CAPITOLO VI.

Disposizione e numero delle province del Regno sotto Alfonso, ed in che modo fossero dalla Regia Camera amministrate; e come fossero numerati i fuochi di ciascuna città e terra che lo compongono.

Io non veggio donde Marino Freccia abbiasi appreso che il Re Alfonso avesse diviso questo Regno in sei province. Sin da' tempi dell'Imperador Federico II, siccome si vide nel XVII libro di quest'Istoria, era diviso in otto province. Il Principato, che per la sua estensione si divise poi in due, citra ed ultra. La Calabria, che per la sua ampiezza bisognò poi dividerla parimente in due, in Terra Giordana, che diciamo ora Calabria ultra, e Val di Crati che Calabria citra oggi s'appella. La Puglia divisa poi parimente in due, Terra d'Otranto e Terra di Bari, e l'Apruzzo, che pur fu diviso in due province; onde a queste otto aggiunte l'altre quattro, cioè Terra di Lavoro, Basilicata, Capitanata e Contado di Molise, venne il di lor numero ad arrivare a dodici, come è al presente. Ed è tanto lontano che Alfonso avesse ristretto il di lor numero, che fu costante opinione de' nostri Scrittori, ch'egli avesse diviso l'Apruzzo in due province per toglier le brighe che solevan insorgere fra' Questori per l'esazion delle tasse e dei dazj. Ma niun'altra scrittura più manifestamente convince nel Regno d'Alfonso il numero di queste province essere di dodici, quanto la general Tassa delle Collette che furono nuovamente imposte per l'entrata trionfale di Alfonso, che fece in Napoli nel 1443, e per la quale fu anche tassato il popolo napoletano. Fu questa scrittura impressa de Camillo Tutini nel suo libro de' sette Ufficj del Regno, ch'egli estrasse dall'Archivio maggiore della Regia Camera. Mancavi solamente la provincia di Terra d'Otranto, non sappiamo se per la voracità del tempo, ovvero perchè possedendosi questa provincia per la maggior sua parte dal Principe di Taranto, parente del Re, ne fosse stata perciò eccettuata; e nel novero delle città e terre di tutte le altre province mancano ancora le città demaniali, per le quali bisogna credere che si fosse fatta tassa separata. I registratori però commisero errore in notarne la rubrica, perchè in vece di dire: Triumphi Regis Alphonsi, dissero: Tassa Collectarum felicis Coronationis Regis Alphonsi noviter imposita ad recolligendum a Baronibus Provinciarum Regni, ultra Terras demaniales; poichè ancor che Alfonso nel 1445 avesse ottenuta Bolla da Papa Eugenio, per la quale se gli prometteva di mandargli il Cardinal di S. Lorenzo o altra persona per solennemente coronarlo; nulladimanco non fu mai questa solennità celebrata in tutto il tempo che visse. Si registrano in questa cedola, toltane Terra d'Otranto, tutte l'altre undici province, colle città e terre baronali ed i loro baroni con quest'ordine e nomi: Principato citra, et ultra: Basilicata: Terra di Lavoro e Contado di Molise: Apruzzo citra: Apruzzo ultra: Provincia Calabriae Vallis Cratis: Provincia Calabriae ultra: Capitanata: Provincia Terrae Bari.

Ecco dunque che nel Regno d'Alfonso le province del Regno non erano minori di quel che vediamo ora. Nel che si convince parimente l'errore del Guicciardino , il quale scrisse che Alfonso avesse variata la denominazione antica delle province, ed avendo rispetto a facilitare l'esazioni dell'entrate, avesse diviso tutto il Regno in sei province principali; cioè, in Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calabria, Puglia ed Apruzzi; delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè in Terra d'Otranto, Terra di Bari e Capitanata. Errore quanto degno di scusa a questo Scrittore, che come forestiere non potè averne esatta notizia, altrettanto da non condonarsi a Marino Freccia Scrittor nazionale e regio Ministro di Napoli.

Ma ciò che dovrà notarsi nel tempo di questo Re, sarà il vedere che non pure tutte le isole a queste province adjacenti, delle quali si parlerà più innanzi, ma anche l'isola di Lipari, non già alla Sicilia, ma alla Calabria era attribuita.

Accrebbe ancora questo Principe la provincia del Principato ulteriore, col nuovo acquisto della città di Benevento, e distese sopra lo Stato della Chiesa romana li confini di Terra di Lavoro più di quello che ora sono; ed aggiunse parimente al Regno la Sovranità sopra lo Stato di Piombino.

La città di Benevento, come si è potuto vedere ne' precedenti libri di quest'Istoria, per le cagioni ivi rapportate, fu lungamente posseduta da' Pontefici romani; ed ancorchè sovente fosse stata interrotta la loro possessione da Roberto Guiscardo, da Ruggiero I Re di Sicilia, da Guglielmo II, dall'Imperador Federico II e da altri Re, secondo che le congiunture della guerra o d'inimistà portarono; nulladimanco sempre poi ne' trattati di pace fu alla Chiesa restituita, riputandosi questa città come fuori del Regno; poichè quando di queste province se ne formò un Regno, si trovava già da quella divisa e separata, e sotto l'ubbidienza de' romani Pontefici; ond'è, che in tutte le investiture fu sempre quella eccettuata. Nel Regno di Carlo III di Durazzo, Urbano VI la diede in governo a Ramondello Orsino, che fu poi Principe di Taranto, per averlo liberato dalle mani di Carlo, quando lo teneva assediato in Nocera. Chiamato Alfonso alla conquista del Regno per l'adozione della Regina Giovanna II essendo insorti que' contrasti che finalmente proruppero in sanguinose guerre; Alfonso che tenne contrarj due Papi, occupò Benevento, senza che pensasse di doverla mai restituire, come avean fatto gli altri Re suoi predecessori. Ne' trattati di pace che si s'ebbero in Terracina col Legato di Papa Eugenio, fa molto dibattuto sopra la sua restituzione, la quale non fu accordata dal Re; e sol si convenne che insieme con Terracina dovesse ritenerla in nome della Chiesa per tutto il tempo di sua vita: ma che all'incontro si lasciassero sotto il governo del Papa Città Ducale, Acumoli e la Lionessa, terre importantissime della provincia d'Apruzzo ulteriore. Ma da poi essendo ad Eugenio succeduto Niccolò V, furono ad Alfonso restituite le suddette Terre della Montagna dell'Amatrice; ond'è che il Contado di Acumoli, confinando con quello di Norcia, perchè si togliesse ogni occasione di controversia di confini fu dal Conte di Miranda, nell'anno 1389, pubblicata prammatica, colla quale fu proibita ogni sorte d'alienazione de' territorj d'Acumoli, che sono ne' suddetti confini, a' forestieri, e specialmente a' Norcesi; e rimasero parimente Benevento e Terracina in potere del Re, assolvendolo ancora dal tributo de' due Sparvieri, che per dette due città dovea alla Sede Appostolica: onde la provincia di Principato ultra in tutto il tempo che regnò Alfonso, riconobbe, anche perciò che riguarda la politia temporale, Benevento per suo capo e metropoli. Nè dopo la morte d'Alfonso fu restituita alla Chiesa, ma Ferdinando I suo successore parimente la ritenne per lungo corso di tempo: in appresso dopo varj trattati avuti col Pontefice Pio II la restituì al medesimo; dal qual tempo in poi, con non interrotta possessione, insino ad ora si vide sotto il dominio della Sede Appostolica, e riputata città fuori del Regno. Della medesima avea a' tempi de' nostri avoli tessuta una esatta e piena istoria Alfonso di Blasio gentiluomo Beneventano; ed il quarto volume conteneva quest'ultimo stato, nel quale giacque suddita a' Papi. Secondo una sua epistola del 1650 rapportata dal Toppi, nella quale ci dà l'idea di quest'opera, egli v'avea travagliato trent'anni, e secondo i varj suoi stati (prima d'essere stata soggiogata da' Romani, nel tempo che fu dominata da' medesimi in forma di Colonia, sotto i suoi Duchi e Principi, e finalmente sotto i Papi) l'avea divisa in quattro volumi. Sosteneva che l'antichissima città di Sannio fosse stata Benevento, rifiutando l'opinione di Cluverio e di Salmasio che negarono la sussistenza della città di Sannio. Ma morto al piacere dell'immortal suo nome che senza dubbio per cotal opera avrebbesi acquistato, non potè vederne il fine; ed i suoi manuscritti con tanta trascuraggine non curati, giacciono ora sepolti in profonda caligine, senza che vi fosse stato chi se ne avesse presa cura o pensiere di fargli imprimere.

La provincia di Terra di Lavoro nel Regno d'Alfonso distese molto più i suoi confini sopra lo Stato della Chiesa romana che ora non tiene. Li Pontefici romani pretesero che la città di Gaeta s'appartenesse allo Stato della lor Chiesa; e fondavano questa lor pretensione, come si disse ne' precedenti libri di quest'Istoria, nella liberalità di Carlo M. quando pretese toglierla a' Greci per farne un dono alla Chiesa di Roma, siccome avea fatto di Terracina e dell'altre spoglie de' Greci. Ma essendosi in que' tempi opposto Arechi Principe di Benevento, frastornò ogni lor disegno, e proccurò che tosto questa città ritornasse sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente, i quali vi mandavano i Patrizj loro Ufficiali per governarla. Ma non per ciò si astennero i Pontefici romani, quando le congiunture lo portavano, di far dell'intraprese, e quando vedevano non poterle mantenere, ne investivano un Principe più potente. Così leggiamo che Giovanni VIII la concedè a Pandolfo Conte di Capua, che morì nell'anno 882; e Lione Ostiense scrive, che Gaeta in que' tempi serviva al Papa; ma ritornò ben tosto sotto gl'Imperadori d'Oriente, e ne' tempi seguenti, avendo i Normanni spogliati i Greci di ciò che loro era rimaso in queste nostre province, essi se n'impadronirono; ond'è che s'intitolavano ancora Duchi di Gaeta. A' Normanni essendo succeduti i Svevi, e poi gli Angioini, ed a questi ora Alfonso, e poi gli altri Aragonesi e finalmente gli Austriaci, questa città fu con continuata e non interrotta possessione da' nostri Re ritenuta, e come una delle città di questa provincia fu sempre riputata.

Ma la medesima sorte non ebbe Terracina se non a' tempi d'Alfonso. Questa città pure come spoglia de' Greci fu da Carlo M., avendola tolta a' medesimi, donata alla Chiesa romana; ma i Normanni, discacciati i Greci, in lor vece la pretesero. Non l'abbandonaron con tutto ciò i Pontefici e la riebbero: tanto che con interrotta possessione ora da Papi, ora da' nostri Re fu occupata e sempre combattuta, finchè solamente Alfonso per via d'accordo e di capitolazioni avute con due Pontefici, stabilmente non la unisse a questa provincia; e per lungo tempo i confini del Regno verso quella parte si distesero sino a questa Città. Eugenio IV come si è veduto, in iscambio d'Acumoli, città Ducale e Lionessa, diede in governo ad Alfonso, Benevento e Terracina per tutto il tempo di sua vita; da poi s'ampliò la concessione a Ferdinando ed a' suoi successori perpetualmente. Niccolò V suo successore confermò quanto Eugenio avea fatto; anzi restituì ad Alfonso quelle Terre, e volle che Benevento e Terracina rimanessero a lui senz'alcuna obbligazione di censo. Fu Terracina nel Regno d'Alfonso, e ne' primi anni di Ferdinando suo figliuolo ritenuta. Ma poi Ferdinando per tenersi amico Pio II, che gli diede l'investitura, negatagli da Calisto, bisognò che la restituisse insieme con Benevento; onde i romani Pontefici di nuovo l'incorporarono al loro Stato, donde mai da poi potè divellersi: sursero quindi le tante controversie ne' confini tra la Sede Appostolica ed i nostri Re, i quali conservarono sempre queste ragioni per riaverla secondo che le congiunture portassero; ed il Chioccarello nel ventesimoprimo tomo de' suoi M. S. Giurisdizionali di tutte queste ragioni ne fece particolare ed accurata raccolta.

Non trascurò Alfonso le sue ragioni sopra altri luoghi di quest'istessa provincia pur pretesi ed invasi da' romani Pontefici. Il Castello di Pontecorvo, non più che otto miglia lontano da Monte Cassino, dove ora risiede il Vescovo d'Aquino, era certamente dentro il distretto di questa provincia di Terra di Lavoro. Fu edificato nel tenimento d'Aquino presso un ponte curvo, onde prese il nome, da Rodoaldo Castaldo, ne' tempi dell'Imperador Lodovico, siccome narra Lione Ostiense. Il monastero Cassinense, a cui fu poi nel 1105 conceduto da Riccardo Principe di Benevento, per lungo tempo lo tenne: ma gli Abati di questo monastero eran in que' tempi entrati in pretensione di posseder tutte le terre del loro monastero, come Signori assoluti, senza dipender da altro Principe, nè riconoscere altro supremo ed eminente dominio: perciò independentemente ne infeudavano gli altri con farsi prestare il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio, de' quali giuramenti l'Abate della Noce ne porta due formole. Porta ancora questo Autore l'investitura, che l'Abate Oderisio fece della metà di questo castello a Giordano Pinzzast durante la sua vita solamente, ma che dopo la sua morte tornasse al monastero. Questa pretensione certamente in que' tempi se la fecero valere, poichè eran entrati in tanta alterigia, che poser eserciti armati in campagna, e mosser guerre in que' tempi turbolentissimi, difendendosi i loro castelli con mano armata. Ma in decorso di tempo, sterminati da queste province tanti piccioli Signori e ridotte quelle in forma di Regno sotto il famoso Ruggiero I Re di Sicilia, le Terre di questo Monastero furono trattate da' Re normanni, da' Svevi ed Angioini non meno che l'altre Terre degli altri Baroni, delle quali i Re aveano il supremo ed eminente dominio ed alta giurisdizione. Quindi noi leggiamo, che gli Abati di Monte Cassino nel Regno di Carlo I d'Angiò, volendo tornar all'antiche pretensioni fur ripressi da questo Principe, il quale nell'anno 1275 scrisse a' suoi Ufficiali, dicendo loro, che le Terre che possedeva il monastero Cassinense erano soggette al Re, come tutte l'altre Terre e vassalli del Regno, e che quel monastero e suo Abate non v'aveano altro che il vassallaggio: onde ordina ad essi, che non facciano aggravare i suddetti vassalli dall'Abate. Carlo II suo successore, nel 1292, mentre questo Monastero era amministrato nel temporale e spirituale dal Vescovo di Tripoli, mandò due Commessari a distinguere i confini de' Territori tra le Terre di Rocca Guglielma e Pontecorvo, e porvi i termini: e nel 1307 scrisse al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che rendesse giustizia all'Abate e monastero suddetto di non fargli molestare nella possessione d'alcuni beni stabili, ragioni e vassalli, che tenevano nel distretto di Pontecorvo, spettanti al suddetto monastero, ma che gli mantenesse nella possessione, nella quale si trovavano.

Il Re Roberto nel 1311 ordinò all'abate Cassinense che tenesse ben guardate le fortezze e luoghi di detta Badia esposti all'offesa de' suoi nemici, e spezialmente S. Germano e Pontecorvo; e nel 1324 essendo di nuovo insorta lite de' confini tra Rocca Guglielma e Pontecorvo, commise al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che dividesse i confini dei territorj delle Terre suddette e vi ponesse i termini.

La Regina Giovanna I nel 1343 ordinò al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che non procedesse ex officio contra agli uomini della Terra di Pontecorvo vassalli del monastero Cassinense negli loro delitti, eccettuatine quelli, che de jure spettano. E la Regina Giovanna II, nel 1431, creò Capitano di Pontecorvo per lo rimanente di quell'anno Niccolò di Somma di Napoli Milite.

Ancora dagli antichi Cedolarj regj si ricava, che la Terra di Pontecorvo, dalli tempi del Re Carlo I insino alla Regina Giovanna II, fu sempre tassata nelle tasse generali a pagar le collette alla Regia Corte, conforme tutte l'altre Terre del Regno, come nell'anno 1274, 1275, 1292, 1295, 1304, 1306, 1309, 1316, 1319, 1320, 1321, 1322, 1323, 1324, 1328, 1333, 1335, 1339, 1395 e 1423, li quali documenti furon tutti raccolti dal Chioccarello nel tomo 18 de' suoi M. S. Giurisdizionali.

Ma il monastero Cassinense, avendo patite varie mutazioni, e dalla Corte romana ora dato in Commenda a qualche Vescovo o Cardinale, ora restituito nel suo primiero stato, disponendone i Pontefici romani a lor talento, fu molto ben da essi estenuato con appropriarsi buona parte de' suoi dominj, tanto che Pontecorvo tolto a' Monaci, finalmente pervenne in mano della Sede Appostolica. I Papi non vollero riconoscere i nostri Re per supremi Signori della Terra, come prima gli riconoscevano gli Abati di quel monastero, ma s'usurparono sopra quella ogni diritto. Ma il Re Alfonso in tempo dell'inimicizia, che ebbe con Eugenio IV gli tolse colle armi Pontecorvo, e fin che regnò, lo tenne, e dopo la sua morte lo trasmise al Re Ferdinando suo successore. Nella guerra poi, che questo Re ebbe con Giovanni figliuol di Renato, cotanto ben descritta dal Pontano, gli fu tolto da Giovanni; ma avendo Ferdinando fatta lega col Pontefice Pio II, il quale contro Giovanni pose in piedi un fioritissimo esercito, l'esercito del Papa discacciò Giovanni da que' luoghi che avea presi, e Pontecorvo ritornò in questa guerra a Ferdinando suo vero padrone. Ma i Pontefici Romani, che mai trascurano il tempo e l'occasioni di riacquistar ciò, che una volta possederono, vegghiaron sempre per riaverlo, e secondo le congiunture portarono, con non picciola trascuraggine de' Ministri de' nostri Principi, se n'impossessarono di nuovo, e con non interrotta possessione lo tennero lungamente, ed in fine giunsero, che nell'investiture del Regno se l'han riserbato, non meno che fecero di Benevento; ed ultimamente, perchè il Vescovo d'Aquino dimorasse in più sicuro luogo, han mutata la sua residenza, ed in vece di farlo risiedere in Aquino antica Sede Cattedrale, oggi risiede in Pontecorvo, Terra da essi pretesa fuori del dominio de' nostri Re. Anzi rinovando l'antiche contese de' confini, intrapresero estendergli sopra Rocca Guglielma, tanto che nel Ponteficato di Paolo V fu d'uopo al Vicerè D. Pietro Conte di Lemos, mandar in S. Germano il reggente Fulvio di Costanzo Marchese di Corleto, il quale coll'Arcivescovo di Chieti Commessario appostolico mandato dal Papa, composero queste differenze, ed a' 31 maggio 1762 ne fu in S. Germano stipulato istromento tra il suddetto Arcivescovo e 'l Reggente per la distinzione de' confini suddetti tra Pontecorvo e Rocca Guglielma, nel quale furono inserite le loro commissioni sopra di ciò ricevute.

Vindicò Alfonso da' Pontefici romani non meno Pontecorvo, che le picciole isole adiacenti ne' mari di Gaeta. Sono in questo mare quattro isolette chiamate Ponza, Summone, Palmerola e Ventotene. In alcune carte Summone e Palmerola, son dette S. Maria e le Botte. Pure sopra quest'isole i Pontefici romani tentarono dell'intraprese, ancorchè comprese nel Regno di Napoli, e fossero riputate sempre della diocesi di Gaeta, e da' nostri Re sempre dominate.

Il Re Carlo I nel 1270 ordinò a' suoi Ufficiali di Terra di Lavoro, che non facessero molestare l'Abate e Convento del monastero di S. Maria dell'isola di Ponza dell'ordine Cisterciense della diocesi di Gaeta, sopra alcuni beni che possedeva nella diocesi di Sessa; ed il nostro Re Alfonso, avendo Fr. Marcellino d'Alvana ottenuto da lui sorretiziamente un ordine, che fosse posto in possesso della Badia del monastero di S. Maria di Ponza, scoverto l'inganno, ordinò che se gli levasse tosto il possesso e la riscossione de' frutti di detta Badia.

Seguendo in ciò l'esempio d'Alfonso, li successori Re mantennero in quest'isole il lor possesso; e, regnando l'Imperador Carlo V, abbiamo, che il Conte di S. Severina Vicerè del Regno nel 1525 spedì più ordini a' Castellani di Ponza e Ventotene, che le guardassero attentamente, e con vigilanza contro i Turchi.

Ma nel Regno di Filippo II i Pontefici romani avanzarono le loro pretensioni, e oltre averne spedite concessioni al Cardinal Farnese ed al Duca di Parma, i Romani attentarono di fare alcuni Forti nell'isola di Ponza, di che avendone il Duca d'Ossuna avvisato il Re, Filippo nel 1584 gli rescrisse, che stasse in ciò con molta avvertenza, in non permettere, che alcuno usurpi la sua giurisdizione, e che perciò voleva che pienamente l'informasse di tutto con suo parere. Il Vicerè fece far consulta dalla Regia Camera, nella quale fu con molta esattezza dimostrato, che l'isola di Ponza con altre Isole convicine, cioè Summonte, Palmerola e Ventotene erano comprese nel Regno, nè il Papa poteva avervi alcun dritto, nè il Duca di Parma, il quale non era che un semplice e nudo affittatore, avendosele nel 1582 affittate per scudi 13000 per ventidue anni: onde il Re con altra sua carta de' 3 novembre del medesimo anno 1584 in vista di detta consulta gli ordinò, che continuasse a conservare le ragioni che egli vi tenea, nè permettesse che altri sopra quelle facessero innovazione alcuna.

Succeduto poi al governo del Regno il Conte di Miranda, il Cardinal Farnese mosse trattato col Re Filippo, per mezzo del Conte d'Olivares allora Ambasciadore in Roma, che queste isole si concedessero in feudo al Duca di Parma suo fratello cugino: ed inclinando il Re per le condizioni di que' tempi a farlo, scrisse al Conte nel 1587, che l'informasse con particolarità di ciò che poteva occorrere in contrario, ma che fra tanto non permettesse in dette isole vi si facesse fortificazione alcuna, nè molo nè porto nè cosa simile, insino che informata del tutto potesse risolvere quel che più conveniva al suo regal servigio. Ed avendogliene il Conte di Miranda fatta piena relazione, risolvè il Re d'infeudarle al Duca di Parma con darne avviso al Vicerè di questa sua risoluzione; ed a' 22 settembre del 1588 ne scrisse anche al Conte di Olivares suo Ambasciadore in Roma, che in conformità di quel che avea scritto al Vicerè, veniva a concedere dette isole in feudo al Duca di Parma con ergerle in Contado.

Accrebbe finalmente Alfonso il Regno colla sovranità, che acquistò sopra lo Stato di Piombino (posto presso il mare tra il Pisano ed il Sanese), e coll'acquisto della picciola isola del Giglio, di Castiglione della Pescara e di Gavarra. Nella guerra che Alfonso mosse in Toscana per indurre i Fiorentini alla pace, ed a richiamare le loro truppe dall'assedio di Milano, essendogli da' Senesi dato il passo, pensò, che non per altra parte potesse più utilmente muovere le sue forze contro i Fiorentini, se non per lo Stato di Piombino, nel cui Porto potesse far venire da Sicilia la sua armata di mare. Rinaldo Orsino erane allora Signore, il quale se ben prima avesse seguita la parte d'Alfonso, cominciò da poi ad aver intelligenza coi Fiorentini, co' quali finalmente si unì contro il Re. Fece per tanto che Alfonso deliberasse di fargli guerra; onde dopo aver per tutta la primavera dell'anno 1488 guerreggiato in Toscana, nel principio di luglio andò a poner il campo contro Piombino, cingendolo di stretto assedio. Rinaldo chiamò i Fiorentini che venisser tosto a soccorrerlo, i quali non furon pigri a farlo; ed azzuffatesi le due armate, riuscì ad Alfonso di batter in mare i Fiorentini, ed introdurre le sue navi nel Porto di Piombino, le quali s'impadronirono ancora della vicina isola del Giglio. Fece dar l'assalto alla città per ridurla; ma sopraggiunta in quell'està una gran pestilenza nel suo esercito, fu d'uopo levar l'assedio: trattatasi poi la pace tra 'l Re ed i Fiorentini, con gli altri Potentati d'Italia, Alfonso l'accettò con queste condizioni, che rimanessero sotto il suo dominio Castiglione della Pescara, il Giglio, lo Stato di Piombino e Gavarra: ciò che gli fu accordato; ma i Fiorentini vollero, che in questa pace si includesse anche Rinaldo Orsino, e fu accordato che Rinaldo rimanesse Signore di Piombino, con riconoscere il Re per sovrano, a cui pagasse per tributo ogni anno un vaso d'oro di 500 scudi.

Era questo Stato della nobilissima famiglia Appiano, e Gherardo Lionardo Appiano ne fu l'ultimo Signore. Questi essendosi casato con Paola Colonna, dal cui matrimonio non essendone nati maschi, ma una sola femmina chiamata Catterina Appiana, ordinò che nello Stato succedesse non Catterina, ma Emmanuele suo fratello, nel caso, che Giacomo altro suo fratello morisse, come avvenne, senza figli maschi. Ma morto Gherardo, Paola sua moglie, avendo casata Catterina sua figliuola con Rinaldo Orsino, proccurò che Rinaldo suo genero si fosse reso Signore dello Stato, escludendone Emmanuele e per mezzo de' Fiorentini ottenne, che Alfonso gli lasciasse lo Stato col tributo del vaso d'oro, come si è detto.

(Gherardo a Roo , e per la costui testimonianza, Struvio Syntag. Hist. Germ. dissert. 30 §. 22 rapportano, che gli Orsini collo sborso di quindicimila ducati, che pagarono all'Imperadore Federico III, ebbero dal medesimo il Principato di Piombino; il quale Alfonso rese a se tributario).

Essendone da poi morto Rinaldo, Catterina sua moglie mandò Oratori al Re Alfonso, pregandolo a non darle travagli per li misfatti del marito; poichè ella seguiterebbe a riconoscerlo per sovrano con prestargli ogni ubbidienza e pagargli il tributo. Il Re ne fu contento, e fin che visse Catterina rimase Signora dello Stato; ma quella poco da poi morta, i Cittadini di Piombino chiamaron subito Emmanuele, e come loro legittimo Signore l'invitarono allo Stato. Ritrovavasi questi in Troja città del Regno, posta nella provincia di Capitanata, ove erasi ricovrato sotto la protezione d'Alfonso: il ricevette molto contento dell'invito fattogli da' suoi vassalli, e per tenerlo più fermo in suo servizio, quando bisognasse contro i Fiorentini, inviò un suo Segretario a coloro dello Stato, dichiarando il contento, che teneva così per aver essi fatto il lor debito in richiamarlo, come anch'egli avea molto caro, che quello Stato fosse ricaduto ad Emmanuele, che avea sempre tenuto sotto la sua protezione sopra a qualunque altro; onde Emmanuele, avendogli giurato omaggio, e promesso di pagare a lui e suoi successori ogni anno un vaso d'oro di 500 scudi, fu stabilito ancora con coloro dello Stato, che tutti gli altri, che succedessero in quella Signoria, fosser obbligati di riconoscere il Re e suoi successori nel Regno per lor sovrano con restar esenti e liberi d'ogni altro vassallaggio. Giunto Emmanuele a Piombino fu salutato e riconosciuto da tutti per lor Signore, il quale governò i suoi popoli con molta prudenza ed amore, e fu sempre carissimo al Re Alfonso; e morto che fu, lasciò suo successore Giacomo suo figliuolo, e per molti anni in appresso si vide la Gente Appiana signoreggiare questo Stato. Ma poi quella estinta, insorsero varie contese fra' Pretendenti, nella determinazione delle quali vi ebbero sempre gran parte i nostri Re, come successori di Alfonso, a' quali s'appartenevano le ragioni di sovranità, onde narra il Summonte, che a' suoi tempi il Vicerè di Napoli mandò a sequestrarlo e tenerlo in nome del Re Filippo II. Quindi son derivate le ragioni a' nostri Re sopra la sovranità di questo Stato, e le investiture, che poi di quello si fecero a varie altre famiglie.

Lo Stato adunque delle province ond'ora si compone il Regno, ne' tempi d'Alfonso, si vide nel suo maggior vigore ed ampiezza; e poichè la soverchia sua generosità l'avea portato ad invigilar pur troppo ad accrescere il regal patrimonio, il Tribunale della regia Camera, che soprastava all'esazione de' regali diritti, ed avea la soprantendenza sopra i Doganieri, Tesorieri e sopra tutti gli altri Ufficiali minori delle Province destinati a questo fine, si vide più numeroso, e d'affari più carico. Quindi nacque lo stile, che ancor oggi dura, di distribuire le province fra' Presidenti e Razionali della medesima, acciò ciascheduno ne avesse particolar pensiero, e di mandare un Presidente in Foggia a sopraintendere al governo della regia dogana della mena delle pecore, donde il Re ne ricava somme immense di denaro, e che oggi vien riputata per una delle maggiori rendite del regal patrimonio.

Accrebbe parimente Alfonso il regal Patrimonio coll'esazione del ducato a fuoco, onde s'introdusser nel Regno le numerazioni. Prima sotto i Re normanni l'entrate del Fisco si riscuotevano per apprezzo; cioè per ogni dodici marche d'entrate si pagavano tre fiorini, e quest'esazione per licitazione soleva affittarsi a' Pubblicani; il che durò fin al tempo dell'Imperador Federico II. Questo Principe, acciocchè i poveri non fossero oppressi da' più ricchi e potenti, proibì l'esazione in questo modo; ed avendo nel 1218 nel castel dell'Uovo convocato un general Parlamento di tutt'i Baroni e Feudatari del Regno, con i Sindici delle città e Terre, stabilì, che per l'avvenire l'entrate regie si riscuotessero per collette, in guisa, che chi più possedesse roba, più pagasse; chi meno, meno, chi nulla, nulla. Furono imposte in cotal maniera le prime collette assai moderate; ma poco appresso, non bastando a sovvenire alle necessità del Regno, si venne alle seconde, e così di mano in mano insino alle seste collette chiamate pagamenti fiscali ordinarj, secondo ci testificano Andrea d'Isernia, Luca di Penna, Antonio Capece, e Fabio Giordano nella sua Cronaca.

Durò questo modo fino al tempo d'Alfonso, il quale, siccome fu detto, nel primo Parlamento, che convocò in Napoli nel 1442, stabilì, che in iscambio delle sei collette, si riscuotessero da ogni fuoco carlini diece. Nell'anno poi 1449 come si nota ne' Registri della regia Camera, resedendo Alfonso nella Torre del Greco, fece radunare un altro Parlamento, ed avendo proposto, che mantenendo egli grossi eserciti così terrestri come marittimi per custodire il Regno, non essendo l'entrate regie bastanti, era forzato quelle accrescere; onde avea pensato, che per beneficio universale fosse bene, che s'imponessero cinque altri carlini al fuoco, oltre a' diece, e che all'incontro e' promettea di dare a tutti i fuochi del Regno un tomolo di sale per ciascheduno: ciò che fu con consentimento di tutti stabilito.

Furono perciò nel Regno introdotte le numerazioni, e la prima cominciò dall'istesso Alfonso nell'anno 1447, la qual si trova intera nel grande Archivio. Le altre si fecero ne' tempi de' Re suoi successori, e la seconda fu fatta nel 1472, la terza nell'anno 1489, la quarta, che non fu compita, si fece nel 1508, la quinta nel 1522, la sesta nel 1532, la settima nel 1545, e l'ottava nel 1561, le quali si trovano, ancor che alcune non intere, nel grande Archivio. Seguirono da poi le altre, che si conservano presso i Razionali, cioè degli anni 1595, 1642, 1648 e 1699 ch'è l'ultima, che ora abbiamo. Oltre di questi pagamenti ordinari, che ad esempio d'Alfonso furon da' suoi successori da tempo in tempo sempre accresciuti, tiene il Re moltissimi altri fonti perenni, onde riscuote dalla città di Napoli, dalle province e Baroni grandissime entrate, delle quali il Mazzella tessè lungo catalogo; le quali, ora dopo un secolo che lo scrisse, sono cresciute in immenso; ma in gran parte dalla Corona distratte ed alienate, avendo gli Spagnuoli invogliati i Nazionali istessi a comprarsi le proprio catene, perchè non potessero mai disciorsene.

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