CAPITOLO III

Governo di D. Antonio Alvarez, Marchese d'Astorga molto travaglioso ed infelice per li disordini, ne' quali trovò il Regno e molto più per le rivoluzioni accadute in Messina.

Giunto il Marchese d'Astorga in Napoli trovò la città, non solo per la grande penuria di grani, ma tutta sconvolta per li continui delitti, e sopra ogni altro per li furti, che di continuo si sentivano in ogni angolo. Applicò per tanto i suoi pensieri a proccurare, che fossero introdotti in Napoli, non pur dalle province, ma da altri più remoti paesi, copiosi viveri, sicchè soddisfece alla brama de' popoli e restituì nel Regno l'abbondanza. Ma con tutto che praticasse estremi rigori, non fu possibile (cotanto per la dissoluta disciplina del passato Governo era la gente divenuta ribalda) d'estirpare i furti e molto meno impedire le continue scorrerie de' banditi, che commettevano in campagna. Scorrevano insino alle porte di Napoli, svaligiavano i procacci, saccheggiavano le Terre, empivano le campagne di omicidj, ruberie e stupri; e campeggiando con molta baldanza, di continuo acquistavan seguito, ed ingrossavan di numero. Il Vicerè, valendosi de' consueti rimedj, rinvigorì gli animi dei Presidi provinciali, premurosamente incaricando loro che dandosi mano badassero unicamente ad estirpargli. Ne fu fatta molta strage e non fu picciol guadagno essersi tolto dal mondo il più pernizioso fra i loro Capi, il cotanto rinomato Abate Cesare. Ma non per ciò, a guisa d'idre, non ripullulavano, e negli Apruzzi spezialmente, per dove fu costretto il Vicerè spedirvi cinque compagnie di Spagnuoli, non solo per abbattere la loro insolenza, ma anche perchè, sospettandosi, che avesser potuto ricever fomento da Roma dall'Ambasciador di Francia, si vegghiasse ad ogni novità, che con tal appoggio potesser questi ribaldi promuovere. Egli è però vero, che per le sollevazioni accadute poco da poi in Messina, si tolse un buon numero di costoro dal Regno, ai quali fu conceduto dall'Astorga il perdono, per andare a servire il Re in Sicilia, dove diedero pruove di gran valore, cancellando con ciò in gran parte le colpe della vita passata. Gli altri, che vi rimasero, essendosi poi sempre più moltiplicati, continuarono nella lor contumacia: perchè l'estirpamento totale d'una così dannosa semenza, l'avea il cielo riserbata a più esperta e gloriosa mano.

Non furon soli questi disordini, che resero travaglioso il governo del Marchese; perchè all'angustie, nelle quali trovò il Regno, per la fame, per li ladri e per questi ribaldi, se ne aggiunse un'altra più fastidiosa, qual fu quella delle monete, ridotte a questi tempi a stato si miserabile, che non avean d'intrinseco valore la quarta parte. La radice di questo male era antica, e quella stessa, che cagionò l'abolizione delle zannette in tempo del Cardinal Zapatta; dal quale quantunque si fosse fatta coniar la nuova moneta, e si fossero imposte gravissime pene a coloro, che avessero avuto ardimento di ritagliarla, o falsificarla; ad ogni modo l'avidità del guadagno faceva vilipendere ogni qualunque severo castigo. Era il numero de' tosatori, e falsificatori cresciuto in guisa, che sino nelle case di persone di qualità furono trovati ritagli, ed ordegni per conio delle nuove; e pubblicossi, che alcune donne di non volgare condizione, si fossero parimente mischiate in questo esercizio. Ne fu scoverta in Napoli un'intera compagnia, e nella provincia di terra d'Otranto ne furono indiziati moltissimi. Pose il Vicerè ogni cura per estirpargli; molti scoverti furon fatti morire su le forche, alcuni sostennero lunghe prigionie, ed altri ne ottennero il perdono: ciò che diede ansa a' detrattori ed ardire d'affermare, ch'era stata loro salvata la vita, ma non già la borsa. Altri ancora si sottrassero da' condegni castighi, chi schermendosi col privilegio del chericato, chi coll'immunità delle chiese, e chi con la fuga dal regno. Per dar riparo a mali sì gravi, cominciò il Vicerè a pensare alla fabbrica d'una nuova moneta, la quale non avesse potuto nè falsificarsi, nè ritagliarsi. Si pose l'affare in consulta, e se ne fecero più discorsi, ma non ebbero alcun effetto; perchè la gloria d'un così magnanimo fatto stava pure riserbata ad un più fortunato Eroe.

Pure i Turchi vollero avere la lor parte in tener travagliato l'Astorga; poichè scorrendo per le marine del Regno, posero gente in terra nella provincia di Bari, dove nel mese di giugno di quest'anno 1672 fecero schiavi 150 poveri contadini, che mietevan vettovaglie. E nel mese d'agosto fur vedute nel Golfo di Salerno sette galee di Biserta, che andavan depredando i nostri legni. Nel seguente anno, nelle marine di Puglia fecero notabilissimi danni, spezialmente nella terra di S. Nicandro, nella quale ridussero in cattività molti contadini; tanto che per reprimere i loro insulti, fu costretto il Vicerè a spedir ivi tre compagnie di cavalli, ed a mandare la squadra delle nostre galee a scorrere i mari dei Regno.

I. Per le rivolte di Messina si riscuoton dal Regno grossi sussidj.

Ma cure assai gravi e moleste sopraggiunsero in questi tempi al Vicerè, ed a noi gravezze e timori vie più considerabili, per più alte cagioni. Aveano in quest'anno i re di Francia e d'Inghilterra, uniti coll'Elettor di Colonia e 'l Vescovo di Munster mossa crudel guerra agli Stati Generali d'Olanda, li quali quantunque fossero rimasi vittoriosi in mare dell'armate navali d'Inghilterra e di Francia, furono loro ad ogni modo dagli eserciti confederati occupate le province d'Utrech, di Gheldria e d'Overissel con parte della Frisia. Donde prese motivo il Conte di Monterey, governadore de' Paesi Bassi Cattolici d'introdurre nelle piazze Olandesi guarnigione Spagnuola, e l'Imperador Leopoldo con l'Elettore di Brandeburgo, di far entrare un esercito negli Stati di Colonia e di Munster, per costringer que' Principi all'osservanza della pace di Cleves. Ma avendo i Franzesi occupata la Marca e 'l Ducato di Cleves appartenente all'Elettore di Brandeburgo, e spinto il marescial di Turenna nella Franconia quantunque avessero costretto questo Elettore a deporre l'armi, non poterono ad ogni modo impedire che molti Principi d'Alemagna non si fossero collegati coll'Imperadore e con gli Olandesi per la difesa de' proprj Stati.

Gli Spagnuoli non potendo soffrire le conquiste dei Franzesi sopra gli Stati d'Olanda e molto meno sopra l'Imperio, deliberarono d'entrare anch'essi in questa lega; ed avendo dichiarata la guerra al Re di Francia, protestarono al Re d'Inghilterra, che se non si fosse separato da quello, avrebbero con lui fatto lo stesso, e frappostisi per mediatori, fecero sì, che si conchiudesse la pace fra gl'Inglesi ed Olandesi. Così costretti i Franzesi a far fronte all'esercito Imperiale, che s'era avvicinato a' confini della Fiandra, abbandonarono tutte le piazze degli Olandesi, fuorchè Mastrich e Grave, la quale fu sforzata poscia dal Principe d'Oranges ad arrendersi con onorevoli condizioni. In questa guisa venne a cader tutta la guerra sopra la Fiandra Spagnuola, ed a' Paesi posti dall'una e dall'altra parte del Regno, che durò molti anni.

Essendosi pertanto pubblicata in Napoli nel mese di dicembre di quest'anno 1673 la guerra contro alla Francia, con pubblicarsi bando che fra brevi giorni tutti i Franzesi sgombrassero dal Regno, cominciarono a turbar l'animo del nostro Vicerè più nojosi pensieri; poichè dichiarata questa guerra, temendosi, che i Franzesi non tentassero d'assalire il principato di Catalogna, fu richiesto l'Asterga d'inviar soccorsi per difesa di quello Stato; onde gli fu duopo spedire per quella volta quattro vascelli con 1200 fanti Napoletani, sotto il comando del Maestro di Campo D. Giovan-Battista Pignatelli; e premendo sempre più il bisogno d'ingrossare l'esercito di Catalogna, bisognò nel mese di marzo del seguente anno 1674 spedire altri 1500 soldati, sotto la condotta del Sergente maggiore di Battaglia D. Antonio Guindazzo; e poi nel mese di giugno vi furono spedite cinque galee del Regno con altre 500 persone. Ma le rivolte sopravvenute nella città di Messina, che cagionarono una delle più ostinate guerre, che mai si fossero intese, impedirono li soccorsi per Catalogna, li quali sarebbero stati non di tanto aggravio, e costrinsero il Vicerè a mandarne in Sicilia dal nostro Regno altri assai più spessi e vigorosi; tal che a nostre spese si ebbe a sostenere quella crudele ed ostinata guerra.

I Messinesi vantando antichissimi privilegj di franchigia e d'esenzione ed altre lor prerogative, eransi nel regno di Filippo IV molto più insolentiti, a cagion ch'essendo stati saldi e costanti nella fede regia ne' preceduti tumulti di Palermo e di Napoli, il Re Filippo non solo aveagli loro confermati, ma aggiunti nuovi favori e preminenze.

(Gli antichi privilegi, conceduti da' Re Ruggiero e Guglielmo, suo successore, alla città di Messina si leggono presso Lunig. tom. 2 pag. 845 e 855 e pag. 2515 e 2517.)

Queste concessioni facevano godere a que' popoli una libertà quasi che assoluta; ed era dagli Spagnuoli tollerata, perchè consideravano, che non dipendeva quella licenza, che spesso si prendevan per difesa de' loro privilegj, da animo poco inclinato alla sovranità del Re ad al suo servigio, ma da una certa vanità, ch'essi aveano d'esser singolari fra tutti gli altri sudditi sottoposti alla corona di Spagna. Eleggendo essi dal lor corpo il pubblico Magistrato, che chiamano Senato, con piena autorità nel comando, con potestà d'amministrare il pubblico patrimonio e di distribuire le cariche subalterne, disponevano con assoluto arbitrio degli animi de' cittadini, ed eran sempre pronti a resistere, anche a proprj Vicerè, qualora essi credevano, che si tentasse cosa, che fosse contro i loro cotanto vantati privilegj.

Nel governo del Conte d'Ayala si lamentarono, prima che quel Vicerè non avea giammai fatta residenza in Messina, che avesse fatto imprigionare alcuni, quando non dovea; ed in fine non vi era operazione che facesse, che non l'interpretassero per violazione de' loro privilegj; e se le cose si fossero contenute nei termini di lamenti e di querele, sarebbe stato comportabile; ma si venne a' scandalosi fatti di dichiarare nulle le ordinazioni di quel Vicerè, come pregiudiciali ai loro privilegj, e ad assoldar gente per la loro osservanza. Queste medesime dimostrazioni continuarono con D. Francesco Gaetano Duca di Sermoneta successor dell'Ayala, il quale essendosi portato in Messina lo forzarono a pubblicar Prammatica, colla quale gli fecer proibire l'estrazion delle sete da tutti i porti di quell'Isola, fuorchè dal porto della lor città. Ma gravatesi di ciò l'altre città del Regno, ne fu dalla corte di Spagna sopraseduta l'esecuzione; tal ch'essi si risolsero di mandar due ambasciadori a Madrid per ottenerne la revocazione. Pretesero costoro d'esser trattati nell'udienze, come tutti gli altri ambasciadori di Principi, e che si fosse loro destinata certa giornata; che l'introduttore degli ambasciadori gli accompagnasse e che fossero mandati a levare nel giorno dell'udienza con le carrozze della casa regale. Allegavano essi molti esempj in tempo del Re Filippo IV che così gli avea trattati; ma la Regina Reggente non volle a verun patto accordar loro questo cerimoniale; poichè non solamente non appariva, che ciò fosse seguìto con saputa del Re suo marito, anzi che il medesimo avea espressamente ordinato, che tutti gli ambasciadori de' regni e delle città suddite ne godessero il nudo titolo e non già il trattamento: ond'essi per non si pregiudicare, fattasene con nuova supplica protesta, se ne ritornarono in Messina senz'adempire all'ambasciata.

Irritati i Messinesi da tal rifiuto, cominciarono ad usar molte insolenze; ed essendo intanto al Duca di Sermoneta succeduto nel governo di quell'Isola il Duca d'Alburquerque, ed a costui poco da poi sostituito il Principe di Lignì, crebbero assai più li disordini e le confusioni, le quali finalmente terminarono in fazioni; onde sursero i nomi di Merli, che presero i Realisti, e di Malvezzi che s'arrogarono gli altri del partito contrario, riducendosi i Messinesi in istato non meno lagrimevole di quello, nel quale si vide altre volte ridotta quasi tutta l'Italia dalle fazioni de' Bianchi e de' Neri, e de' Guelfi e Ghibellini.

Ma nel Governo del Marchese di Bajona successore del Lignì, essendo Straticò in Messina D. Diego di Soria Marchese di Crispano, che da Napoli, mentre era Consigliere di Santa Chiara, fu mandato con tal carica in quella città, le fazioni, che la tenevano in grandissima confusione, divennero aperte sollevazioni; poichè celebrando i Messinesi nel mese di giugno di quest'anno 1674 con gran pompa, ed apparati la festività di Nostra Signora sotto il titolo della Lettera per un'epistola, ch'essi credono aver ella scritta al Senato di Messina, nella quale l'assecurava della protezione del suo figliuolo Gesù; si videro nella bottega d'un sartore alcuni misteriosi ritratti, che alludendo alle cose presenti, toccavano con ischerni il partito de' Merli, non si perdonando nè meno all'istesso Soria Straticò. Di che accortisi i Merli, minacciando il sartore di volerlo con tutta la sua bottega mandar per aria, furono per dar di piglio alle armi, se tosto non vi fosse accorso lo Straticò a darvi riparo. Ma gli animi vie più esacerbandosi per la carcerazione seguìta del sartore, da' Malvezzi si faceva unione di gente armata per liberarlo a viva forza dalle carceri, e passar poscia a fil di spada tutti i Merli, e tutti coloro che favorivano il partito del Re. Fu in effetto in un istante, al suono d'una campana, veduta la città andar sossopra, i Malvezzi occupare i più rilevati posti, fare strage de' Merli, e sempre più avanzandosi il lor partito, crescere il lor numero sino a ventimila persone, le quali costrinsero le soldatesche Spagnuole, che erano accorse per reprimere il tumulto, a ritirarsi nel Palagio Regale, dentro il quale convenne a loro rinchiudersi e ridurre tutta la lor difesa: e lo Straticò per disturbare l'assedio del Palazzo, ordinò, che i Castellani della Fortezza tirassero contro la Città col cannone.

Dall'altra parte i Senatori dichiaratisi apertamente per li Malvezzi, e disponendosi all'assedio del Palagio Reale, fortificavan i posti; e ragunando gente, strinsero di stretto assedio lo Straticò. Accorse il Marchese di Bajona Vicerè al periglio; ma gli fu impedita l'entrata nella città, e lo costrinsero a colpi di cannone a ritirarsi verso i lidi della Catona nelle coste della Calabria, e di là in Melazzo. Sì pensò allora seriamente, che per ridurre i Messinesi bisognava espugnargli con formata guerra; onde avendosi il Bajona eletta la città di Melazzo per piazza d'armi, raccolse ivi tutte le soldatesche dell'Isola; chiamò i Baroni del Regno, che vi comparvero con buon numero di milizie a loro proprie spese arrolate; si risolse di non solo soccorrere lo Straticò e le Fortezze Regali di Messina, ma parimente di chiudere i passi di Teormina, per togliere a' Messinesi la comunicazione col rimanente dell'Isola, e ridurgli all'ubbidienza, non men col timore delle armi che della fame.

Venne chiamato a parte di questa impresa il nostro Vicerè, il quale cooperando al medesimo fine, dichiarò ancor egli per piazza d'armi la città di Reggio, dove fece marciare buona parte del battaglione del regno, sotto il comando del Generale D. Marc'Antonio di Gennaro con ordine di passare nell'Isola, quando al Marchese di Bajona fosse così paruto. Spedì poscia due galee in Melazzo con quattrocento fanti Spagnuoli; ed altrettanti Italiani fece imbarcare sopra un vascello, e due Tartane con munizioni da guerra e da bocca, e non trovandosi ne' nostri mari le squadre delle galee di Spagna, s'ottennero quelle della Repubblica di Genova, e della Religione di Malta in soccorso delle armi Regie.

I Messinesi, prevedendo che per se soli non erano bastanti a contrastare a tanti, dalla sollevazione passarono a manifesta ribellione deliberando di ricorrere al Re di Francia, perchè di loro prendesse cura e protezione; e tenendo in tanto a bada il Marchese di Bajona con negoziazioni e trattati di rendersi, ma non mai riducendogli ad effetto, spedirono in Roma D. Antonio Cafaro a trattare col Duca d'Etrè ambasciadore di quel Re al Pontefice, perchè ricevendogli sotto il suo dominio, sollecitasse il Re a mandar loro presti e poderosi soccorsi. Il Duca col Cardinal d'Etrè suo fratello, non tenendo sopra di ciò alcun spezial comando del lor Sovrano, nè avendo nemmen il Cafaro bastante mandato di far ciò che offeriva, deliberarono, per non perder tempo, di far passare in Francia l'istesso Cafaro, affinch'egli avesse rappresentato lo stato di Messina a quel Principe, e sollecitato il soccorso, e l'accompagnarono con loro lettere dirette al Duca di Vivonne Vice-Ammiraglio di Francia nel mare Mediterraneo, che dimorava in Tolone. Nella corte di Francia furon varj i sentimenti intorno ad accettar l'impresa: alcuni memori del famoso Vespro Siciliano e dell'avversione, che i Popoli della Sicilia hanno alla nazion Franzese, la dissuadevano: altri accendevano l'animo di quel Re a non abbandonarla, potendo molto giovare alla guerra, che allora ardeva fra le due corone, e che almeno avrebbe cagionata una grande diversione alle armi Spagnuole. Fu risoluto in fine d'appigliarsi ad un mediano partito, di comandare al Vivonne, che soccorresse ai Messinesi, ma prima di moversi con tutta l'armata, spedisse una squadra per introdurvi soccorso, e nell'istesso tempo confermasse i Messinesi nella ribellione, affin di ritrarne profitto per la diversion delle armi spagnuole, e s'informasse meglio dello stato delle cose, per prender poi più pesate deliberazioni.

Dall'altra parte, giunto alla corte di Spagna l'avviso della sollevazione di Messina, fu deliberato, che si proseguissero i mezzi per ridurla, non men colle armi che co' trattati d'accordo, mostrando indulgenza, e promettendole il perdono. Ma nell'istesso tempo fu risoluto, che prima che potessero venire i soccorsi, che si temevano di Francia, con tutte le forze di mare (non profittandosi i Messinesi della regal clemenza) si proccurasse la sua riduzione. Fu pertanto dalla Regina Reggente conceduto loro un general perdono, che fu mandato al Bajona, perchè lo pubblicasse in quell'Isola: e comandato al Marchese del Viso, che ripigliasse il comando delle galee di Spagna, del quale si trovava essersi già fatta mercede all'istesso Marchese di Bajona, ch'era suo figliuolo; ordinando parimente così a lui, come a D. Melchior della Queva General dell'armata, che unitamente si fosser portati con tutte le galee e vascelli ne' mari di Sicilia.

Ma così l'uno, come l'altro mezzo, ebbero infelice successo: poichè i Messinesi insolentiti per li promessi soccorsi di Francia, e vie più resi animosi per alcuni fatti d'arme intanto seguiti con lor vantaggio, rifiutarono il perdono, che avea fatto pubblicare il Bajona in Melazzo; anzi essendo stato mandato dal General delle galee di Malta il Capitan D. Francesc'Antonio Dattilo Marchese di S. Caterina figliuolo del rinomato Maestro di Campo Roberto Dattilo a portar loro il perdono, e con sue lettere assicurargli, che avrebbelo con buona fede fatto puntualmente valere: essi non solo disprezzarono le insinuazioni, ma fecero prigioniere il Marchese, rinchiudendolo in oscuro e stretto carcere.

La corte di Spagna, a questi avvisi infelici, deliberò mutar governadore in quell'Isola, e comandò al Marchese di Villafranca, che tosto si portasse in Sicilia a governarla; e nell'istesso tempo sollecitava il Marchese del Viso, e D. Melchior della Queva, li quali avean già unite amendue l'armate nel Porto di Barcellona, che sciogliesser presto da quel porto, ed accorressero a' bisogni di quel Regno. Partì il General de' vascelli nel dì 18 settembre di quest anno 1674 ma il Marchese del Viso colle galee, impedito dai venti, non poté partire sino a' 18 del seguente mese di ottobre, nè prima de' 5 di novembre potè giungere in Sardegna nel porto di Cagliari; donde col Marchese di Villafranca, calmato alquanto il mare, partirono finalmente per la volta di Palermo nel dì 10 di dicembre, dove giunsero con le galee nel dì 12 dello stesso mese. Il nuovo Vicerè avendo preso il possesso in Palermo, si trasferì subito a Melazzo, per assister da vicino alle cose di Messina, dove anche si condusse per mare colle sue galee il Marchese del Viso; e facendo notabili progressi, avendo occupata la Torre del Faro, si risolsero di stringer Messina, toglierle per mare e per terra ogni adito di ricever soccorsi, e sopra tutto invigilar, che non ne fossero introdotti da' Franzesi; avendo per tal effetto il general dell'armata, col grosso de' suoi vascelli, dato fondo nella Fossa di S. Giovanni, affinchè, posto con tutti i vascelli a vista della città, si desse maggior calore all'impresa.

Ma mentr'eransi in cotal guisa disposte le cose, tal che si sperava tra pochi giorni la riduzione di quella città, s'intese nel di primo di gennajo del nuovo anno 1675, che s'eran scoverti sei Vascelli da guerra Franzesi, che con quattro da fuoco, ed alcune tartane venivano per tentar d'introdursi in Messina. Era questa la squadra spedita dal Duca di Vivonne, la la quale guidata dal comandante Valbel, uscita poco dianzi da Tolone veniva per tentare un furtivo soccorso, in congiuntura, che l'armata Spagnuola, per tempesta, o per altra cagione, non si fosse trovata in istato di poterlo impedire; nè di questa squadra si era avuta alcuna notizia, poichè tutti gli avvisi parlavano del soccorso Reale, che si preparava dal Duca di Vivonne, il qual ben si conoscea, che per doversi apprestare un sì gran numero di vascelli, non avria potuto arrivare, se non molto tardi. Giunto il Valbel presso Messina, insospettito d'aver trovata in poter degli Spagnuoli la Torre del Faro, ed avuta notizia che la città stava deliberando per rendersi, ancorchè avesse potuto il medesimo giorno condursi senz'opposizione in Messina, poichè il vento a lui favorevole impediva in contrario all'armata nemica l'uscir dalla Fossa di S. Giovanni, non volle però entrare, per tema d'esser tradito da' Messinesi. Ma, o che veramente fosse, che per li venti contrarj l'armata, con tutto che si fosse usata ogni umana industria, non s'avesse potuto condurre in quel tempestoso canale in posto che avesse potuto impedire il soccorso; o veramente gara di comando fra' Generali, o lor negligenza, di che ne furon poi imputati; assicuratosi nel terzo giorno il Valbel dell'ostinazione de' Messinesi, si risolse finalmente d'entrare, passando nel dì 3 di gennajo a vista dell'armata nemica, senza che avesse potuto farsegli resistenza.

Il soccorso però, che vi fu introdotto, non era tale, che avesser dovuto gli Spagnuoli disperar dell'impresa. Ma i Messinesi fattisi più arditi, ed in contrario sorpresi i Capi, che guardavano i posti occupati, da soverchio timore, con troppo presta disperazione, senza aspettare d'esserne cacciati dal nemico gli abbandonarono: con che si perdè l'occasione di poter per allora ridurre la città col terrore dell'armi. Non si abbatterono con tutto ciò d'animo gli Spagnuoli, prevedendo, che per la scarsezza de' viveri la città si sarebbe in breve ridotta all'angustia di prima; onde erano tutti intesi, che non vi s'introducessero per via di mare. Ma mentr'essi lusingati da queste speranze deliberavan de' mezzi, il Duca di Vivonne avvisato de felice successo della sua squadra, e dell'ostinazione de' Messinesi, fece concepire al suo Sovrano più certe speranze di ridurre quel regno sotto il suo dominio; onde assunto il titolo di Vicerè di Messina, ed il comando generale delle galee di quella corona, sciolse dal Porto di Tolone con nove navi di guerra, tre da fuoco, ed otto di vettovaglie, ed incamminatosi per la volta di Messina, pervenne egli in que' mari a' 10 di febbrajo. I Generali Spagnuoli, all'avviso del suo avvicinamento, uniron tutte le lor forze, per andare ad incontrarlo, siccome fecero, e nella giornata degli 11 si combattè con tanto valore, che la pugna cominciò dalle nove della mattina e continuò sino alla sera. Ma, o fosse lor fatalità o negligenza, o perchè mutossi il vento a favor de' Franzesi, furon costrette le lor galee dalla forza del vento a ritirarsi; ond'ebbe campo il Valbel d'uscir dal porto di Messina con altri dodici vascelli, co' quali posti in mezzo gli Spagnuoli, furono obbligati combattere non più per la vittoria, ma per la salute; sin che verso la sera si divisero per la tempesta, con che riuscì a' Franzesi il giorno appresso con vento prospero entrar senza contrasto in Messina.

Quest'infelici successi portarono ancora, che le galee di Sicilia e di Napoli, conoscendo infruttuosa la lor dimora in que' mari, prendendo il cammino verso Melazzo, ed alcune verso Napoli, per gran tempesta ne naufragassero due nell'acque di Palinuro, ed una altra se ne sommergesse ne' mari di Maratea. I vascelli dell'armata Spagnuola si ritirarono in Napoli per risarcirsi de' danni patiti nella passata battaglia. Perì in quest'ostinata guerra molta gente, che bisognava dal nostro Regno riclutarsi; e ciò non bastando fu duopo far venire d'Alemagna quattromilacinquecento Tedeschi, li quali giunti in Napoli quasi tutti s'ammalarono; onde bisognò che il Vicerè provvedesse loro più d'ospedali, che di quartieri; nè per essi e per gli soldati dell'armata regale bastando gli spedali della città, bisognò, che in Pozzuoli se ne formassero de' nuovi.

La Corte di Spagna all'avviso di sì funesti accidenti, incolpando i disordini accaduti a' generali Spagnuoli, fremendo contro di essi, con due regali cedole, una spedita a' 16 di marzo di quest'anno 1675, alla quale diede cagione il soccorso entrato a' 3 di gennajo, l'altra a' 10 di maggio, ordinò una giunta di Ministri, perchè con regal delegazione giudicassero sopra quelli delle mancanze che loro venivan imputate. Si accagionava il Marchese di Bajona di non aver saputo con mezzi opportuni, che potea usare, ridurre in que' principj i Messinesi. Al Marchese del Viso suo padre, al general della Queva, ed all'ammiraglio D. Francesco Centeno, s'imputava di aver potuto, e non voluto combattere il soccorso, che il Valbel introdusse nell'assediata città. Furono per ciò arrestati in Sicilia il Bajona, e 'l padre, e dopo alcuni mesi condotti in Napoli. Al nostro Vicerè fu data commessione d'arrestare il general della Queva, e l'ammiraglio, li quali prontamente avendo ubbidito agli ordini regali, il primo fu mandato nella fortezza di Gaeta, e l'altro al castel d'Ischia. Il principe di Montesarchio fu dichiarato governadore dell'armata de' vascelli di Spagna, e venne in Napoli ad esercitar la sua carica. L'Astorga Vicerè dichiarò governadore dell'armi nella piazza di Reggio il general dell'artiglieria Fr. Gio. Brancaccio; ed il Marchese del Tufo, ch'avea sin allora occupata la medesima carica, andò ad esercitarla nella provincia di Terra d'Otranto. La giunta ordinata sopra la visita di questi generali cominciò a conoscere delle colpe, che venivan loro imputate, e fu comandato al reggente D. Pietro Valero, che ne prendesse diligenti informazioni; onde il Marchese del Viso, che fu poi ristretto nel Castel Nuovo di Napoli, per difesa della sua causa prese per suo avvocato il rinomato Francesco d'Andrea, il quale volle, che in quella vi scrivesse suo fratello Gennaro, allora avvocato de' poveri in Vicaria, il quale vi compose una molto dotta, ed erudita allegazione.

Premeva tuttavia incessantemente la corte di Spagna, che in tutti i modi si ripigliasse l'impresa per la riduzione di Messina, ma eran vane le speranze di riacquistarla, sempre che i vascelli franzesi erano padroni del mare. Bisognava per tanto pensare a risarcire l'armata, ed accrescere nel medesimo tempo l'esercito terrestre di Sicilia. Mancava però il denaro, nè altronde che dal nostro regno si pensava il provvedimento. Per ciò furon posti in opra dal Marchese d'Astorga li più estremi espedienti per provvedersene. Espose venali le rendite, che possedeva il Re sopra le gabelle, dazj, e fiscali, e barattandosi a prezzo vilissimo, molte private case per ciò divennero ricchissime. Il ragguardevol ufficio di scrivano di Razione del regno, ch'era amministrato da D. Andrea Concublet Marchese d'Arena, essendo vacato per la di lui morte, fu nel mese di giugno di quest'anno 1675 frettolosamente venduto per tre vite a D. Emmanuele Pinto Mendozza per ducati quarantaseimila, ma non essendo stata approvata dal Re la vendita, fu duopo, per ottenerne il regale assenso, che si sborsassero altre mille pezze da otto reali, oltre l'altre spese, che il Re ordinò, che si pagassero nella Corte di Madrid. Chiese ancora il Vicerè a' Baroni una contribuzione di soldati a cavallo, a loro spese armati e montati, la quale da ciascuno fu somministrata in danari, secondo le proprie forze. E finalmente si tolse la terza parte dell'entrate d'un anno, che i forastieri possedevano nel Regno. Con questi danari si cominciarono a risarcire i vascelli, per servigio de' quali si fecero venire da Ragusi quattrocento marinari. Ma perchè la spesa, che bisognava per lo risarcimento era grande, e buona parte del denaro s'impiegava in altri usi, i lavori camminavano con lentezza; per ciò i popoli, che vedevano con tanta furia alienare l'entrate regie, e non vedevano promuovere con la medesima sollecitudine il Regal servigio, mormoravano dei Vicerè: le soldatesche parimente se ne lagnavano, perchè non eran somministrate le paghe. Non si può dubitare, che le spese ed i soccorsi, che uscirono da questo Regno per la guerra di Messina sotto il governo del Marchese d'Astorga furono considerabili e di grandissima importanza. Si arrolarono nuovi fanti e cavalli: si fecero venire d'Alemagna quattromilacinquecento Tedeschi, e tutta questa gente si faceva passare parte in Melazzo, e parte in Reggio, ed in altri luoghi della Calabria, donde poscia si traghettava, secondo il bisogno, in Sicilia. Si provvidero di munizioni, così da bocca, come da guerra, le piazze di Reggio, di Melazzo e della Scaletta: si somministrarono somme immense di danaro, non solo per le paghe a' soldati, che guardavano le frontiere del Regno, ma anche a quelli, che guerreggiavano in campagna nell'esercito e nelle Piazze di Sicilia. Si rifecero in fine i vascelli, e si diedero i soldi alla gente dell'armata di Spagna, con lo sborso di sopra seicentomila ducati.

Il marescial Vivonne intanto, ridotta Messina sotto l'ubbidienza del suo Sovrano e reso padrone del mare, meditava di stendere le sue conquiste sopra altre città di quell'Isola; ma fattone esperimento, trovò gli animi stabili e fermi nella fedeltà del lor Signore, e pronti ad opporsergli con molta intrepidezza e costanza. Bisognavagli ancora provvedere Messina di viveri da rimote parti, e mandare sino in Francia per vettovaglie, perchè gli Spagnuoli tenevan chiusi tutti i passi di terra; e l'armata, che s'apprestava in Napoli tenevalo in continue agitazioni, vedendo, che gli Spagnuoli non aveano deposto l'animo di fare ogni sforzo per la riduzione di quella città. Per ciò egli dopo avere scorso colla sua armata le marine di Palermo e tentate inutilmente l'altre piazze marittime di quell'Isola, s'incamminò verso i lidi di Napoli, con disegno, se gli venisse fatto, d'abbruciar l'armata spagnuola, che si trovava ancora nel nostro Porto; ma essendo comparso nel mese di luglio di quest'anno 1675 nel nostro Golfo, presero i cittadini le armi, ed opportunamente fortificati i posti più importanti, l'obbligarono a ritornarsene in Messina, con aver solo depredate alquante barche, che per cammino ebbero la disavventura d'incontrarsi colla sua armata.

Ma mentre il Vicerè, risarcita già l'armata, provveduta del bisognevole e soccorsa colle paghe de' marinari e de' soldati, sollecitava la di lei partenza, siccome in effetto il principe di Montesarchio governadore di essa s'era posto alla vela, si videro entrar nel nostro porto a' 9 di settembre di questo istesso anno alcune navi che inaspettatamente condussero da Sardegna il Marchese de los Velez per nostro nuovo Vicerè. Erano precorse alla corte le voci insorte, che il Marchese d'Astorga e più i suoi Ministri, de' qual' si valeva, s'eran molto profittati di questa guerra e che le spedizioni andavan pigre e lente, perchè la maggior parte del denaro era impiegato ad altri usi. La Corte di Spagna, che non inculcava altro, che la riduzione di Messina, deliberò, avendo già l'Astorga compiti i tre anni del suo governo, di mandargli per successore il Marchese de los Velez, il quale trovandosi allora vicerè in Sardegna, favorito ancora dalla Regina Reggente per le continue raccomandazioni della madre di los Velez, ch'era sua cameriera maggiore, fu creduto valevole a sostenere il peso, non men del governo del regno, che della guerra di Sicilia. Convenne per tanto all'Astorga, giunto il successore, di cedergli il Governo e ritiratosi nel borgo di Chiaja, dove si trattenne sino a' 13 d'ottobre, partissi per la volta della Corte ad esercitar ivi la sua carica di consigliere di Stato e di generale dell'artiglieria delle Spagne. Ci lasciò pure l'Astorga sette Prammatiche ne' tre anni, che ci governò, che sono additate nella Cronologia prefissa al primo tomo delle medesime.

Share on Twitter Share on Facebook