18 e seg.], alla quale non mi pare che si possa opporre cosa alcuna.
Quanto alla, cagiono del reggersi detti argini, veramente par cosa dura affermare che questo proceda dalla virtù attrattiva dell'aria: prima, perchè, bagnata che sia l'assicella, se ben si riporta in alto al contatto dell'aria, nondimeno gli arginetti non si reggono più e l'aria perde quella virtù, senza vedersi perchè; di poi, non si vede mai attrazzione di cosa alcuna contro alla sua natural propensione, se non per causa di fuggire 'l vacuo, alla qual cosa non si può ridurre il nostro caso. E però a quella esperienza che pone il Sig. Galilei a fac. 38, ver. 32 [pag. 102, lin. 20 e seg.], di quel bicchiere rivolto all'in giù, direi che quella cera séguita in su l'aria di quel bicchiere ratione vacui, perchè, tirandolo in su con qualche velocità, bisogna che quel che v'è dentro lo séguiti, sì come, alzata con velocità la coperta d'un libro, si tira dietro due o tre carte, ma alzata lentamente non ne tira alcuna: similmente, se quel bicchiere fosse alzato lentissimamente, non tirerebbe la cera; dico lentissimamente, perchè quella cera è tanto lieve nell'acqua, che ogni minima velocità cagiona in lei il seguitare ratione vacui. Oltre che, se bagnando l'assicella, tutto l'elemento dell'aria non può far di nuovo seco il contatto attrattivo, tanto manco lo potrà fare quella poca aria racchiusa nel bicchiere. Sì che, per fuggire ancora quella caravana d'inconvenienti addotti dall'Incognito a fac. 10, ed 11 [pag. 165, lin. 26 – pag. 167, lin. 17], io non direi che l'attrazzione dell'aria fosse quella che cagionasse gli arginetti e che ritenesse l'assicella; ma direi con lo stesso Incognito, fac. 11, ver. 32 [pag. 168, lin. 2 e seg.], che, essendo naturalmente pugna fra l'umido e 'l secco, e cercando tutte le cose la sua unione e conservazione, l'aridità dell'assicella ed il desiderio dell'acqua di conservarsi unita fanno che l'acqua va a rilente a scorrere sopra l'asciutto di quell'assicella, e così forma quegli arginetti; sì come ancora una gocciola d'acqua posta su qualche cosa arida si ritonda e si raccoglie, come se non fusse fluida, ma posta sul bagnato subito si spiana e sparge: e però direi che quegli arginetti non fussero altro che una moltitudine di gocciole unite per lunghezza, che fuggono di spianarsi sopra l'arido di quell'assicella; ma quando la trovano bagnata, non reggono argine, ma si spargono, e la tavoletta si profonda. Ma, siasi questa la cagione di questo o non sia, pur che ciò non venga dalla figura, la posizione del Sig. Galilei con tutto ciò resta illesa: e però tutto è vano quello che in questo proposito gli oppone l'Incognito, a fac. 14, ver. 19 [pag. 171, lin. 30 e seg.]; perchè se bene con l'imposizione di quella falda di piombo sopra l'assicella si togliesse, come egli pensa (il che però non credo), il contatto dell'aria, non si terrebbe già l'aridità predetta, la quale è la verA cagione di sostener gli argini e di far galleggiar l'assicella, la quale non depende dalla figura, come sopra si è detto. E questo mi basti per ora intorno a questo proposito.
Entrando poi in altro ragionamento intorno a questi arginetti, mi assicurerei quasi a dire che il Sig. Galilei si possa in parte esser ingannato in quelle demostrazioni ch'e' fa a fac. 47, [pag. 114], dove mostra che si possino fare piramidi e coni che, poste noll'acqua, bagnino solamente la superficie della base: il che io stimo non esser interamente vero, e tutto penso che proceda da questo, perchè egli dice che gli arginetti si reggono talmente sopra l'assicella, che lasciano non solo asciutta, ma ancora libera e scoperta, tutta la sua superficie; come si vede nelle figure che egli ne descrive a fac. 34, [pag. 98] e fac. 42, [pag. 109], le quali stanno come qui di contro, dove gli arginetti ac, bd non cuoprono punto la superficie ab dell'assicella posta nell'acqua; il che se stesse così, sarebbe vero tutto quello che dimostra in detta spoliazione di piramidi, a fac. 47, [pag. 114].
Ma io penso, e così anche mi par di vedere nell'atto stesso dell'esperienza, che detti argini si sporghino sopra la superficie dell'assicella a guisa di mezo cerchio, e ne riquoprino, o più tosto adombrino, senza bagnarla., tutto quello che può ricoprire detto mezo cerchio; come si vede in questa figura, nella quale penso che gli arginetti stiano incurvati sopra l'assicella come stanno mn ed st: e questo è conforme a quello che è detto di sopra, che questi arginetti son quelle gocciole d'acqua che, resistendo all'asciutto dell'assicella, sostengono di rotondaRSegli addosso più tosto che spargervisi sopra. E però dico che, stando la cosa in questo modo, non può mai una materia alzarsi in figura di piramide o di cono, che i suoi lati non perquotino in quel semicircolo delle gocciole e de gli argini, e lo rompino; e, per consequenza, si bagneranno alquanto.
E per questo le piramidi e i coni reggono minori arginetti, che non fanno quelle figure che finiscono di sopra in superficie piana, e tanto minori quanto più sono auzze e sottili; e perciò potrebbe anco patire qualche difficoltà, quello che da lui è dimostrato a fac. 51, ver. 25 [pag. 118, lin. 3 3 seg.], in materia di queste piramidi. Ma è cosa tanto minima, che non porta 'l pregio a ragionarne.
Resterebbe ora a dire qualche cosa intorno alle parole e autorità d'Aristotile nell'ultimo de i libri Del cielo: circa le quali dico, che io le studierò un poco più per agio. Per ora ho studiato quelle prime, dove dice che le figure non sono cause che le cose si muovino in su o in giù assolutamente, ma che le si muovino tarde o veloci; e però in questo proposito mi piace di rispondere all'argomento del Sig. Giorgio greco: Se la figura lata è cagione di moto tardo, e la più la[ta] di più tardo, e così successivamente, bisognerà in ultimo venire alla quiete; altramente si darebbe processo in infinito in quella tardità di moto.
A questo rispondo in più modi. Prima, questo arebbe anco a verificarsi nelle cose che si muovono per l'aria; cioè, se il legno o 'L ferro in forma lata si muove tardi per l'aria, e più lata più tardi, e così successivamente, giugneremo finalmente a una tanto lata, che si fermi nell'aria, il che credo che non gli verrà mai fatto: e se questo modo d'argumentare non vale nell'aria, non lo voglio anco accettar nell'acqua.
Secondo, la tardità del moto pende dalla latitudine della figura, e la maggior tardità dalla maggior latitudine, e, per consequenza, l'infinita tardità dall'infinita latitudine; e non può mai condurmi all'infinito nella tardità, se prima non pone l'infinito nella latitudine: e però ha a dar di cozzo nell'infinito prima egli che io. È una bella cosa volere che sia impossibile a me ritardare infinitamente il moto, e, pendendo questo dal crescere infinitamente la figura, volere che questo accrescimento infinito sia concesso a lui: se non me ne mostra qualche privilegio, non gli voglio credere. Ben pens'egli che abbino a mancar prima i numeri a me che a lui: egli attenderà a crescer la figura lata da due braccia a 4, e poi a 20, e poi a 100, e così successivamente; e io attenderò a crescere il tempo di quel moto da 2 ore a 4, e poi a 20, e poi a 100, e così successivamente, tanto quanto farà egli; e prima ha a venire l'impossibile addosso a lui che a me.
Ma io non vorrei che per qualche via mi mostrassi d'aver potestà di formare l'infinito nelle figure late, ed io restassi a piedi: però voglio mostrar ancor io un privilegio ottenuto dalla Corte della Quantità, di poter, nella metà di suo distretto e dominio, formar l'infinito a mio beneplacito. Il privilegio comincia così: Continuum est divisibile in infinitum etc. Ora io dico così: Quando io vengo a Firenze, piglio un cavallo a vettura; qualche volta me n'è dato uno che in un'ora fa 3 miglia; un'altra volta qualcun altro più agiato, che ne fa 2; potrei anco averne, che ne facesse un solo, o vero un mezo, e potrebbe anche farne la metà di quel mezo, e forse la metà di quel restante, e così successivamente in infinito, senza che io venissi mai a uno che si movesse tanto tardi che stesse fermo; e tutto in virtù di quel privilegio. Ora facciasi conto che quei cavalli sieno le forme late; che il resto poi camina per i suoi piedi alla soluzione dell'argomento. Nè si meravigli V. S., Monsignore Illustrissimo, che io ragioni così burlando di questa materia; perchè ho imparato dall'Incognito, che propone le sue soluzioni, a fac. 14, ver. 21 [pag. 171, lin. 34 e pag. 172, lin. 1 e seg.] e a fac. 20, ver. 20 [pag. 177, lin. 16 e seg.], con tanto bello apparato di parole marziali, con tanti termini di scherma, che mi par di sentirle uscir fuori con la picca in spalla a suon di trombe e di tamburi, e parmi di sentir appunto il Capitan Cardone quando sballa le sue prodezze in scena.
Ma, per non la tediar più con questi miei ragionamenti di poca sustanza, volentieri fo fine, baciandole umilmente le mani e pregandole da Dio ogni contento.
Il dì 22 di settembre.
LETTERA
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