CAPITOLO II.

D. Pietr'Antonio d'Aragona soccorre a' bisogni della Sardegna per la morte data a quel Vicerè: perseguita i Banditi nel Regno; riduce a perfezione la numerazione de' fuochi: va in Roma a prestar in nome del Re ubbidienza al nuovo Pontefice: nel suo ritorno gli vien dato il successore; monumenti e leggi che ci lasciò.

Perchè il Regno di Sardegna non rimanesse esente dalle comuni calamità, che aveano sofferti quelli di Napoli e di Sicilia, fu veduto a questi medesimi tempi ancor egli in disordine, per li tumulti, che cagionò la morte data a D. Emanuele de los Covos Marchese di Camerassa suo Vicerè. Governava costui quell'Isola, e secondo il costante tenore della Corte di Madrid, venendo richiesto di danari, premeva que' sudditi a doversi disporre di far un donativo al Re; ma avendo incontrate gravissime difficoltà, fu costretto a far sciogliere il Parlamento generale di quel Regno, che a tal fine avea fatto ragunare in Cagliari capitale del Regno, senz'ottenerlo. Il principal contraddittore fu D. Agostino di Castelvì Marchese di Laconi, il quale essendo stato nella notte de' 20 di giugno del 1668 fatto ammazzare, si pubblicò, che questo assassinamento fosse stato commesso d'ordine di D. Isabella di Portocarrero Marchesana di Camerassa con saputa e consenso del Vicerè suo marito, in vendetta delle opposizioni promosse da D. Agostino nelle corti del Regno. A queste voci assembraronsi D. Giacomo Artal di Castelvì Marchese di Cea, D. Silvestro Aymerich, D. Antonio Brondo, D. Francesco Cao, D. Francesco Portogues e D. Savino Grizoni nel palagio di D. Francesca Carilas Marchesana di Laconi moglie del morto, dove conchiusero d'uccidere il Vicerè; e per mandare ad effetto una così scellerata determinazione, a' 21 luglio del medesimo anno, dalle finestre della casa d'Antioco Brondo, posta in Cagliari nella strada de los Cavalleros, mentre il Vicerè con la moglie e co' figli tornava in carrozza dalla chiesa di Nostra Signora del Carmine alla sua abitazione, gli scaricarono più colpi d'archibugi, per li quali rimase miseramente morto. La Marchesana di Camerassa spaventata da tal funesto spettacolo, temendo di mal peggiore, tutta sbigottita volle partir subito da Cagliari, ed imbarcatasi la notte seguente co' figliuoli e famiglia, fece presto ritorno in Ispagna, lasciando con la sua partita libero il campo alla Marchesana D. Francesca Carillas di far fabbricare contro lei un processo nella Regia Audienza di Cagliari, e d'incolparla della morte del Marchese di Castelvì suo marito. Gli uccisori del Vicerè, essendosi ricovrati nel convento di S. Francesco, vi si trattennero con comitiva d'uomini armati per lo spazio d'un mese, fortificando le porte del monastero, e facendo le sentinelle all'uso di guerra, e poscia s'imbarcarono pel Capo di Sassari, dove per loro difesa fecero unione di gente.

All'avviso d'un così temerario eccesso, il nostro Vicerè fece subilo allestire diece galee, sopra le quali furono fatti imbarcare duemila fanti spagnuoli, Italiani e tedeschi, e benchè si fossero avviate alla volta di Sardegna, nulladimeno fu riputato da poi savio consiglio di richiamarle in Porto: non essendosi stimato a proposito d'ingelosire que' popoli, di lor natura fierissimi, con l'introduzione in quell'Isola di nuova soldatesca. La Corte di Madrid per ovviare a mali peggiori mandò tosto per nuovo Vicerè in quel Regno D. Francesco Tuttavilla Duca di S. Germano Nobile napoletano del Seggio di Porto, fratello di D. Vincenzo Tuttavilla Duca di Calabritto, Maestro di Campo Generale di questo Regno, il quale ai 10 di Marzo dell'entrato anno 1669 si parti per Sardegna ad assistere il fratello con la galea Padrona della squadra di Napoli, e portò seco il Consigliere D. Giovanni d'Errera, ch'era stato dal Re deputato per Giudice Delegato nella causa degli uccisori del Camerassa. Si spedirono da poi nel seguente mese di maggio tre altre galee con cinquecento fanti spagnuoli ed italiani e qualche contante, e v'accorsero pure dal Finale altri mille soldati con la squadra delle galee del Duca di Tursi, e trecento dall'Isola di Sicilia; e finalmente nel mese di marzo del seguente anno 1670 fu duopo al nostro Vicerè mandarne dal Regno altri cinquecento.

Le cose però di quell'Isola si videro tosto ridotte in tranquillità, poichè dall'Errera si pose in chiaro, che nell'uccisione del Vicerè non v'aveano avuta participazione alcuna que' popoli, e che l'infame omicidio era stato commesso da que' soli Nobili, per coprire l'assassinamento del Marchese di Laconi, stato fatto ammazzare da D. Silvestro Aymerich ad istanza dell'istessa Marchesana D. Francesca sua moglie per torsi lui per consorte, come già era seguito. Furono per tanto con pubblico editto dichiarati tutt'i colpevoli della morte del Vicerè, rei di Maestà lesa, e come tali sottoposti al bando della vita: furono imposte grosse taglie sopra le loro teste e le loro persone: furono confiscati i loro beni, e comandato che fossero demolite le lor case, e con aspergersi sale adeguate al suolo. Fu parimente dichiarato, che que' popoli s'erano portati in tal occasione con fedeltà verso il loro Principe, e che non poteva imputarsegli colpa di sorta alcuna in quell'assassinamento. Il Duca di S. Germano ricevè pienissime grazie da tutti gli Ordini di quel Regno, che rimase tutto pacato sotto l'ubbidienza del suo antico Signore.

Ma nel nostro Regno non lasciavano intanto gli sbanditi le consuete scorrerie per le campagne, ora più che mai rese non men insolenti che spesse. Rubavano, riducevano in servitù i viandanti, svaligiavano i Procacci, in fine le pubbliche strade non eran più sicure, tal che si vedeva rotto ogni traffico ed impedito ogni commerzio. Negli Apruzzi ne campeggiavano molte squadre, che fortificatesi in diverse Terre, erano giunte infino a spedir ordini a tutt'i luoghi di quei contorni che lor pagassero, non già al Regio Tesoriere, i fiscali. Essendo succeduto nella Chiesa di Napoli, per la morte del Cardinal Filomarino, il Cardinal D. Innico Caracciolo, costui nel viaggio ch'intraprese per Roma, per assistere al Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice, poi seguita in persona di Clemente X, fu arrestato da queste masnade, e gli fu duopo per disbrigarsene pagar loro cent'ottanta doble. Monsignor Toppa Arcivescovo di Benevento fu ancor egli svaligiato presso Napoli nella Terra di Pomigliano d'Acro, e si salvò per miracolo. Ma il più molesto era a questi tempi il famoso Abate Cesare Riccardo, il quale dopo aver ucciso D. Alessandro Mastrillo Duca di S. Paolo, si pose a scorrere con comitiva le campagne intorno la città di Nola, avanzando le scorrerie sino alle porte di Napoli: svaligiava Procacci, abbruciando più volte le lettere senza perdonare a quelle del Vicerè; entrava ed usciva sconosciuto in Napoli; e giunse a tale, che impediva in Napoli il trasporto della neve, minacciando di più agli Eletti, che avrebbe impedito anche la condotta de' grani, se non gli proccuravano dal Vicerè il perdono.

Si ponevan in opra dal Vicerè vari mezzi per estirparli, ma non riuscivano così efficaci, sì che se ne potesse ottenere il total esterminio. Creò egli a quest'effetto Vicario Generale della Campagna il Consigliere D. Diego di Soria, poi Reggente: spedì alcune compagnie di Spagnuoli in Apruzzo, per isnidarli da que' luoghi: elesse in fine una Giunta di vari Ministri per severamente punirli insieme co' loro aderenti; ma nulla giovò, poichè le milizie regolate in que' luoghi alpestri ed inaccessibili nulla poterono: alcuni presi furon sopra le forche fatti morire, ma nuovamente ne pullulava numero assai maggiore: la Giunta fece arrestare alcuni Titolati lor protettori, ma poi, dopo breve prigionia, eran dal Vicerè composti con grosse somme di denaro: tal che si tornava a' disordini primieri.

Di questo sol fu imputato l'Aragona, che a' suoi tempi si vide rilasciata la disciplina, e commettersi enormi e gravi delitti d'incesti, peculati, furti, falsità, assassinamenti, duelli ed altri eccessi, de' quali non ne prendeva quel severo castigo che meritavan i colpevoli; ma, o usando indulgenza nelle visite che soleva egli fare in Vicaria, intervenendovi personalmente, e talora anche colla Viceregina sua moglie, ovvero permutando la pena corporale in danari: ciò che fruttandogli grosso guadagno, e secondo il computo che se ne faceva dal volgo, aveane da tali composizioni ricavati più di trecentoventimila ducati, gli acquistò nome di Ministro sordido; e diessi a molti occasione di motteggiarlo, che e' punisse le borse non già le persone.

Non è però, che non apportasse egli al Regno non picciola utilità, per la numerazione generale de' fuochi, che principiatasi dal Conte di Pennaranda, e continuata poi dal Cardinal d'Aragona, venne da lui sollecitata e finalmente ridotta a perfezione: poichè non solo la fece egli pubblicare, ma cominciò ancora a praticarsi fin dal primo di gennajo dell'anno 1669. L'alleggerimento che ne sperimentarono le Comunità del Regno fu di grandissima importanza, perchè furono tassate a pagare per quel numero de' fuochi, che in fatti erano; e furono rimesse loro tutte le somme, delle quali andavano debitrici per tutto il tempo passato, essendosi compiaciuti il Re e gli altri assegnatarj de' fiscali di concorrere non solamente alla remissione de' mentovati residui, ma anche alla perdita di ducati ventidue ed un decimo per ogni cento ducati di entrata, che fu necessario defalcare generalmente, per cagione del mancamento d'intorno a centomila fuochi, ne' quali questa numerazione si trovò minore dell'antica. In cotal guisa le Comunità del regno cominciarono a respirare e ad essere per conseguenza più pronte a' pagamenti, con non picciola utilità degli assegnatarj de' Fiscali e del Re. Vi s'aggiunse l'augumento dell'arrendamento del Tabacco, che da ducati quarantacinquemila l'anno, crebbe a questi tempi fino ad ottantamila, e quello della manna, che trovandosi venduto a particolari persone, fu dal Vicerè ricomprato ed incorporato al patrimoni regale. In brieve tutti gli arrendamenti, dazj e gabelle crebbero notabilmente di prezzo, con utile grandissimo di tutti i consegnatarj, essendosi calcolato l'avanzo nel valore de' capitali, secondo la relazione fattane dal Razionale della Regia Camera Giovanni d'Alesio, in poco meno di nove milioni di ducati: al che contribuì molto la vigilanza del Vicerè, ed il rigore che praticava contro coloro che ne fraudavano il pagamento.

I. D. Federico di Toledo Marchese di Villafranca rimane Luogotenente nel Regno, nel tempo che l'Aragona va in Roma a dar l'ubbidienza al nuovo Pontefice.

La Regina Reggente, secondo il costume introdotto dalla Corte di Spagna, avea comandato al nostro Vicerè Aragona che si fosse portato in Roma a dar in nome del Re, e suo, ubbidienza al nuovo Pontefice Clemente IX; ma tolto costui dal Mondo, per inaspettata morte, non si potendo adempire quest'ufficio con lui, fu comandato che si adempisse col suo successore Clemente X. Nel medesimo tempo fu provveduto dalla Regina, che in assenza dell'Aragona rimanesse a governar il Regno il Marchese di Villafranca, che si trovava in Napoli esercitando la carica di Capitan Generale della squadra delle galee. Fu disputato nel nostro Collateral Consiglio se al Villafranca dovessero darsi trattamenti di Vicerè, o pure di semplice Luogotenente dell'Aragona, stante che costui teneva dispacci della Corte, ne' quali gli s'imponeva, che terminata l'ambasciata dovesse tornare in Napoli a continuare il Governo; ma a cagion che per la commessione Regale dovea il Marchese riputarsi come vero ed independente Vicerè, non già Luogotenente dell'Aragona, fu per tanto determinato a suo favore. Partito adunque l'Aragona da Napoli, a' tre di gennajo di quest'anno 1671, fu dato al Marchese il possesso della carica coll'intervento degli Eletti della città, il quale (tenendosi occupato il Regal Palazzo dalla moglie di D. Pietro) scelse per sua abitazione quello de' Principi di Stigliano sopra la Porta di Chiaja.

Governò il Marchese con molto rigore e con indefessa applicazione il Regno, prendendo per esemplare il suo gran avolo D. Pietro di Toledo, che governollo ventidue anni, ma non vi durò che infino a' 25 di febbrajo; poichè l'Aragona giunto in Roma affrettò la sua ambasceria, ed avendo a' 22 gennajo fatta ivi pubblica e solenne entrata il giorno seguente, accompagnato dal Marchese d'Astorga, che si trovava in Roma ambasciador Cattolico, fece la cerimonia del bacio del piede; e dopo essersi trattenuto in quella città alquanti altri giorni in pranzi e visite, tornò in Napoli a ripigliar il governo, mal soddisfatto del rigoroso modo del Villafranca, che non ben si confaceva col suo tutto largo ed indulgente. Il marchese di Villafranca, si trattenne in Napoli sino al mese di luglio; partì poi per la Corte, dove si crede, che avendo rappresentato a que' Ministri l'avarizia di D. Pietro, e l'avidità di cumular per se denari, sicchè quando partì per Roma non avea lasciato nella Cassa militare nè pur un quattrino, avessele fatto pensare a dargli successore. Non passaron molti mesi, che s'intese essere stato a lui sostituito in questo Governo il Marchese d'Astorga, il quale trovandosi ambasciadore in Roma prese ne' principj del nuovo anno 1672 il cammino verso il Regno, ed a' 11 febbrajo giunse in Napoli, accolto con molti segni di stima da D. Pietro, il quale, soddisfatte le consuete visite, a' 14 del medesimo mese cedè il governo e con la Duchessa sua moglie se n'andò immantenente a Pozzuoli, donde poi a' 25 dello stesso mese con quattro galee si partì per Ispagna.

Fra i Vicerè che lasciarono a noi più insigni memorie, dee certamente annoverarsi D. Pietro d'Aragona. Egli per l'inclinazione grandissima che avea alle fabbriche, adornò Napoli di molti edificj. Egli ridusse in quella magnifica forma che ora si vede, l'Ospedale de' poveri di S. Gennaro fuori le mura della città, con ampliarlo di tanti corridori e stanze, e con darvi stabile e fermo governo. Egli con indicibile spesa costrusse il Porto per le Galee, ed ingrandì l'Arsenale in più ampia forma: fece quella magnifica strada adorna di tanti fonti, donde dall'Arsenale si ascende al largo avanti il Regal Palazzo, e nella cima di quella fece ergere la statua di Giove Terminale, che sostiene il cuojo, e le ale d'una grand'aquila. Abbellì il Palazzo Reale, ed aggiunse a' piedi di quella maestosa scala, fatta dal Conte d'Onnatte, le due statue de' fiumi Ibero e Tago, e sopra la porta, che comunica col Palazzo vecchio, l'altra del fiume Aragona. Egli nel Castel Nuovo unì l'Armeria Reale in quella gran sala, che soprasta al suo cortile. Rifece nel monte Echia il quartiere principale degli Spagnuoli; e v'innalzò da' fondamenti quel vasto edificio del Presidio, capace d'alloggiare più di seimila soldati. Rifece parimente le pubbliche fontane di Poggioreale, di S. Caterina a Formello, di mezzo cannone, e moltissime altre, e da' fondamenti innalzò quella di monte Oliveto. Restituì l'uso de' Bagni dell'acque minerali fuori la grotta di Coccejo, di Pozzuoli, e Baja; e perchè non se n'abolisse la memoria, in tavole di marmo fece scolpire la loro virtù ed efficacia ne' malori; donde fu data occasione a Sebastiano Bartoli famoso medico di que' tempi, di spiare più a dentro la qualità di queste acque, e compilarne perciò particolari relazioni e trattati. Ristorò in fine i nostri Tribunali, ampliando le sale del Consiglio, quelle della Vicaria, e l'altre della Regia Camera, dove per la diligenza dell'Archivario Niccolò Toppi, riordinò l'Archivio, e del di lui favore questo scrittore molto si loda, narrando, che fu tre volte a vederlo, facendovi far tre nuove camere, e fece dar principio ad un Repertorio generale di tutte le scritture, che oltrepassavano il numero di trecentomila, con assegnare il salario a cinque Scrivani, li quali erano puntualmente pagati mese per mese, perchè l'opera si compisse. Accrebbe parimente lo stipendio a' Giudici di Vicaria e diede vari provvedimenti per la giusta distribuzione delle cause, afin di troncar le lunghezze delle liti e le calunnie de' litiganti.

Ma quantunque l'Aragona lasciasse a noi di se sì illustri monumenti, non è però, che non ci defraudasse all'incontro di molte insigni memorie. Egli ci tolse l'ossa del magnanimo Re Alfonso I d'Aragona, le quali, come si disse nel XXVI libro di quest'Istoria, erano rimaste in deposito nella sagrestia di S. Domenico Maggiore di questa città, dove il Re Alfonso II dal Castel dell'Uovo le fece trasportare, quando vi fu seppellito suo padre. Essendo accaduto nel 1506 un incendio in quella sagrestia, il fuoco ne consumò buona parte, ma ne scamparono il cranio ed alcune poche ossa: il cranio per ordine del Re Ferdinando il Cattolico fu consegnato al Vescovo di Cefalù, che '1 condusse in Ispagna: le ossa erano solo qui rimase: ciò che pervenuto alla notizia dell'Aragona intraprese di farle ancora colà trasportare, ed unirle col cranio. Si opposero i Monaci di quel convento, ma avendo la Regina Reggente, alle insinuazioni del Vicerè, con suo spezial dispaccio comandato, che si trasportassero in Ispagna, cessarono le contese ed i frati con pubblico istromento ne fecer la consegna al Vicerè. Ci tolse ancora, per abbellire la sua galleria in Madrid, molte insigni dipinture e statue: fra l'altre quelle dei quattro fiumi, che adornavano la Fontana della punta del Molo, l'altra di Venere, che giaceva nella fonte su l'orlo del fosso del Castel Nuovo, ed alcuni puttini e gradini di marmo tutti d'un pezzo, ch'eran collocati nella fontana Medina, opera del famoso Giovanni di Nola, li quali furono tutti da lui mandati in Ispagna.

Nel tempo del suo governo furon da lui stabilite molte provvide e sagge Prammatiche poco men di 30, per le quali riordinò i Tribunali, riformò molti abusi nelle Dogane, e diede altri provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

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