Delle cose più notabili accadute nel governo di Don Giovanni di Zunica, Commendator Maggiore di Castiglia, e Principe di Pietrapersia: sua condotta e leggi che ci lasciò.
Don Giovanni Zunica, secondogenito della Casa de' Conti di Miranda, di cui sovente nel precedente libro si è avuta occasione di favellare, quando, trovandosi Ambasciadore in Roma, trattò gli affari più gravi di giurisdizione occorsi nel governo del Duca d'Alcalà, s'acquistò nell'esercizio di quella carica, che tenne per molti anni in Roma, fama di gran prudenza, e per l'occorrenze di allora, di sufficiente perizia delle cose del Regno; tanto che trascelto dal Re Filippo per nostro Vicerè, non ebbe egli a star lungo tempo ad istruirsi prima de' nostri istituti e costumi. Fu per ciò l'elezione intesa con applauso, e ciascuno dalla sua capacità e nota prudenza se ne prometteva un ottimo governo. Nè la sua condotta fu contraria all'espettazione si avea di lui; poichè giunto egli in Napoli a' 11 di novembre di quest'anno 1579, diede in questo principio saggi ben chiari della sua magnificenza e pietà; poichè ricusando quella vana pompa del Ponte solito farsi a tutti i Vicerè, fu quello da lui donato all'Ospedale degl'Incurabili, dono che alla Città era costato 1500 scudi.
§ I. Spedizione di Portogallo.
Ma i grandi avvenimenti, che occorsero a' suoi tempi, resero questo governo assai segnalato e memorando: mentr'egli reggeva il Regno accadde la spedizione di Portogallo, nella quale vi ebbe ancor egli qualche parte per lo denaro e gente, che per la sua diligenza ed opera fu mandata dal Regno per quella impresa. L'istoria della guerra di Portogallo, che mosse il Re Filippo II come uno de' pretensori di quel Reame, fu cotanto ben scritta dal Presidente Tuano da Bacone di Verulamio, e da altri insigni Autori, che oltre di non appartenere al nostro istituto, sarebbe abbondar d'ozio se, trascrivendola da que' Scrittori, volessi io qui distesamente narrarla. Solo di qualche successo si terrà conto, nel quale v'ebbero alcuna parte i nostri o il Zunica, che ci reggeva.
Morto il Re Emmanuele nel 1521 avendo lasciati quattro figliuoli maschi, Giovanni, Lodovico, Errico ed Odoardo e due femmine, Isabella e Beatrice, succedè nel Regno il primogenito, che Giovanni III fu detto: da costui nacque il Re Sebastiano, il quale, morto il Re Giovanni suo padre, succedè al Reame. Lodovico non ebbe moglie, ma da una sua concubina procreò Antonio, detto il Priore di Crato. Errico prese il Sacerdozio, e fu fatto Cardinale. Odoardo lasciò due figliuole, Maria moglie d'Alessandro Farnese Duca di Parma, e Caterina madre del Duca di Braganza. Delle due femmine, da Isabella nacque il Re Filippo II, e da Beatrice Emmanuele Filiberto Duca di Savoja. Il Re Sebastiano nella battaglia d'Arzilla restò estinto, e non ben ravvisandosi il suo cadavere, diessi poi occasione a quella celebre impostura, della quale narreremo appresso il successo. Morto il Re Sebastiano senza lasciare di sè prole alcuna, successe nel Regno il Cardinal Errico suo zio, che solo tra fratelli di Giovanni si trovò vivente; il quale essendo Sacerdote, cagionevole della persona e vecchio, pensò stabilire in vita il successore; ma riuscendogli moleste le dimande di tanti pretensori, avendo convocato un generale Parlamento, furono destinati quindici Giudici, a' quali diede Errico potestà, intesi i pretensori, di determinare la lite della successione, dando loro ancora facoltà di poter decidere eziandio dopo sua morte, se quella fosse intanto innanzi della sentenza accaduta: stabilì in questo caso Governadori, che dovessero intanto aver l'amministrazione del Regno, e fece giurare a tutti di dover riconoscere per Re colui, che per tale avessero i Giudici eletti pronunziato.
I pretensori erano Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro e il Duca di Braganza marito di Caterina; Filippo II figliuolo d'Isabella; ed il Duca di Savoja figlio di Beatrice. Eravi anche Antonio figliuol naturale di Lodovico, il quale più per l'affezione, che aveasi acquistata de' naturali del paese, che per altra ragione, aspirava non meno degli altri al Reame; ed in ultimo li Re di Francia per interessarsi ancora in questo affare e per opporsi a Filippo, volevan far valere alcune ragioni antiche ereditate da Caterina del Medici loro madre.
Per lo concorso di tanti pretensori, e per lo genio avverso, che non meno il Re, che la plebe mostrava avere al Re Filippo II, uno de' più potenti fra coloro, prevedendosi maggiori disordini, fu proposto un altro trattato di ricorrere al Papa, che dispensasse al Re, ancorchè Sacerdote, di poter prender moglie, e fu a questo fine mandato in Roma Odoardo Castelbianco. Per ciò erano tenute dal Re spesse consulte di Medici, richiedendo da essi se lo riputassero, essendo di si grave età, abile a procreare, poichè, ancorchè in tutto il tempo di sua vita avesse professata castità, nulladimanco per escludere del Regno un erede estraneo, erasi già disposto d'ammogliarsi.
Il Re Filippo, avvisato dell'avversione del Re, e degli ordini del Regno, e del trattato del matrimonio, per distorlo, scrisse immantenente al suo Ambasciadore in Roma, con molta premura incaricandogli, che impiegasse con vigore ogni opera col Pontefice Gregorio, affinchè la dispensazione non si concedesse, e nel medesimo tempo con molta secretezza mandò al Re Errico suo zio Ferdinando Castelli Frate Domenicano per distorlo da questo proponimento, insinuandogli fra l'altre, una ragione per se stessa inettissima, ma che credeva poter giovare col Cardinale, uomo per altro superstiziosissimo, cioè di fargli comprendere, che ciò sarebbe stato d'un pessimo esempio, e non da praticarsi in que' tempi senza pericolo; poichè spandendosi in Europa vie più che mai gli errori de' Settarj, i quali volevano, che i Sacerdoti potessero prender moglie, gli uomini perniziosi, se ciò vedessero nella persona sua, con facilità potrebbero persuadere agli altri di poterlo fare. La Missione riuscì inutile, poichè il Frate contra l'espettazione di Filippo, non fu ricevuto da Errico, e fu costretto con poco suo onore ritornarsene.
Intanto non si tralasciava l'altro trattato intrapreso. Furono da' Giudici citati i pretensori i quali per mezzo dei loro Ambasciadori proposero le ragioni de' loro Sovrani. Per Filippo comparve D. Pietro Girona Duca di Ossuna; per Emanuele Filiberto Duca di Savoja, Carlo Roberto; e per Ranuccio Farnese figliuolo d'Alessandro Duca di Parma e di Maria, vi fu mandato Ferdinando Farnese Vescovo di quella città, il quale avendo fatto consultare il caso in Padoa da' Giureconsulti di quella celebre Università, avea pubblicata una consultazione firmata da loro, nella quale con argomenti validissimi, come egli credeva, si sostenevan le ragioni di Ranuccio.
Il Duca di Savoja non contendeva al Re Filippo la maggioranza delle sue ragioni, essendo quegli procreato da Isabella maggiore, e prima nata di Beatrice; dimandava solamente, che se accadesse di morir Filippo prima d'Errico comune zio, in tal caso si avesse ragione del suo diritto. Erano per ciò uniti ad escludere le pretensioni del Duca di Braganza e di Ranuccio Farnese: sostenevano, che non potendo questi giovarsi dei beneficio della rappresentazione, che proccuravano abbatter con molti argomenti, doveano essi come maschi, ed in grado più prossimi essere a tutti preferiti. Il Duca di Braganza e Ranuccio all'incontro facevan tutta la forza nella rappresentazione da lor sostenuta; ma quest'istessa ragione veniva poi da Ranuccio rivoltata contra il Duca, poich'essendo egli figlio nato da Maria maggiore, e prima nata di Caterina, dovea al Duca essere preferito. Ma l'Accademia di Coimbra, informata anche dell'inclinazione del Re Errico, occultamente favoriva il Duca di Braganza, diede fuori una consultazione a suo favore, per la quale con molti argomenti si sforzarono que' Giureconsulti, rifiutate prima le ragioni di Filippo e del Duca di Savoja, e poi quelle di Ranuccio. Tutti però convennero in escludere dalla successione Antonio Prior di Grato (ancor egli citato) come spurio e nato si bene da Lodovico fratello d'Errico, ma di concubinato, non già di legittimo matrimonio, siccome poi con espresso decreto fu dal Re dichiarato.
Il Re di Francia, ancorchè non citato, volle pure avervi in ciò la sua parte, e mandò Urbano Sangelasio Vescovo di Cominges, perchè fossero anche intese le sue ragioni, al quale dopo molte difficoltà, fu alla perfine dal Re permesso, che per mezzo del suo Proccuratore potesse intervenire in quella causa a provare il suo diritto. Il Re Errico per favorire il Duca di Braganza avrebbe voluto escluder tutti, ma dall'altra parte per escludere il Re Filippo ammetteva promiscuamente le dimande di ciascuno. Le pretensioni di Francia, ch'erano pontate in quell'Assemblea in nome di Caterina de' Medici, eran derivate da un'origine troppo antica, e se mai fossero state reputate valevoli avrebbero mandate a terra, non solo le pretensioni degli oppositori, ma avrebbero posto in dubbio la successione di quel Regno nella persona del Re Errico istesso e de' suoi prossimi predecessori: laonde sarebbe stata una somma imprudenza in quel Consesso valersene, dove non pur grazia e favore, ma indignazione e rifiuto avrebbero riportato; per la qual cosa narra il Tuano, che l'Ambasciadore di Francia proccurò dal suo Re altre lettere dirette alla Camera di Lisbona, per le quali offeriva il Re ogni ajuto ai Portughesi, perchè rifiutando la dominazione di Filippo, non volessero a patto veruno soffrire il giogo di un Re così potente.
Gli Spagnuoli, il Papa e gli altri Principi Cristiani si dolevano di ciò, e declamavano, che il Re di Francia per emulazione ed odio cercava framettersi in quest'affare per interrompere i loro disegni: per la qual cosa il Re Filippo cominciò seriamente a pensare di dovere più nelle armi, che in quelle discussioni, fondare la sua pretensione. Erasi ancora reso certo, che non meno i Franzesi, che gl'Inglesi gelosi per un tanto acquisto ed ingrandimento, che si farebbe alla sua Monarchia d'un si vasto Regno, si sarebbero opposti alla sua impresa. Vedea chiara la avversione non meno del Re Errico, che di que' Popoli per lui; ed all'incontro l'inclinazione del Re per Braganza e dei Popoli per Antonio: gli Ordini del Regno erano pure entrati in pretensione, che stante la dubbiezza delle ragioni, che i Pretensori allegavano, dovesse spettare ad essi la ragione d'eleggere il successore. Per la qual cosa rivolse Filippo i suoi pensieri ad unire da tutti i suoi Regni un potentissimo esercito per venir a capo dell'impresa, e stabilì sostenere più coll'armi le sue ragioni, che colle allegazioni e sentenze de' Giureconsulti: non trascurava però, per rendere giusta e plausibile al Mondo la guerra, ch'e' apparecchiava, di consultare i più celebri Giureconsulti e le Accademie più insigni d'Europa; onde si videro uscire più famose consultazioni sopra questo soggetto: nè si tralasciò il famoso Giacomo Cujacio insigne Giureconsulto di questi tempi, il quale per Filippo compilò quella consultazione, che leggiamo ancora tra le sue opere. Quasi tutte le Accademie della sua vasta Monarchia furono impegnate a far lo stesso; ed i nostri Giureconsulti Napoletani pure richiesti contribuirono le loro fatiche sopra questo soggetto. Risoluto per tanto il Re Filippo colle armi far valere le sue ragioni, fece prima dal Duca d'Ossuna insinuare al Re Errico, che non bisognavano più tanti scrutinj: essere le sue ragioni chiarissime, le quali egli avea fatte esaminare dalle Accademie più famose d'Europa e da' più insigni Giureconsulti di quella età; che considerando ancora il pubblico bene, che ne sarebbe seguito in quel Regno, dovea egli dichiarare la successione appartenersi a lui dopo la sua morte. Questo medesimo glie lo faceva insinuare dal P. Lione Enriquez Gesuita suo Confessore, il quale regolando la coscienza di quel timido e scrupoloso vecchio, tanto fece che pose il Re in angustia, e lo fece divenir dubbioso di quello che dovea fare.
Ma gli apparecchi che si facevano per la guerra erano assai più considerabili: da tutte le parti, non men di Spagna che d'Italia, s'univano truppe ed armate da Milano, da Sicilia e dal nostro Regno di Napoli ancora, e per non insospettire il Papa e gli altri Principi si dava colore e pretesto, che tanto apparecchio si faceva per la guerra d'Africa. Fu comandato perciò al nostro Vicerè, che quelle provvisioni, che il Marchese di Mondejar avea apparecchiate contra gli Infedeli, le tenesse per questa nuova impresa. Ma il Papa sospettando di quel ch'era, cercò frapporsi col Re Filippo per distogliernelo; e propose un trattato, che se gli fosse riuscito sarebbe ridondato in grande stima dell'autorità della sua Sede. Proccurava con efficaci dimande, che seguitando gli esempj di molti Principi che non ebbero riparo, particolarmente nel felice secolo d'Innocenzio III di portare alla decisione della Sede Appostolica simili contese di Principati e Reami, volesse ancor egli imitarli, perchè avrebbe egli composta tal controversia. Ma il Re Filippo simulando di ricever a favore il suo ufficio e la sua interposizione, tirando secondo la solita tardità spagnuola la cosa in lungo, proseguiva con maggior calore gli apparecchi militari: e già si mandavano esploratori in Portogallo per deliberare, in qual parte di quel Regno convenisse cominciar la guerra, nell'istesso tempo che dagli Ordini di quel Regno, essendosi presentiti tanti apparecchi, e che la fazione del Duca di Braganza, e quella più numerosa del Prior di Grato vie più crescevano, si davano le provvidenze per prevenire le revoluzioni ed i disordini.
Ma ecco, stando le cose in questo stato, che viene a mancare il Re Errico, il quale non avendo regnato più che un anno e cinque mesi, nell'età di 68 anni, nell'ultimo di gennajo di quest'anno 1580, rese lo spirito. Il Prior di Grato, che era stato dal Re allontanato da Lisbona, intesa la sua morte, vi tornò immantinente; ed il Re Filippo affrettando vie più l'impresa, unì due potentissimi eserciti, per mare e per terra, creandone Capitan Generale il famoso Duca d'Alba. Dal nostro Regno furono somministrati in questa guerra validi soccorsi: il Vicerè vi spedì diciassette ben provveduti Navili, con seimila soldati e quattromila guastadori, comandati dal Prior d'Ungheria e da D. Carlo Spinelli: fu conceduto indulto a tutti gli sbanditi e forgiudicati dal Regno, da ribelli e falsi monetarj in fuori, i quali furono invitati ad assoldarsi in questa guerra, promettendosi lor perdono dei loro misfatti, e sopra tutta per supplire alle spese, non ostante, che come si è detto, nel precedente anno in aprile se ne fosse fatto un altro, fu convocato a' 29 settembre di quest'istesso anno 1580 nuovo Parlamento in S. Lorenzo, dove essendo Sindico Camillo Agnese nobile di Portanova, fu per questa guerra di Portogallo fatto un nuovo donativo al Re d'un milione e ducentomila ducati.
Fu veramente cosa degna da notarsi, che avendo già il Re Filippo deliberato questa guerra ed apparecchiati già i suoi eserciti per l'impresa, ed il Duca d'Alba giunto col suo esercito in Portogallo a' 21 giugno di quest'anno 1580, nell'istesso tempo ch'era arrivata l'armata di mare, pensasse ancora, come se vi fosse luogo a pentirsene e ritrattare passi cotanto avanzati, di far esaminare da alcuni Teologi, se con sicura coscienza erasi egli mosso a questa impresa. Narra il Presidente Tuano, che ciò faceva, per potere in questa guisa togliere i sinistri rumori, che si erano sparsi in Portogallo ed in Italia della poca sua giustizia, e molto più del modo, che e' teneva d'invadere quel Regno. Il Papa lo sollecitava ancora, che senza tanto dispendio de' suoi Regni, e spargimento di sangue, doveasi quella controversia commettere all'arbitrio della sua Sede: gli Ordini di quel Regno al lamentavano, che la lor ragione veniva oppressa dalla forza, e che trovandosi obbligati con giuramento di ubbidire a quel Re, che dichiarasse l'Assemblea de' Giudici istituita in vita del Re Errico, e che avea ancora autorità di farlo dopo la sua morte, non essendo tal dichiarazione per anche fatta, non potevano riconoscere Filippo per loro legittimo Signore. Per queste cagioni, non tralasciandosi intanto il proseguimento della guerra, propose il Re Filippo sotto l'esame de' Teologi Complutensi, de' PP. Gesuiti e Francescani, (nell'istessa guisa appunto che fece, quando ebbe a trattar per lo Regno nostro di Napoli con Paolo IV) che lo consigliassero per quiete della sua coscienza sopra questi punti.
Se stando egli certo della sua giusta ragione, che teneva in succedere in quel Regno a lui devoluto per la morte del Re Errico, fosse obbligato in coscienza sottomettersi ad alcun Tribunale, il quale gli aggiudicasse il Regno, e lo mettesse nella possessione di quello.
Se ricusando il Regno di Portogallo accettarlo per Re, prima che fossero discusse da' Giudici designati le ragioni de' Competitori e sue, potesse egli di propria autorità prendere la possessione del Regno, e contra i renitenti impugnar le sue armi.
Se allegando i Governadori e tutti gli Ordini di Portogallo il giuramento dato, e per ciò esser loro proibito di riconoscere alcun per Re, se non quello che tale sarà da quell'Assemblea dichiarato, dovea questa riputarsi scusa legittima.
I Gesuiti, siccome tutti gli altri Teologi, risposero appunto secondo era il desiderio del Re. Intorno al primo punto dissero, che non era egli tenuto, per niun vincolo di coscienza, sottomettersi in questa causa alla giurisdizione o arbitrio altrui: che poteva di propria autorità aggiudicare a sè il Regno, e prenderne la possessione: non potervi avere in ciò il Papa alcuna parte, poichè si trattava di cosa puramente temporale, niente avendo con seco mistura di spirituale, che dovesse perciò richiedersi l'autorità e giudizio del Foro Ecclesiastico. Molto meno potevano in ciò impacciarsi gli Ordini di Portogallo, tal che si dovesse aspettare il loro giudizio; poichè eletti una volta i Re, in essi e ne' loro successori fu trasferita ogni ragione, in guisa che appresso quelli risiede ogni giurisdizione, nè possono essere giudicati da altri; sempre dunque che costi Filippo essere il vero e legittimo erede a niuna giurisdizione d'altro Tribunale, fuor che al proprio, dover lui soggiacere.
In quanto al secondo, non avere i Giudici delegati niuna autorità di conoscere questa causa, essendo per la morte del Re Errico estinta ogni loro giurisdizione, non potendosi prorogare la giurisdizione de' Re dopo la di loro morte, onde poteva servirsi di sua ragione con aggiudicarsi il Regno, e per propria autorità prenderne la possessione.
Finalmente, al terzo capo risposero, non essere i Portughesi tenuti osservare il giuramento dato, nè poter loro ciò esser di legittima scusa a non ricevere Filippo per loro Re: poichè non avendo egli alcuno, che costituito in maggior dignità e potestà, potesse conoscere questa causa e giudicarla, doveano ubbidire a lui come a vero e legittimo erede.
Avuta ch'ebbe Filippo questa Censura de' Teologi, la fece pubblicare ed ancorchè fidasse più nelle sue armi, la fece spargere per tutto, per cancellare quei sinistri rumori disseminati da' suoi emuli; e nell'istesso tempo essendosi unito il Duca d'Alba, che comandava l'esercito terrestre, col Marchese di S. Croce Generale dell'armata di mare, fu invaso il Regno, e dopo vari avvenimenti, cotanto bene descritti dal Tuano, e da altri, che non fa d'uopo qui rapportare, avendo il Prior di Crato, che più di tutti gli altri competitori gli fece resistenza, ricevuta una strana rotta dal Duca d'Alba, Lisbona capo del Regno pervenne in mano del Re, siccome gran parte di quelle province che lo compongono.
Toccò al nostro Vicerè Zunica, avutosi a' 9 novembre di quest'anno 1580 in Napoli il certo avviso di questa vittoria, e della resa di quella città, di celebrar pomposamente per tre dì le feste, e per tre sere le illuminazioni: ed ancorchè Antonio (favorito dagli Inglesi e da' Franzesi) scacciato alla perfine dal Regno, si fortificasse nell'Isole Terzere, donde lusingavasi non solo di poter interrompere il commercio dell'Indie, ma coll'aiuto di quelle nazioni, ingelosite di tanto ingrandimento, di potere un dì pervenire a quella Corona, riuscirono però vani i suoi disegni, poichè speditovi dal Re Filippo il Marchese di S. Croce con la sua armata per debellarlo, incontrandosi con quella del competitore tra l'Isola Terzera e l'altra di S. Michele, la ruppe e dissipò in maniera, che costrinse Antonio a fuggire, e per asilo a ricovrarsi in Inghilterra. In cotal guisa alla Corona di Spagna fu aggiunto il Regno di Portogallo, dalla quale poi nel Regno di Filippo IV l'abbiam veduto un'altra volta diviso, e ricaduto sotto i propri Re come prima, che ancora vi regnano.
Ma non dobbiamo qui tralasciare, seguitando questo soggetto, la impostura e la favola, ch'ebbe per teatro Napoli del finto Re Sebastiano. Altra consimile erasene pochi anni prima tessuta in Inghilterra sotto la persona di Perino finto Re di quell'isola, di cui a lungo ragiona Bacon di Verulamio. Il Re Sebastiano giovane, e pien d'alto valore ed ardire, avendo nella battaglia d'Argilla, dato l'ultime pruove della sua intrepidezza, abbandonato da' suoi, fu infelicemente fatto prigioniere da alcuni Mori, i quali contendendo insieme per una sì cara preda e cotanto preziosa, vennero infra di loro all'armi, non senza loro strage ed uccisione. Vi accorse il Capitano, ma inutilmente per quietarli; onde con barbarie inaudita, per togliere l'occasione della rissa, diede al Re cattivo un colpo di spada in testa, e replicando i colpi lo lasciò morto in terra: il suo cadavere fra' Mori tumultuanti, e per quella rissa disordinati, non fu più riconosciuto; onde cercandolo i suoi, ancorchè non lo trovasser più, erano lusingati, che non fosse in quella battaglia morto: surse perciò incerta e dubbia voce di suo scampo, e tanto bastò per dar fondamento all'impostura; poichè scorsi venti e più anni, quando non così esattamente potevansi ravvisare le sembianze, surse un Calabrese chiamato M. Tullio Cotizone, il quale spacciavasi per Sebastiano Re di Portogallo: ridevasi della comune credenza di riputarlo morto in quella battaglia, e del loro errore; essere egli scappato dalle mani de' Mori, quando essi rissando contendevano insieme della preda. Gli emuli degli Spagnuoli davano fomento alla favola, onde fu sparsa voce, il Re Sebastiano esser vivo, ed incognito scorrere le province d'Italia. Furono posti aguati, e fatte gran diligenze per arrestarlo, siccome fortunatamente avvenne, che preso il Calabrese fu condotto in Venezia: da poi in grazia degli Spagnuoli cacciato dallo Stato di quella Repubblica, capitò travestito in Fiorenza, dove da quel Duca fu fatto arrestare e condurre prigione in Napoli, in tempo, che governava il Regno il primo Conte di Lemos. Si fece diligente inquisizione per appurare il fatto e fabbricatosene processo, fu destinato Giudice Delegato di questa causa il famoso Reggente Gianfrancesco de Ponte. Narra questo Scrittore, che compilato il processo fu scoverta l'impostura; poichè restò convinto per la deposizione della propria moglie e de' suoi congiunti, ch'egli teneva in Calabria, che lo riconobbero; ond'egli poi colla sua propria bocca spontaneamente confessò tutta la favola. Erasi deliberato di farlo morire sulle forche; ma datosene, prima di ciò eseguire, la notizia in Ispagna al Re Filippo III, con prudente consiglio fu riputato di non farlo morire, ma affinchè la falsità fosse da tutti conosciuta, e si abolisse dalle menti degli uomini questo sospetto e varietà d'opinioni, comandò il Re, che si condannasse a remare nelle Galee di Spagna, affinchè ivi e per ogni luogo fosse da tutti veduto, siccome fu eseguito; ed in cotal guisa sparve la larva e finì la favola.
(Giuseppe Ebreo narra un simil fatto accaduto ad un tal Alessandro, il quale voleva esser creduto per figliuol di Erode M. ma scoverta l'impostura da Ottaviano Cesare fu pure condannato a remare).
§ II. Emendazione del Calendario Romano.
Merita, che fra le cose memorande accadute nel governo del Principe di Pietrapersia non si tralasci questa emendazione, che rese l'anno 1582 per tutti i secoli memorabile; tanto più che non meno negli altri Regni della Cristianità, che nel nostro, prima di riceversi, fu quella appo noi ben esaminata e discussa.
L'anno antico de' Romani, non già di diece mesi, come vollero Giunio Gracco, Fulvio Varrone, Ovidio e Suetonio, ma di dodici si componeva, siccome per sentenza di Licinio Macro, e di L. Fenestella scrisse Censorino, de' quali il primo era il mese di marzo, e l'ultimo quello di febbrajo.
I mesi di marzo, maggio, luglio ed ottobre erano ciascuno di 31 giorni: gli altri erano di 29 eccetto febbrajo, il qual solamente si componeva di 28 giorni, di maniera che l'antico anno de' Romani era di giorni 355, e mancava dall'anno degli Egizj di diece giorni, onde fu bisogno dell'intercalare, la qual intercalazione si faceva in ciascun biennio nella maniera, che viene rapportata dal Presidente Tuano. Ma riuscendo questa intercalazione viziosa, si diede ansa ai Sacerdoti, li quali si presero questa briga d'emendar i tempi, di regolare a lor modo il corso dell'anno, mettendovi, per supplire, il mese intercalare, ch'essi chiamavano Mercedonio, di cui ne facevano autore Numa Pompilio. Ma siccome fece veder Plutarco nella di lui vita, questo aiuto era assai debole per emendar quegli errori e confusioni, che ne nascevano ne' mesi dell'anno: onde i sacrificj e le ferie trascorrendo a poco a poco cadevano, come dice Plutarco nella vita di Cesare, nelle parti contrarie dell'anno: li Sacerdoti per ciò (essendosi quest'affare ridotto al lor arbitrio) come a lor piaceva, e sovente per odio de' Magistrati, ora tardi, ora presto intercalavano. Pertanto Giulio Cesare s'accinse a far egli una più esatta Emendazione dell'anno; ed avendo, mentr'era in Alessandria preso il parere da que' valenti Matematici, e consultato l'affare con altri Filosofi, con più emendata diligenza notando i Segni celesti, promulgò per mezzo d'un suo editto una nuova Emendazione, e mostrò la propria via, la quale attesta Plutarco, che insino a' dì suoi usavano i Romani.
(La Scuola d'Alessandria fiorì sempre di valenti Astronomi, tal che i Vescovi di Roma per non fallire il dì della celebrazione della Pasqua, secondo il prescritto del Concilio Niceno, solevano ogni anno consultarsi col Vescovo d'Alessandria per sapere il giusto equinozio di Primavera prossimo al plenilunio di che fra gli altri è da vedersi Francesco Balduino).
Bacon di Verulamio non tralasciò di commendare la suddetta sua Emendazione, chiamandola un perpetuo documento, non meno del suo sapere, che della sua potenza, e che debbia attribuirsi alla sua gloria d'aver conosciuto non meno in Cielo le leggi delle Stelle, che d'averle date in terra agli uomini per governarli. Ma non mancaron degl'invidiosi, che, come dice Plutarco, non biasimassero tal emendazione; e Cicerone, essendogli da taluno stato detto, che la Libbra nasceva l'altro giorno, gli rispose, sì secondo il Bando; quasi che questo ancora si dovesse ricevere da Cesare ed accettare dalle persone.
Ma in decorso di tempo l'editto di Cesare mal interpretato da' Sacerdoti, non fu riputato sufficiente, e la sua emendazione ebbe bisogno poi d'altra ammenda; onde Claudio Tolomeo, che fiorì intorno a 180 anni dopo Cesare, considerando la gran varietà de' pareri in determinare l'anno naturale, ne descrisse un'altra, tanto che variando dalle prime, ne nacque un grande turbamento ed una grande confusione.
Nell'Imperio di Costantino Magno i Padri del Concilio di Nicea, volendo stabilire il giorno di Pasqua, ne statuirono un'altra, dal qual tempo seguì di nuovo una gran confusione negli Equinozj. Da poi Dionigi il Piccolo intorno l'anno 526, avanzandosi sempre più il disordine, cercò con nuova computazione darci rimedio, ma quello fu per pochi anni, onde si tornò a' disordini di prima.
(Il Panzirolo scrive, che l'Imperador Andronico Paleologo pensò pure ad una nuova emendazione, ma si sgomentò a porci mano, così per le guerre che gliel'impedirono, come perchè dubitava non fosse stata dagli altri Principi ricevuta: Id antea, e' dice, Andronicus Paleologus Imperator facere cogitavit, sed pluribus bellis impeditus, et quia alios Principes novo anno non assensuros dubitavit, a negotio destitit. Niceph. Gregor. Lib. 8 de Paschatis correctione).
Riputando pertanto i Pontefici romani, dover essere della loro incombenza di rimediarvi, furono per ciò solleciti, per prevenire anche gli altri Principi e l'Imperadore, di fare una nuova Emendazione: e cento anni prima, il Pontefice Innocenzio VIII fece venire in Roma Giovanni Regimontano celebre Matematico di que' tempi, perchè correggesse gli errori del Calendario; ma fu fama, che i figliuoli di Giorgio Trapezunzio, i quali non potevano sofferire che un Germano fosse a' Greci anteposto, l'avessero fatto avvelenare: per la qual cosa non potè soddisfare al desiderio del Papa. Con tal occasione scrissero a quei tempi del giusto computo dell'anno Pietro Alliacense Vescovo di Cambray e poi Cardinale, il Cardinal Cusano, e poco da poi Roberto Lincolniense e Paolo Midelburgense Vescovo di Fossombrone, il quale sopra ciò compose un gran volume, che lo dedicò a Massimiliano I Imperadore.
Essendosi da poi aperto il Concilio in Trento, credendosi, che que' Padri, ad esempio di ciò, che si fece nel Concilio Niceno, volessero stabilire questa Emendazione, s'affaticarono i primi ingegni d'Europa intorno a questo soggetto, e fra gli altri Giovanni Gennesio Sepulveda Cordovese, Gioan-Francesco Spinola Milanese, Benedetto Majorino, il famoso Luca Gaurico familiare di Paolo III, e Pietro Pitato Veronese, il quale con un particolar suo libro refutò la sentenza del Gaurico. Ma il Concilio, essendosi terminato con molta fretta, non potè occuparsi ad una cotanto intricata materia, che per diffinirla richiedeva molto tempo.
Pertanto Gregorio XIII dubitando di non esser prevenuto dagl'Imperadori di Germania, come affare appartenente alla ragion dell'Imperio, si pose con molta sollecitudine ad affrettar questa Emendazione, e per ciò mandò per tutte l'Accademie d'Italia, e scrisse al Senato Veneto acciò che da' Matematici e Filosofi di Padova ricercasse il lor parere intorno a questa correzione. Fu dato prima il pensiero a Giuseppe Molettio Messinese, il quale due anni prima di quest'Emendazione diede fuori le Tavole Gregoriane. Ma ricercato ancora il celebre Niccolò Copernico, famoso Astronomo di que' tempi, del suo giudizio, insorsero vari pareri, ed essendo ancora venuto in campo Sperone Speroni, s'accesero fra costoro le contese. Matteo Magino vi ebbe ancora la sua parte, e Giuntino ricercato dal Pontefice, s'uniformò all'opinione di coloro, che volevano che diece giorni si scemassero dell'anno: ma Alberto Leonio d'Utrecht, avendo perciò composto un libro, provò, che se ne dovevano scemare undici: il Duca Francesco Maria d'Urbino in grazia del Pontefice ricercò ancora del suo parere Vido Ubaldo peritissimo di questa scienza, il quale lo diede, uniformandosi però alla correzione fatta da' Padri nel Concilio Niceno. Scrissene eziandio Gregorio al Re di Francia, il quale ne diede il pensiero a Francesco Foix Candale, famoso Astronomo, che parimente diede fuori sopra ciò il suo giudizio.
Papa Gregorio intanto, perchè non si lasciasse perdere sì opportuna occasione d'ingrandire l'autorità della sua Sede, richiedeva sì bene di ciò gli altri Principi, ma voleva, che dapoi si dovesse stare a quel che egli sopra ciò stabiliva; onde esaminati tutti i pareri, finalmente per suggestione d'Antonio Lilio celebre Medico di que' tempi, s'appigliò all'emendazione di Luigi Lilio suo fratello, la qual in breve conteneva, che dovessero dell'anno scemarsi diece giorni, che per difetto d'intercalazione si trovavano soverchi, e si prescriveva il modo, sicchè tal difetto non accadesse per l'avvenire. Questa correzione in un picciol volume compresa, dopo avutane l'approvazione di Vincenzo Laureo Vescovo di Monreale, il giudicio del quale sopra queste cose egli stimava tanto, la mandò a tutti i Principi Cristiani ed alle più famose e celebri Accademie d'Europa.
Ma ebbe quest'emendazione del Lilio forti oppositori, fra gli altri Giuseppe Scaligero gran Letterato di que' tempi, il quale in quella sua maravigliosa opera De emendatione temporum, scovrì gli abbagli da colui presi. Impugnò parimente il computo Liliano Michele Mestino Professore nell'Accademia di Tubingen con grandi Commentarj. Ma contra costoro in difesa del Lilio sursero Cristoforo Clavio Gesuita, celebre Professore in Roma, ed Ugolino Martello Vescovo di Glandeves.
Pubblicata ch'ebbe Gregorio questa suA Emendazione, perchè fosse ricevuta da tutti i Principi Cattolici e sopra ogni altro dall'Imperadore e da' Principi d'Alemagna, spedì a Cesare il Cardinal Lodovico Madruccio Vescovo di Trento; ma essendosi nella Dieta d'Augusta proposto quest'affare, dai Principi quivi assembrati fu riputato un grande attentato del Pontefice d'aver posto a ciò mano, e di grande oltraggio all'autorità di Cesare e dell'Imperio, nè doversi permettere la pubblicazione del nuovo Calendario in Germania. Appartenere ciò agl'Imperadori di farlo, siccome fece Giulio Cesare, e da poi nell'Imperio d'Occidente Carlo Magno, il qual diede egli a' suoi Germani il Calendario in lingua Tedesca. Ciò che fecero i Padri nel Concilio Niceno, fu per autorità di Costantino Magno Imperadore, per comando del quale s'era convocato quel Concilio: doversi pertanto rifiutare il nuovo Calendario, tanto maggiormente, che quello fu fatto, non ricercati i Principi dell'Imperio, nè il consenso degli Ordini. Cesare vedendo la costante risoluzione de' Principi, e delle città della Germania, che aveano ricevuta la Confessione Augustana, di non riceverlo, differì di trattar quest'affare, e comandò che ne' giudizj della Camera s'osservasse l'antica forma sin allora tenuta.
(In Germania presso i Protestanti nella fine del secolo XVII si fece una nuova emendazione del Calendario, togliendone dall'anno 1700 undici giorni, la quale è ancora in uso presso i medesimi, la di cui istoria meglio sarà, che qui si noti colle parole istesse di Burcardo Struvio. Ad finem properabat seculum decimum septimum, dum fasti Mathematicorum consilio varie emendarentur. Erhardus Weigelius, nostrae olim Academiae fidus, in diversis non sulum Protestantium aulis, Suecia potissimum, et Danica, sed etiam in Comitiis Ratisbonensibus, IV. Octobris St. v. 1699 Calendarii emendationem proponebat, modo simul exhibito, qua ratione fieri possit. Agebatur de hoc negotio in Corpore Evangelicorum, consultabantur alii Mathematici, horumque rationibus auditis, XXIII septembris 1699, conclusum Corporis Evangelicorum fuit factum, ut undecim dies post XVIII, februarium St. v. sequentes, ex anno 1700 ejicerentur, celebratio Paschatos, neque juxta Cjclum Dionysianum in Juliano Calendario receptum: sed secundum calculum astronomicum, uti Concilii Nicaeni tempore factum, instituatur, atque abusus Astrologiae judiciariae ex Calendariis tollantur. Mathematici de reliquis imposterum inter se conferant. Pubblicabatur ex eo novum Calendarium (der verbesserte Calender) cujus adhuc usus est apud Germanos Protestantes. Scripta huc facientia reperiuntur in Fabri Staats-Cantzley . Facit huc etiam Jacobi Brunnemanni Dissertatio de jure undecim dierum Calendario subtractarum. Rink pag. 1350. Questo stesso Scrittore avendo fatto ristampare in Jena, nell'anno 1730, la stessa opera in due Tomi in folio, con aggiungervi alcune altre note, allungandola sino all'anno 1730, e variando in una sola parola il titolo, surrogandovi, in vece di Syntag. quella di Corpus Hist. Germ. al periodo 10 sect. 10 sect. 13 de Carolo VI § 36 Tom. 2, pag. 4101 aggiunge: De celebrando Paschate anni 1724 oriebatur controversia, an illud cum Catholicis die XVI. Aprilis secundum Cyclum Dionysianum, atque Gregorianum sit celebrandum, an vero secundum verum calculum Astronomicum, prout in Concilio Niceno sit decretum. Prolata igitur SocietAtis Scientiarum et variorum Mathematicorum sententia conclusum fuit in conferentia Evangelicorum d. XXX. Januarii 1724, ut non solum Calendarium emendatum in Protestantium terris conservetur, sed etiam Paschatos festum An. 1724 d. IX Aprilis secundum verum calculum Astronomicum celebretur, idemque an. 1744, 1778 et 1798, quibus annis terminus Paschatos ab illo Catholicorum differat, observandum, probcque cavendum, ne Pascha Christianorum cum Judaeorum Paschate coincidat. Extant acta apud Fabrum Tom XLI c. 10 Tom. XLII c. 10, Tom. XLIII c. 12, Tom. XLIV, c. 14 Tom. XLV, c 8, Tom. XLVI, c. 11 Tom XLVII, c. 10 Tom. XLVIII, cap. 8. Facit huc Collegae nostri honoratissimi, Jo. Bernhardi Wideburgii dissertatio, de imperfectione Calendarii Gregoriani, ejusdemque anno 1724 discrepantia a Calendario correcto Jenae 1724, 4 atque Ulrici Junii schediasma, de Paschate Protestantium An. 1724, celebrando; Lipsiae 1723,4)
In Francia per la morte del Tuano e per l'assenzia d'Achille Arleo non fu sopra ciò fatto lungo esame, ma il Re promulgò egli un Editto, che fu ubbidito dal Parlamento, col quale la nuova emendazione fu ricevuta; e scemati i diece giorni all'anno fu stabilito, che li diece di Dicembre si contassero per venti, onde in quell'anno il giorno di Natale fu celebrato a' 15 di quel mese. Parimente ad emulazione del Re di Francia, il novello Duca del Brabante Francesco, per cattivarsi la benevolenza del Pontefice, ottenne anche da' Protestanti, che fosse la sua emendazione ricevuta in Fiandra, siccome fu ricevuta in Olanda, e nella Frisia Occidentale e nell'altre province.
In Ispagna e ne' Dominj del nostro Re Filippo II particolarmente nel Regno di Napoli, pubblicata che fu da Gregorio questa emendazione, prima che si ricevesse, fu quella esaminata e fu richiesta la permissione e 'l beneplacito del Re Filippo, siccome in tutti gli altri Regni erasi fatto, appartenendo a' Principi, per ciò che riguarda i loro Stati, regolare i giorni e per le celebrità de' loro natali, incoronazioni e per ogni altro, ma sopra tutto per le Ferie de' loro Tribunali. Il Re Filippo informato, che con accordo e partecipazione di molti Principi della Cristianità erasi fatta, questa emendazione, e che coloro l'aveano ricevuta ne' loro Dominj, così egli fece ne' suoi Regni; onde governando il nostro in questi tempi il Principe di Pietrapersia, mandò al medesimo il nuovo Calendario riformato da Gregorio, scrivendogli a' 21 agosto di quest'anno 1582, che avendo il Pontefice Gregorio con matura deliberazione e comunicazione de' Principi Cristiani, ed accordo di tutto il Sagro Collegio dei Cardinali riformato il Calendario, per ridur la Pasqua di Resurrezione ed altre Feste Mobili al giusto e vero punto della loro antica istituzione, per ciò l'ordinava che lo facesse eseguire nel Regno di Napoli ed in tutte le Chiese di quello.
Ma contenendosi in quel Calendario alcune cose pregiudiziali alle sue preminenze, scrisse nel medesimo tempo un'altra lettera a parte al suddetto Principe, avvertendogli di mirar molto bene, che se in quel che tocca alla proibizione, che s'aggiunge in quello, cioè che non lo possa imprimere altri, che Antonio Lilio, o altri di suo ordine, vi fosse cosa da notare di pregiudizio alla sua Regal Giurisdizione, o ritrovandosi altro inconveniente, o novità di considerazione, trattenga l'impressione, e ne l'informi, ed aspetti da lui nuova risposta. In cotal maniera e con tali moderazioni fu il nuovo Calendario appo noi ricevuto ed osservato; e narra il Summonte, che per ciò in quest'anno li 4 d'ottobre furon contati per 14 e li pagamenti di tutti gli affitti si fecero per tanto meno, quanto era la valuta di que' diece giorni. Parimente fu osservato, che conservandosi nella Chiesa di S. Gaudioso una caraffina di Sangue di S. Stefano portata in Napoli, secondo che scrive il Baronio, da S. Gaudioso Vescovo Affricano, la quale era solita liquefarsi da se stessa il dì terzo d'Agosto secondo il Calendario antico: da poi che Gregorio fece questa emendazione non bolle il sangue, che alli 13 d'agosto, nel qual dì, secondo la nuova riforma, cade la festa di S. Stefano; onde Guglielmo Cave scrisse, che questa sia una pruova manifesta, che il Calendario Gregoriano sia stato ricevuto in Cielo, ancor che in Terra alcuni paesi abbiano ricusato di seguitarlo.
(Lo stesso narrasi esser accaduto nel bollimento del sangue di S. Gennaro a' 19 settembre. E Panzirolo in prova della verità dell'emendazione Gregoriana rapporta nel cap. 177 de Clar. Leg. Interp. una Istorietta che merita esser trascritta colle sue stesse parole: Haec anni emendatio divinitus est comprobata; quoddam enim Nucis genus reperitur, quod tota hieme usque ad noctem D. Joannis Baptistae foliis, ac fructibus velut arida caret; mane ultro ejus diei, more aliarum foliis, fructibusque induta reperitur. Haec post ejus anni correctionem decem diebus priusquam antea consueverat, id est eadem nocte D. Joannis quae retrocessit, et non ut antea virescere coepit.)
§. III Fine del Governo del Principe di Pietrapersia, e leggi che ci lasciò.
Da questi tempi in poi osserviamo, che il Re Filippo II avesse stabilito e prefisso il tempo de' governi de' suoi Vicerè di Napoli, prescrivendo, che non dovesse regolarmente durare, che per tre anni; poichè prima era riposto nell'arbitrio del Re, nè era circoscritto dentro tali confini; onde terminato, che fu ai 11 novembre di quest'anno 1582 gli convenne partire per Ispagna, e dar luogo al Duca d'Ossuna suo successore. Partì con dolore di tutti, lasciando di se, per le sue commendabili doti di pietà, mansuetudine ed assiduità nell'audienze, fama d'un ottimo Vicerè. Nel suo triennio oltre delle cose memorabili di sopra scritte, accadde a' 23 d'ottobre del 1580 nella città d'Elves la morte della Regina Anna moglie del Re Filippo, lasciando di se al Re due figliuoli D. Diego d'anni otto e D. Filippo di due, essendo gli altri due Ernando e Giovanna premorti. Egli terminò la fabbrica dell'Arsenale, e vi fece quella magnifica Porta, che guarda su 'l Molo. Fondò nelle carceri della Vicaria l'infermeria per comodo degli ammalati prigioni; e finalmente per perenne monumento della sua prudenza civile, ci lasciò intorno a trentatrè Prammatiche, ricolme di savi provvedimenti, le quali possono osservarsi nella Cronologia prefissa nel primo tomo delle medesime.
(Non solo dalla rimozione del Principe, finito il triennio, ciò si rende manifesto, ma dal diploma del Viceregnato; che da Ferdinando II fu spedito a D. Pietro di Giron Duca d'Ossuna, successore, ristretto ad unum triennium, a die captae possessionis computandum. Questo Diploma si legge presso Lunig .