CAPITOLO VII.

Delle costituzioni de' Principi, onde formossi il Codice Teodosiano.

Non bastò a Teodosio d'aver in cotal guisa dato riparo alla cadente giurisprudenza, e d'averla in cotal modo restituita nell'Accademie: erano ancora pochi coloro, come dice l'istesso Teodosio, qui juris civilis scientia ditarentur, et soliditatem verae doctrinae receperint. L'immensa copia de' libri, la gran mole delle tante costituzioni imperiali fra se discordanti, tenevagli ancor'in una profonda oscurità e densa caligine. A toglier queste tenebre volse finalmente Teodosio l'animo suo, onde alla fabbrica d'un nuovo Codice tutto inteso, rifiutate le tante efimere costituzioni de' Principi dettate secondo l'occasion de' tempi, e le molte inutili e fra di lor contrarie, raccolse in un volume solamente quelle, che credè bastare a quanto mai potesse occorrere ne' Tribunali per la decisione delle cause.

Adunque nell'anno 438, come ben pruova l'avvedutissimo Gotofredo, non già nell'anno 435 come stimò Cironio, e credettero altri, ingannati dalla erronea soscrizione della Novella di Teodosio, fu tal Codice da questo Principe compilato e pubblicato: alla fabbrica del quale elesse otto insigni e nobili Giureconsulti, e come e' ci testifica, di conosciuta fede, di famosa dottrina, e tale in somma da potersi paragonare agli antichi. Il primo, che vi ebbe la maggior parte, fu Antioco, già Prefetto P. ed Ex-Console, di cui s'incontrano sovente presso a Marcellino, Suida, e Teodoreto onorate memorie. Fuvvi Massimino, vir Illustris, come lo chiama Teodosio istesso, Exquaestor nostri Palatii, eminens omni genere literarum. Fuvvi Martirio, vir Illustris, Comes, et Quaestor nostrae Clementiae fide interpres. Furonvi Speranzio, Apollodoro, e Teodoro, viri spectabiles, Comites sacri nostri Consistorii. Fuvvi Epigenio, vir spectabilis, Comes, et Magister memoriae; e per ultimo Procopio, vir spectabilis, Comes ex magistro libellorum, jure omnibus veteribus comparandi: tutti delle più sublimi dignità fregiati, e della dottrina legale espertissimi.

L'impiego a lor dato in quest'opera fu di raccoglier le costituzioni di molti Principi, che stavano nascose ed in tenebre sepolte, ed in un corpo unirle: quelle poi raccolte, emendarle, e dalle molte brutture ed errori purgarle: per ultimo colla maggior brevità in compendio raccorciarle.

Era senza alcun dubbio assai grande la selva delle costituzioni degli Imperadori cristiani, che da Costantino M. infine a questi tempi s'erano nell'uno, e nell'altro Imperio diffuse e sparse; onde non bisognò meno a questi Compilatori, che il numero di sedici libri, ne' quali ancorchè accorciate, potessero accorle ed unirle. Imperciocchè se si riguarda il tempo, che si framezza, non è meno di cento ventisei anni, cioè dagli anni di Costantino 312 infino a questo anno 438; se gl'Imperadori, le cui costituzioni in questo Codice si raccolsero, il lor numero non è minore di sedici: Costantino M: tre suoi figliuoli Costantino, Costanzo e Costante: Giuliano, Gioviano, Valentiniano, Valente, Graziano, Valentiniano il Giovane, Teodosio M., Arcadio, Onorio, Teodosio il Giovane, Costanzo e Valentiniano III; se le varie sorte delle costituzioni, in esso s'incontrano non pur gli editti, ma eziandio i varj rescritti, le molt'epistole a' Magistrati dirette: l'orazioni al Senato, le prammatiche, gli atti, ed i decreti fatti nel Concistoro de' Principi, e finalmente i molti lor mandati a' Rettori delle province, ed a gli altri Ufficiali indirizzati.

Non fu certamente tralasciata niuna parte della pubblica e privata ragione, che in questo Codice non si fosse trasferita, come è pur troppo manifesto dall'argomento de' suoi libri, e dal novero de' titoli. Delle costituzioni de' Principi appartenenti alla ragion privata, a' contratti, a' testamenti, alle stipulazioni, a' patti, all'eredità, e ad ogn'altro a questa attenente, se ne compilarono ben cinque libri. Per quel che s'attiene alla ragion pubblica, niente evvi che desiderare; qui si descrivono le funzioni di tutti i Magistrati, dassi la Notizia delle dignità, dassi la norma per le cose militari: dispongonsi gl'impieghi degli Ufficiali: si stabiliscono l'accusazioni criminali: si dichiarano le ragioni del Fisco: si dispongono le cose appartenenti all'annona, ed a' tributi: si dà providenza al Comune delle città, a' Professori, agli spettacoli, alle pubbliche opere, agli ornamenti, ed in somma si prende cura e pensiero di tutto ciò, che alla pubblica pace e tranquillità possa mai conferire. Nè si tralasciò la ragion Pontificia, anzi un intero libro si compilò di varie costituzioni a questa appartenenti, nelle quali varj negozj ecclesiastici, ed alla religione attinenti, si diffiniscono: in guisa che non v'è parte della ragion privata, pubblica, o divina, che in questo Codice non si racchiuda.

I nomi de' Principi, che le proferirono, il luogo, il tempo, le persone a cui furon indirizzate, perchè non s'invidiasse a' lor Autori la gloria, e s'evitasse ogni confusione e disordine, non furon soppressi, ma con ogni diligenza lasciati intatti.

Nondimeno l'opera non riuscì così esatta e compiuta, che in essa non s'osservino molti difetti ed errori lungo di lor catalogo ne tessè il diligentissimo Gotofredo, che non fa uopo qui rammemorargli; ma non dee passarsi sotto silenzio quello gravissimo, e non da condonarsi a Teodosio Principe cristiano, d'avervi anche in esso molte leggi empie, e alla sua religione in tutto opposte, inserite. Il proponimento suo fu delle costituzioni de' Principi cristiani solamente far raccolta, incominciando da quelle del G. Costantino: perciò Prospero Aquitanio chiamò questo Codice, libro nel quale le leggi de' Principi legittimi furon raccolte, Principi legittimi appellando egli i Principi cristiani, delle cui sole costituzioni era composto. In oltre il suo disegno, ed il fine in compilarlo fu, affinchè potesse servir nel Foro, e nelle cotidiane controversie allegarsi, e secondo le sue leggi, quelle terminarsi in tempo, che la religion cristiana erasi già fermamente nel suo soglio stabilita. Come dunque potrà condonarglisi d'avere ancor quivi mescolate molte costituzioni di Giuliano apostata, affatto contrarie a molte altre di Principi cristiani, ed oltre ciò, del titolo di Divo decorarlo? Come inserirvi quelle costituzioni, che a' suoi tempi avevan acquistata nota pur troppo chiara d'empietà e di superstizione, come la l. 1. de paganis di Costantino Magno, nella quale si permette l'uso pubblico dell'Aruspicina, e l'altra di Valentiniano il Vecchio, per la quale vien permessa la libertà di qualunque religione, ed approvato anche l'uso dell'Aruspicina? Leggi ancorchè tollerabili, quando da quelli Principi per dura necessità si proferirono, da non riferirsi però in un Codice, che all'uso di un'altra età dovea servire, ed in tempi, nei quali la religion cristiana avea già poste profonde radici ne' petti umani. Chi potrà soffrire in esso la l. 4, et 6. di Giuliano de Sepulchris violatis, le quali sono piene di superstizione, e di gentilesmo; chi la l. ult. di Valentiniano il Giovane collocata sotto il titolo de fide Catholica, per la quale confermandosi il Conciliabolo d'Arimini diedesi alla pestilente eresia d'Arrio maggior vigore e forza, che non le poteron dare gli Autori medesimi, ed i suoi maggiori fautori e parteggiani? Dovrebbe certamente l'animo suo essere stato rimosso da questo misfatto, per quello generoso insieme, e pietoso rifiuto di Benevolo, che ritrovandosi primo Cancelliere dell'Imperadrice Giustina, l'unica promotrice di quella legge, non volle in alcun modo segnarla, e contentossi anzi vivere privatamente nelle sue paterne case, che rimanersi pien di stima in Corte partecipe di opera sì indegna. Chi per ultimo le leggi da Arcadio promulgate apertamente contra i Cattolici, e contra Crisostomo, e suoi Joanniti?

Non così certamente si portaron i Compilatori del Codice di Giustiniano, i quali tutte queste costituzioni rifiutarono, come si dirà, quando dovrem favellare della compilazione di quello, seguita nel sesto secolo dell'umana Redenzione.

§. I. Dell'uso, e autorità di questo Codice

nell'Occidente, ed in queste nostre province.

Compilato adunque che fu in questo anno 438 il Codice di Teodosio, e per pubblica autorità promulgato, fu subito ricevuto, non meno per l'Oriente, che per l'Occidente. Nell'Oriente acquistò immantenente tutto il vigore, perchè Teodosio suo Autore, appena pubblicato, cacciò fuori una sua Novella diretta a Florenzio Prefetto P. dell'Oriente, che porta il titolo de Theodosiani Codicis auctoritate, per la quale vietò, che d'allora in poi a niuno fosse lecito nel Foro valersi delle costituzioni d'altri Principi, se non di coloro, che in questo Codice fossero inserite: incaricandogli ancora, che per mezzo di pubblici editti, a tutti i Popoli, ed a tutte le province facesse noto questo suo divieto, ed alla lor notizia portasse la promulgazione, ed autorità, ch'egli dava a questo Volume.

Nell'Occidente non fu minore la sua fortuna; ancorchè Teodosio, come quegli, a cui ubbidiva solamente l'Oriente, non potesse in queste parti occidentali dargli quell'autorità, che gli diede nel suo Imperio; nulladimeno, perchè prima con Valentiniano suo Collega n'aveva egli comunicato il consiglio, anzi di concerto avevan ogni lor opera a questo stesso fine indirizzata; non tantosto fu quello ricevuto nell'Oriente, che Valentiniano gli diede tutta l'autorità e forza nell'Occidente. Ancora avea prima questo Principe mandato a Teodosio, ed a coloro, che furon eletti alla fabbrica di questo Codice, suoi scrigni delle costituzioni promulgate in Occidente da' Principi suoi predecessori, che 'l dominarono, ed insieme con esse aveva raccolte ancora le costituzioni sue, che per tutto l'anno 425 aveva, risedendo ora in Aquileja, ora in Roma, e finalmente in Ravenna, ove trasferì la sua sede, promulgate; e fra queste, ancor quella sua famosa Orazione, che molto all'intento di Teodosio conferiva, per la quale a' disordini delle tante costituzioni, e de' libri de' Giureconsulti si dava riparo, la qual Orazione da Teodosio fu inserita in questo Codice, cioè quella parte solamente, in cui trattavasi de' libri de' Giureconsulti, riputando superflua l'altra per le costituzioni de' Principi; imperocchè egli sopra di ciò dava più esatta e minuta providenza in questo stesso suo Codice.

Per questa cagione Valentiniano gli diede nell'Occidente il medesimo vigore, che gli avea dato Teodosio nell'Oriente; e se bene non si legge sopra ciò alcuna speziale sua costituzione, non può nondimeno cadervi dubbio veruno: poichè anche dopo scorsi diece altri anni, ne' quali da Teodosio s'erano promulgate molt'altre sue Novelle, e che in un altro volume separato furon pubblicate, Valentiniano con espressa sua Novella , la qual è fra le Teodosiane, quelle parimente confermò, aggiungendovi questa ragione, ut sicut uterque Orbis individuis ordinationibus regitur, iisdem quoque legibus temperetur. Oltre che il rispetto e l'obbligazioni, che Valentiniano teneva con Teodosio eran pur troppo grandi, essendo da lui stato creato Augusto, e da poi fatto suo genero; ond'è, che Valentiniano il soleva chiamar padre, e Teodosio a lui, suo figliuolo; quindi è, che nell'istessa Novella, facendo menzione di questo Codice, come di già ricevuto nel suo Imperio, con questi segni di stima ne favelli: Gloriosissimus Principum Dominus Theodosius Clementiae meae pater leges a se post Codicem Numinis sui latas, nuper ad nos, sicut repetitis Constitutionibus caverat, prosequente sacra praeceptione direxit. Anzi fu tanta la venerazione, in cui Valentiniano ebbe questo Codice, che nelle sue Novelle, le quali da tempo in tempo infino all'anno 452 poco prima della sua morte promulgò, sovente in confermazione de' suoi editti, e per dar loro maggior autorità, valevasi delle leggi, che nel Codice di Teodosio eran inserite: così nella Novella 10 dell'anno 451, e nella Novella 12 de Episcopali judicio del 452, e nell'altra sotto il tit. de honoratis etc. 45 si vede essersi servito delle leggi d'Onorio, d'Arcadio, e di Graziano, che in questo Codice furono da Teodosio inserite.

Ma quel che parrà strano, assai più fortunati successi ebbe questo Codice nell'Occidente, che nell'Oriente: poichè nelle parti orientali la sua durata non s'estese più, che a novant'anni, cioè fin a' tempi di Giustiniano, il quale facendosi Autore d'un nuovo Codice, quello estinse e cancellò; ma nell'Occidente ebbe eziandio presso a quelle nazioni, che barbare si dicevan, assai miglior fortuna; poichè presso agli Ostrogoti in Italia, a' Vestrogoti nelle Gallie e nelle Spagne, e presso a' Borgogni, Franzesi e Longobardi, fu in tanta stima ed onore avuto, che conforme alle leggi, che in quello si contenevano, a lor piacque di reggere non pure i Popoli, che soggiogavano, ma loro medesimi ancora, siccome nel progresso di quest'Istoria ne' seguenti libri più partitamente dirassi. E per ultimo ne' nostri tempi, e de' nostri avoli meritò questo Codice, che per la sua sposizione e rischiaramento s'impiegassero le fatiche de più valorosi e sublimi ingegni, che fiorissero ne' due ultimi secoli, quando risorto dalle lunghe tenebre, nelle quali era giaciuto, per opera di Giovanni Sicardo, che al sentir di Doujat fu il primo, che lo cavò fuori alla luce del mondo in Basilea, ancorchè assai tronco e mutilato; ridotto poi in miglior forma nell'anno 1540 in Parigi da Giovanni Tillio (quegli che da Protonotario della Corte del Parlamento di Parigi, e ch'ebbe parte nella fabbrica del processo della cotanto famosa causa del Principe di Condè, fu da poi creato Vescovo di Meaux) meritò che intorno a tant'opera impiegasse la sua dottrina e diligenza eziandio l'incomparabile Cujacio; ed alla fine, che con perpetui, e non mai abbastanza lodati commentarj, ricolmi della più fina ed elevata erudizione, ponesse tutto se stesso, e tutto il suo sapere ed accuratezza il diligentissimo Giacopo Gotofredo, il quale morto al piacere dell'immortal suo nome, dopo le sue cotanto lunghe ed ostinate fatiche, non potè aver la fortuna di sopravvivere a questa sua impareggiabil opera, e degna d'immortale ed eterna memoria.

Ecco quali furono le vicende della giurisprudenza romana da' tempi di Costantino M. insino all'Imperio di Teodosio il Giovane, e di Valentiniano III suo collega: ecco con quali leggi essi governarono l'uno e l'altro Imperio. I volumi, che giravan intorno, onde dovean prendersi ed allegarsi le leggi per le controversie del Foro, ed insegnarsi nell'Accademie, furono: de' Giureconsulti, i libri di Papiniano, Paolo, Cajo, Ulpiano, e Modestino tenevano il primo luogo: i trattati di Scevola, Sabino, Giuliano, Marcello, e degli altri Giureconsulti celebrati da' sopraddetti cinque nei loro scritti, avevan parimente tutta l'autorità e forza. Le note di Paolo, e di Ulpiano fatte al Corpo di Papiniano furon in questi tempi da Valentiniano rifiutate, ancorchè da poi da Giustiniano ricevute ed ammesse; ma le sentenze di Paolo sopra ogni altro furono stimate, e di somma autorità e vigore riputate.

Delle costituzioni de' Principi: i due Codici, Gregoriano ed Ermogeniano, ne' quali le leggi de' Principi Gentili da Adriano sin a Diocleziano furon raccolte, facevan in questi tempi piena autorità, ancorchè per privato studio, senza commission pubblica, da que' due G. C. fossero stati compilati: le costituzioni de' Principi quivi raccolte, s'allegavano con piena fiducia nel Foro, e nelle consultazioni: d'esse si servì, come s'è veduto nel primo libro, S. Agostino, allegando una costituzione d'Antonino registrata nel Codice Gregoriano: se ne valse l'Autor della collazione delle leggi mosaiche colle romane, che secondo Gotofredo fiorì nel decorso del sesto secolo ne' tempi di Cassiodoro; l'adoperò ancora l'Autor di quell'antica consultazione, ch'oggi fra quelle di Cujacio leggiamo: e ne' seguenti tempi anche Triboniano; e del loro Compendio, Papiano, ed altri Scrittori de' tempi più bassi. E per ultimo era tenuto nel maggior vigore ed autorità il Codice di Teodosio, colle Novelle recentemente da questo Principe, e da Valentiniano suo collega promulgate.

Questi adunque furon i libri, ne' quali in questa età contenevasi tutta la ragion civile de' Romani; dai quali ne' Tribunali, e nelle Accademie, presso a' Professori, e Causidici, e presso a' Magistrati, e Giudici si prendevan le norme del giudicare, dello scrivere, e dell'insegnare. Insino a tali tempi non s'udiron leggi straniere in queste province, che oggi formano il nostro Regno. Il venerando nome solamente della legge romana era inteso e riverito, e conforme a' suoi dettami furon quelle rette ed amministrate, fin che non furon nuovamente infestate da quelle medesime Nazioni, che già in questi tempi stessi aveanle cominciate a perturbare, le quali ancorchè non osassero di fare alle romane leggi alcun oltraggio, anzi dassero a quelle fra loro onorato luogo, non poteron però fra tanti ravvolgimenti di cose rimaner così intere e salde, che non restassero contaminate, ed in maggior declinazione, appresso non si vedessero, come si mostrerà ne' seguenti libri di quest'Istoria.

CAPITOLO VIII.

Dell'esterior politia ecclesiastica, da' tempi dell'Imperador Costantino M. infino a Valentiniano III.

Dopo aver Costantino M. abbracciata la religione cristiana, e posta in riposo la Chiesa, si vide quella in un maggiore esterior splendore ed in una più ampia e nobile Gerarchia. I Vescovi, che in que' tre primi secoli, in mezzo alle persecuzioni, nelle città dell'Imperio governavano le Chiese, ora che pubblicamente da tutti poteva professarsi questa religione, e che cominciavan ad ergersi tempj ed altari per mantenere il culto di quella, si videro, secondo la maggioranza delle città, nelle quali reggevan le Chiese, in varj e diversi gradi disposti, ed in maggior eminenza costituiti. Cominciarono perciò a sentirsi i nomi di Metropolitani, di Primati, d'Esarchi, ovvero Patriarchi, corrispondenti a quelli de' Magistrati secolari, secondo la maggiore o minor estensione delle province, ch'essi governavano.

Pietro di Marca Arcivescovo di Parigi, Cristiano Lupo Dottor di Lovanio, Emanuello Schelstrate Teologo d'Anversa, Lione Allacci, ed altri, con ben grandi apparati sforzaronsi di sostenere, che così la dignità di Metropolitano, come la Patriarcale, dagli Apostoli riconoscessero il lor principio, e che da essi fossero state instituite. Ma Lodovico Ellies Dupin insigne Teologo di Parigi ben a lungo riprova il lor errore, e confutando gli argomenti recati dall'Arcivescovo di Parigi, dimostra con assai forti e chiare pruove, che nè da Cristo, nè da gli Apostoli tali dignità fossero state instituite: ma che in questi tempi, data che fu la pace da Costantino alla Chiesa, cominciaron ad instituirsi, e che secondando la disposizione delle province dell'Imperio, e le condizioni delle città metropoli di ciascheduna di quelle, fosse stata introdotta nella Chiesa questa politia e questa nuova Gerarchia.

E la maniera colla quale ciò si facesse, fu cotanto naturale e propria, che sarebbe stata maraviglia, se altrimenti fosse avvenuto. Già dalla descrizione delle province dell'Imperio fatta sotto Costantino s'è ravvisato, che le diocesi, componendosi di più province, avean alcune città primarie, ovvero metropoli, dalle quali l'altre della medesima provincia dipendevano: a queste si riportavan tutti i giudicj dell'altre città minori: a queste per li negozj civili, e per gli altri affari, come suole avvenire, tutti i provinciali ricorrevano. La Chiesa, essendo stata fondata nell'Imperio, come dice Ottato Milevitano, non già l'Imperio nella Chiesa, prese per ciò, data che le fu pace, nelle cose ecclesiastiche l'istessa politia, adattandosi a quella medesima disposizione delle province, ed alle condizioni delle città che ritrovò. Così quando dovea ordinarsi o deporsi qualche Vescovo, quando nelle Chiese occorreva qualche divisione, o disordine, quando dovea deliberarsi sopra qualche affare, ch'era comune a tutte l'altre chiese della provincia, non essendovi gli Apostoli a' quali prima per queste cose solea aversi ricorso, era mestiere, che si ricorresse al Vescovo della città metropoli, e Capo della provincia. Ed in cotal guisa cominciò prima per consuetudine tratto tratto ad introdursi questa politia; onde la distribuzione delle Chiese si fece secondo la forma dell'Imperio, e le città metropoli dell'Imperio divennero anche metropoli della Chiesa, ed i Vescovi, che vi presedevano, acquistarono sopra l'intere province la potestà, così d'ordinare, o deporre i Vescovi delle città soggette, e di comporre le loro discordie, come anche di raunare i Sinodi, e sopra altre bisogne; ma questa potestà non era assoluta, poichè senza il consiglio de' Vescovi della stessa provincia niente potevan fare; questa consuetudine fu nel quarto secolo, e ne' seguenti ancora per molti canoni in alcuni Concilj stabiliti, confermata; onde tutta la Chiesa al modo della civil politia fu disposta e distribuita.

Questa distribuzione e Gerarchia della Chiesa, conforme alla politia dell'Imperio apparirà più chiara e distinta, se avremo innanzi agli occhi quella disposizione delle diocesi, e delle province, che in questo libro abbiam descritta sotto l'Imperio di Costantino: quivi si vide l'Imperio diviso in quattro parti, al governo delle quali altrettanti moderatori destinati. L'Oriente, l'Illirico, le Gallie e l'Italia.

(Questa istessa disposizione delle diocesi, e province dell'Imperio, alla quale si conformò la divisione delle province della Chiesa, viene parimente descritta da Binghamo).

Oriente.

Fu l'Oriente diviso in cinque diocesi, ciascuna delle quali abbracciava più province, Oriente, Egitto, Asia, Ponto, e Tracia.

La diocesi d'Oriente ebbe per sua città primaria, Capo di tutte l'altre, Antiochia nella Siria, ond'era ben proprio, che questa città anche nella politia ecclesiastica innalzasse il capo sopra tutte l'altre, e che il Vescovo, che reggeva quella Cattedra, s'innalzasse parimente sopra tutti gli altri Vescovi delle Chiese di tutte quelle province, delle quali questa diocesi si componeva. Si aggiugneva ancora l'altra prerogativa d'avere in Antiochia il Capo degli Apostoli S. Pietro fondata la Chiesa, e predicatovi il primo l'Evangelo; ancorchè poi gli fosse piaciuto di trasferir la sua cattedra in Roma.

Le province che componevano la diocesi d'Oriente, prima non eran più che dieci, la Palestina, la Siria, la Fenicia, l'Arabia, la Cilicia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro; ma da poi crebbe il lor numero insin a' quindici; imperocchè la Palestina fu partita in tre province, la Siria in due, la Cilicia in due, e la Fenicia parimente in due. Ecco come ora ravviseremo in ciascuna di queste province i loro Metropolitani, secondo la politia dell'Imperio.

La Palestina, prima che fosse divisa, non riconosceva altra città sua metropoli, che Cesarea; onde il suo Vescovo acquistò le ragioni di Metropolitano sopra i Vescovi dell'altre città minori: ed essendo poi stata divisa in più province, ebbe in una per metropoli la città di Scitopoli, e nell'altra quella di Gerusalemme; ma non perchè d'una provincia ne fossero fatte tre, venne, per questa nuova divisione ed accrescimento di due altre metropoli, a derogarsi le ragioni di Metropolitano al Vescovo di Cesarea, ma rimasero come già eran i Vescovi di Scitopoli, e di Gerusalemme suffraganei al Metropolitano di Cesarea: e quando celebrossi il gran Concilio di Nicea, ancorchè a Gerusalemme città Santa molti onori e prerogative fossero state concedute, in niente però vollero quei Padri, che si recasse pregiudizio al Metropolitano di Cesarea, Metropoli propria dignitate servata, dice il settimo canone di quel Concilio; e non per altra ragione, se non perchè, essendo una la provincia della Palestina, e Cesarea antica sua Metropoli, trovandosi acquistate già tutte le ragioni di Metropolitano da quel Vescovo, non era di dovere, che per quella nuova divisione venisse a perderle, o a scemarsele. Nè se non molto tempo da poi, la chiesa di Gerusalemme fu decorata della dignità Patriarcale, come più innanzi vedremo.

L'altra provincia di questa diocesi fu la Siria, ch'ebbe per metropoli Antiochia, Capo ancora di tutta la diocese; ma poi divisa in due, oltre ad Antiochia, riconobbe l'altra, che fu Apamea.

La Cilicia, che parimente fu in due province divisa, riconobbe ancora due metropoli, Tarso, ed Anazarbo.

La Fenicia, divisa che fu in due province, riconobbe anche due Metropoli, Tiro e Damasco. Eravi ancora nella Fenicia la città di Berito, celebre al Mondo, come s'è veduto nel primo libro, per la famosa Accademia ivi eretta. Ne' tempi di Teodosio il Giovane, Eustazio Vescovo di questa città ottenne da quel Principe rescritto, col quale Berito fu innalzata a Metropoli: per la qual cosa Eustazio in un Concilio, che di que' tempi si tenne in Costantinopoli, domandò, ch'essendo la sua città stata fatta metropoli, si dovesse in conseguenza far nuova divisione delle Chiese di quella provincia, ed alcune di esse, che prima s'appartenevan al Metropolitano di Tiro, dovessero alla sua nuova metropoli sottoporsi. Fozio, che si trovava allora Vescovo di Tiro, scorgendo l'inclinazion di Teodosio, bisognò per dura necessità, che approvasse la divisione. Ma morto l'Imperador Teodosio, e succeduto nell'Imperio d'Oriente Marciano, portò il Vescovo Fozio le sue doglianze al nuovo Imperadore del torto fattogli, chiedendo, che alla sua città antica metropoli si restituissero quelle Chiese, che l'erano state tolte. Fece Marciano nel Concilio di Calcedonia riveder la Causa, e parve a que' Padri, che tal affare non secondo la nuova disposizione di Teodosio, e secondo le novelle costituzioni de' Principi dovesse regolarsi, ma a tenor de' canoni antichi: e lettosi nell'Assemblea il canone del Concilio Niceno, col quale si stabiliva, che in ciascheduna provincia un solo fosse il Metropolitano, fu determinato a favor del Vescovo di Tiro, e restituite alla Cattedra tutte le Chiese di questa provincia: poichè secondo l'antica disposizione delle province della diocesi d'Oriente, la Fenicia era una provincia, ed un solo Metropolitano riconobbe.

Così quando i Vescovi volevan intraprendere sopra le ragioni del loro Metropolitano, solevan ricorrere agl'Imperadori, ed ottener divisione della provincia, e che la lor città s'innalzasse a metropoli, affinchè potessero appropriarsi le ragioni di Metropolitano sopra quelle Chiese, che toglievansi al più antico. In fatti l'Imperador Valente in odio di Basilio divise la Cappadocia in due parti, e così facendosi nell'altre province, seguì ancora la divisione delle province della Chiesa, come testimonia Nazario; perocchè ne' tempi, che seguirono, non fu ritenuto il rigore del Concilio Niceno, il quale, possiam dire, nella sola causa di Fozio Vescovo di Tiro essere stat'osservato, giacchè da poi secondo eran le città dagl'Imperadori innalzate a metropoli, e divise le province, si mutava per ordinario anche la politia ecclesiastica; anzi dallo stesso Concilio Calcedonense fu anche ciò permesso, per quelle parole del can. 17. Sin autem etiam aliqua Civitas ab Imperatoria auctoritate innovata fuerit, civiles, et publicas formas, ecclesiasticarum quoque Parochiarum ordo consequatur. Quindi poi nacque, che mutandosi la disposizione e politia dell'Imperio, si videro anche tante mutazioni nello Stato ecclesiastico, siccome si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

In cotal guisa l'altre province ancora di questa diocesi d'Oriente, come l'Arabia, l'Isauria, la Mesopotamia, Osdroena, Eufrate e Cipro, secondo la disposizione e politia dell'Imperio riconobbero i loro Metropolitani, i quali furon così chiamati, perchè presedevan nelle Chiese delle città principali delle province, e per conseguenza godevano d'alcune ragioni e prerogative, che non aveano gli altri Vescovi preposti all'altre Chiese delle città minori della provincia. Così essi ordinavan i Vescovi eletti dalle Chiese della provincia; convocavan i Concilj provinciali, ed aveano la soprantendenza e la cura, perchè nella provincia la fede, e la disciplina si serbasse, ch'erano le ragioni, e privilegj de' Metropolitani, per li quali si distingueano sopra i Vescovi: ed in cotal maniera, dopo il Concilio Niceno, intesero il nome di Metropolitano tutti gli altri Concilj, che da poi seguirono, e gli altri Scrittori ecclesiastici del quarto, e quinto secolo.

Egli è ancor vero, che vi furon alcuni Vescovi, ch'ebbero solamente il nome di Metropolitano, e per sol onore furono così chiamati, non già perchè ritenessero alcuna di quelle ragioni e prerogative: così il Vescovo di Nicea solamente per onore ottenne il nome di Metropolitano, con esser anteposto a tutti gli altri Vescovi di quella provincia; ma non già restò esente dal Metropolitano di Nicomedia, di cui era suffraganeo: così anche furon i Vescovi di Calcedonia, e di Berito. E secondo questo instituto negli ultimi nostri tempi pur veggiamo nel nostro Regno molti Vescovi come quelli di Nazaret, di Lanciano, e di Rossano, ed in Sardegna il Vescovo Arborense, o sia d'Oristagni, i quali per onore godono il titolo di Metropolitano, ancorchè non avessero provincia, o Vescovo alcuno per suffraganeo.

Il nome d'Arcivescovo non è di potestà, come il Metropolitano, ma solo di dignità: e prima non soleva darsi, se non a' primi, e più insigni Vescovi, ed anche molto di rado. Ne' tre primi secoli non s'intese, nè si legge mai tal nome: cominciò nel quarto secolo a sentirsi, prima presso ad Atanasio, e da poi in alcuni altri Scrittori, ma di rado. Nel quinto secolo fu più usitato, e cominciò a darsi a' Vescovi di Roma, a quelli d'Antiochia, d'Alessandria, di Costantinopoli, di Gerusalemme, d'Efeso, e di Tessalonica. Nel sesto diedesi anche a quel di Tiro, d'Apamea, e ad alcuni altri: San Gregorio Magno diede da poi questo nome a' Vescovi di Corinto, di Cagliari, e di Ravenna: e ne' seguenti tempi del secolo ottavo fu dato a questi, e ad altri insigni Metropolitani, come di Nicopoli, di Salona, d'Acquileja, di Cartagine, e d'altre città. Ma negli ultimi tempi, e ne' secoli men a noi lontani questo nome promiscuamente se l'attribuirono tutti i Metropolitani anzi sovente fu dato a' semplici Vescovi, che non erano Metropolitani; donde avvenne, che presso a' Greci degli ultimi tempi fossero più gli Arcivescovi che i Metropolitani, perchè fu facile a' semplici Vescovi d'attribuirsi questo spezioso nome, ma non così facile di sottoporsi le Chiese altrui. E per questa cagione si veggon ancora nel nostro regno molti Arcivescovi senza suffraganei: di che più ampiamente tratterassi, quando della politia ecclesiastica di questi ultimi tempi ci toccherà ragionare.

Ecco come nelle province della diocesi d'Oriente ravvisiamo i Metropolitani secondo la disposizione delle città metropoli dell'Imperio. Ecco ancora come in questa diocesi ravviseremo il suo Esarca, ovvero Patriarca, che fu il Vescovo d'Antiochia, come quegli, che presedendo in questa città, Capo della intera diocesi, presedeva ancora sopra tutti i Metropolitani di quelle province, delle quali questa diocesi era composta, e di cui erano le ragioni, e privilegj patriarcali, cioè d'ordinare i Metropolitani, convocare i Sinodi diocesani, ed aver la soprantendenza e la cura, che la fede e la disciplina si serbasse nell'intera diocesi. Prima questi erano propriamente detti Esarchi, perchè alle principali città delle diocesi erano preposti, e più province sotto di essi avevano: onde nei canoni del Concilio di Calcedonia in cotal guisa, e per questa divisione di province, e di diocesi, si distinguevano gli Esarchi da' Metropolitani: così Filalete Vescovo di Cesarea, e Teodoro Vescovo d'Efeso furon chiamati Esarchi, perchè il primo avea sotto di se la diocesi di Ponto, ed il secondo quella dell'Asia. Egli è però vero, che alcune volte questo nome fu dato anche a' semplici Metropolitani: ed i Greci negli ultimi tempi lo diedero profusamente a più Metropolitani, come a quel d'Amira, di Sardica, di Nicomedia, di Nicea, di Calcedonia, di Larissa, ed altri. Nulladimeno la propria significazion di questa voce Esarca non denotava altro, che un Vescovo, il quale a tutta la diocesi presedeva, siccome il Metropolitano alla provincia. Alcuni di questi Esarchi furon detti anche Patriarchi, il qual nome in Oriente, in decorso di tempo, a soli cinque si restrinse, fra i quali fu l'Antiocheno.

I confini dell'Esarcato d'Antiochia non s'estesero oltre a' confini della diocesi d'Oriente, poichè l'altre province convicine essendo dentro i confini dell'altre diocesi, appartenevano a gli altri Esarchi. Così la diocesi d'Egitto, come quinci a poco vedrassi, era all'Esarca d'Alessandria sottoposta, e l'altre tre diocesi d'Oriente, come l'Asiana, la Pontica, e la Tracia, erano fuori del suo Esarcato; anzi nel Concilio costantinopolitano espressamente la cura di queste tre diocesi a' propri Vescovi si commette. Nè quando il Vescovo di Costantinopoli invase queste tre diocesi, ed al suo Patriarcato le sottopose, come diremo più innanzi, si legge, che il Vescovo d'Antiochia glie l'avesse contrastato, come a lui appartenenti.

La seconda diocesi, ch'era sotto la disposizione del Prefetto Pretorio d'Oriente, fu l'Egitto. La città principale di questa diocesi fu la cotanto famosa e rinomata Alessandria: quindi il suo Vescovo sopra tutti gli altri alzò il capo, e la sua Chiesa, dopo quella di Roma, tenne il primo luogo: s'aggiungea ancora un'altra prerogativa, che in questa Cattedra vi sedè S. Marco Evangelista primo suo Vescovo.

Fu questa diocesi prima divisa in tre sole province, l'Egitto strettamente preso, la Libia e Pentapoli, e quindi è che nel sesto canone del Concilio Niceno si legga: Antiqua consuetudo servetur per Aegyptum, Lybiam, et Pentapolim, ita ut Alexandrinus Episcopus horum omnium habeat potestatem. La Libia fu da poi divisa in due province, la superiore e l'inferiore: s'aggiunse l'Arcadia, la Tebaide e l'Augustamnica: e finalmente, la diocesi d'Egitto si vide divisa in dieci province, ed altrettante città metropoli sursero, onde dieci Metropolitani furon a proporzione del numero delle province indi accresciuti. Questi al Vescovo d'Alessandria, come loro Esarca, e Capo della Diocesi erano sottoposti, sopra i quali esercitò tutte le ragioni, e privilegi esarcali. I confini del suo Esarcato non si distendevano oltre alla diocesi d'Egitto, che abbracciava queste dieci province. Nè s'impacciò mai dell'Affrica occidentale, come ben pruova l'accuratissimo Dupino, onde furon in gravissimo errore coloro, che stimarono tutta l'Affrica, come terza parte del Mondo, al Patriarcato d'Alessandria essere stata sottoposta. Anche questo Esarca, come quello d'Antiochia, acquistò da poi il nome di Patriarca, e fu uno de' cinque più rinomati nel quinto, e sesto secolo, come diremo più innanzi.

La terza diocesi disposta sotto il Prefetto P. d'Oriente fu l'Asia, nella quale, una provincia, detta ristrettamente Asia, fu Proconsolare; e metropoli di questa provincia, ed insieme Capo dell'intera diocesi fu la città d'Efeso. L'altre province, come Panfilia, Elesponto, Lidia, Pisidia, Licaonia, Licia, Caria, e la Frigia, che in due fu divisa, Pacaziana, e Salutare, erano al Vicario dell'Asia sottoposte, e ciascuna ebbe il suo Metropolitano: oltre ciò era un Metropolitano nell'isola di Rodi, ed un altro in quella di Lesbo.

La diocesi asiana divenne una delle Autocefale, come quella che nè al Patriarca d'Alessandria, nè a quello d'Antiochia fu giammai sottoposta. Riconosceva, solamente il Vescovo d'Efeso per suo Primate, come colui, che nella città principale di tutta la diocesi era preposto; per questa ragione Teodoro Vescovo d'Efeso fu detto Esarca, siccome furon appellati tutti gli altri, che ressero quella Chiesa; poichè la lor potestà si distendeva non pure in una sola provincia, ma in tutta la diocesi asiana. Ma non poterono questi Esarchi conseguire il nome di Patriarca; perchè tratto tratto quello di Costantinopoli non pur restrinse la loro potestà, ma da poi sottopose al suo Patriarcato tutta intera questa diocesi.

La quarta fu la diocesi di Ponto, la cui città principale era Cesarea in Cappadocia. Prima questa diocesi si componeva di sei sole province, che furono Cappadocia, Galazia, Armenia, Ponto, Paflagonia, e Bitinia; tutte queste da poi, toltone Bitinia, furon divise in due, onde di sei, che prima erano, si vide il lor numero multiplicato in undici, che altrettanti Metropolitani conobbero. In questa diocesi era la città di Nicea, che nel civile, e nell'ecclesiastico ebbe la prerogativa d'essere dagl'Imperadori Valentiniano e Valente innalzata in metropoli. S'oppose a tal innalzamento il Vescovo di Nicomedia, ch'era la città Metropoli di quella provincia, pretendendo, che ciò non dovesse cagionar detrimento alcuno alle ragioni, e privilegi della sua Chiesa metropolitana; ma perchè Valentiniano e Valente avevan bensì conceduta a Nicea quella prerogativa, ma non già, che perciò intendessero togliere le ragioni altrui; per ciò furon al Metropolitano di Nicomedia conservati i privilegi della sua Chiesa, e che quella di Nicea potesse ritener solamente l'onore ed il nome, ma non già le ragioni e privilegi di Metropolitano. Sopra tutti questi Metropolitani presedeva il Vescovo di Cesarea, ch'era la città principale di questa diocesi. Per questa ragione fu anch'egli appellato Esarca, come quelli d'Antiochia, d'Alessandria, e d'Efeso: ma non già come quei due primi potè acquistar l'onore di Patriarca, poichè la sua diocesi fu da poi non altrimenti, che l'Asiana sottoposta al Patriarcato di Costantinopoli.

La quinta ed ultima diocesi, che ubbidiva al Prefetto P. d'Oriente, fu la Tracia, Capo della quale era Eraclea. Si componeva di sei province, Europa, Tracia, Rodope, Emimonto, Mesia e Scizia; e ciascuna riconobbe il suo Metropolitano: ma da poi in questa diocesi si videro delle molte e strane mutazioni, così nello stato civile, che ecclesiastico. Prima per suo Esarca riconosceva il Vescovo d'Eraclea, come Capo della Diocesi, il quale avea per suffraganeo il Vescovo di Bizanzio; ma in appresso, che a Costantino piacque ingrandir cotanto questa città, che fattala Capo d'un altro Imperio, volle anche dal suo nome chiamarla, non più Bizanzio, ma Costantinopoli, il Vescovo di questa città innalzossi, secondando la politia dell'Imperio, sopra tutti gli altri, e non solamente non fu contento delle ragioni di Metropolitano, ovvero di Esarca, con sopprimer quello d'Eraclea; ma decorato anche dell'onore di Patriarca, pretese poscia stender la sua autorità oltre a' confini del suo Patriarcato, ed invadere ancora le province del Patriarcato di Roma, come più innanzi dirassi.

Ecco in breve, qual fosse in questi tempi, che a Costantino seguirono, la politia dello Stato ecclesiastico nella Prefettura d'Oriente, tutta conforme e adattata a quella dell'Imperio.

ILLIRICO.

Non disuguale potrà ravvisarsi l'ecclesiastica politia in quelle diocesi, che al Prefetto P. dell'Illirico ubbidirono, cioè nella Macedonia, e nella Dacia. La diocesi di Macedonia, che abbracciava sei province, cioè Acaja, Macedonia, Creta, Tessaglia, Epiro vecchio, ed Epiro nuovo, ebbe ancora la città sua principale, che fu Tessaglia, dalla quale il suo Vescovo, come Capo della diocesi, reggeva l'altre province, e sopra i Metropolitani di quella esercitava le sue ragioni esarcali. La diocesi della Dacia di cinque province era composta, della Dacia Mediterranea, e Ripense, Mesia prima, Dardania, e parte della Macedonia Salutare. Ci tornerà occasione della politia di queste diocesi più opportunamente favellare, quando del Patriarcato di Roma tratteremo; e potendo fin qui bastare ciò, che della politia dello Stato ecclesiastico d'Oriente fin'ora s'è narrato per la conformità, ch'ebbe con quella dell'Imperio, passeremo in Occidente, per potere fermarci in Italia, e più da presso in queste nostre province ravvisarla, per conoscere ciò che di nuovo ne recasse, e qual mutazione portasse al loro Stato politico, e temporale.

GALLIE.

Ma prima bisogna notare ciò, che da' valenti investigatori delle cose ecclesiastiche fu osservato, che più esattamente corrispose la politia della Chiesa a quella dell'Imperio in Oriente, e nell'Illirico, che in Occidente, ed in queste nostre province. Nell'Oriente appena potrà notarsi qualche diversità di piccol momento; ma nell'Occidente se n'osservano molte. Nelle Gallie se ne veggon delle considerabili: nell'Italia pur alcune se ne ravvisano: ma molto più nell'Affrica occidentale, ove le metropoli ecclesiastiche non corrispondono per niente alle civili.

Le Gallie, secondo la descrizione di sopra recata, che a quel Prefetto ubbidivano, eran divise in tre diocesi: la Gallia, che abbracciava diciassette province, la Spagna, che si componeva di sette, e la Brettagna di cinque.

La Gallia non v'è alcun dubbio, che prima tenesse disposte le sue Chiese, secondo la disposizione delle province, che componevano la sua diocesi, in maniera che ciascuna metropoli ecclesiastica aveva corrispondenza colla civile; ed in questi primi tempi non riconobbe la Gallia niun Primate, ovvero Esarca, siccome le diocesi d'Oriente, ma i Vescovi co' loro Metropolitani reggevano in comune la Chiesa gallicana. E la cagion era, perchè nella Gallia non vi fu una città cotanto principale ed eminente sopra tutte altre, sì che da quella dovessero tutte dipendere, siccome nell'altre parti del Mondo. Ma da poi si videro molte di quelle città in contesa per le ragioni di Primate. Nella provincia di Narbona fuvvi gran contrasto fra i Vescovi di Vienna, e l'Arclatense, di cui ben a lungo tratta Dupino. Nell'Aquitania ne' tempi posteriori altra contesa s'accese fra i Vescovi Bituricense, e Burdegalense, che potrà vedersi appresso Alteserra. In quest'ultimi tempi nell'Occidente quei Vescovi, i quali di qualche principalissima città erano Metropolitani, s'arrogaron molte altre prerogative sopra gli altri Metropolitani, e si dissero Primati, ancorchè prima questo titolo s'attribuiva indifferentemente a tutti i Metropolitani: così nella Francia il Metropolitano di Lione appellasi Primate, e ritiene assai più prerogative, che non gli altri Metropolitani.

La Spagna riconobbe in questi primi tempi qualche politia ecclesiastica, conforme a quella dell'Imperio, ma da poi mutandosi il suo governo politico, fu tutta mutata, e secondo che una città, o per la residenza de' Principi, o per altra cagione s'innalzava sopra l'altre di più province, così il Vescovo di quella Chiesa, non contento delle ragioni di Metropolitano, s'arrogava molte prerogative sopra gli altri, e Primate diceasi: così oggi la Spagna ha per suo Primate l'Arcivescovo di Toledo, come la Francia quello di Lione.

La Brettagna, ancorchè prima riconoscesse qualche politia ecclesiastica, conforme alla civile dell'Imperio, nulladimeno occupata che fu poi da' Sassoni, perdè affatto ogni disposizione, nè in essa si ritenne alcun vestigio dell'antica politia, così nello stato civile, come nell'ecclesiastico.

ITALIA.

Abbiam riserbato in questo ultimo luogo la Prefettura d'Italia, poichè in quella secondo il nostro istituto dovremo fermarci, per conoscere più minutamente la politia ecclesiastica delle nostre province in questi tempi.

Sotto il Prefetto d'Italia, come s'è veduto, erano tre diocesi, l'Illirico, l'Affrica, e l'Italia: delle due prime non accade qui favellare; ma dell'Italia, nella quale veggiamo instituito il più celebre Patriarcato del Mondo, è di mestieri, che un poco più diffusamente si ragioni: ciò che anche dovrà riputarsi uno de' maggiori pregi di questa diocesi, che quando gli altri Patriarcati, e quell'istesso di Costantinopoli, che attentò di usurpar eziandio le costui ragioni, sono già tutti a terra, il solo Patriarca di Roma sia in piedi; ed unendosi anche nella sua persona le prerogative di Primo, e di Capo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico, e sopra quanti Patriarchi vi furon giammai, meritamente può vantarsi la nostra Italia, e Roma, esser ella la principal sede della religione, siccome un tempo fu dell'Imperio.

Al Prefetto d'Italia, come sè detto, due Vicariati erano sottoposti: il Vicariato di Roma, e quello d'Italia. Nel Vicariato di Roma erano poste dieci province. Tutte le quattro nostre province; onde ora si compone il Regno, cioè la Campagna: la Puglia e Calabria: la Lucania e Bruzj: ed il Sannio, appartenevano al Vicariato di quella città. Vi andavan ancora comprese l'Etruria e l'Umbria: il Piceno Suburbicario: la Sicilia: la Sardegna: la Corsica e la Valeria.

Sotto il Vicariato d'Italia, il cui Capo fu la città di Milano, erano sette province: la Liguria: l'Emilia: la Flaminia, ovvero il Piceno Annonario: Venezia, a cui da poi fu aggiunta l'Istria: l'Alpi Cozzie, e l'una e l'altra Rezia.

Questa divisione d'Italia in due Vicariati portò in conseguenza, che la politia ecclesiastica d'Italia non corrispondesse a quella d'Oriente; poichè non ogni provincia d'Italia, siccome avea la città metropoli, ebbe il suo Metropolitano, come in Oriente, ma le città, come prima, ritennero i semplici Vescovi; e questi non ad alcun Metropolitano, ma o al Vescovo di Roma, o a quello di Milano erano suffraganei: quegli del Vicario di Roma al Vescovo di quella città, gli altri del Vicariato d'Italia al Vescovo di Milano.

Le province, che al Vicariato della città di Roma s'appartenevano, come ben pruova il Sirmondo, per questo stesso s'appellarono suburbicarie: onde le Chiese suburbicarie eran quelle, che nel Vicariato di Roma eran comprese. G. Gotofredo, e Cl. Salmasio sono d'altro sentimento: essi, restringono in troppo angusti confini le province e le Chiese suburbicarie, e pretendono, che fossero state quelle, che per cento miglia intorno a Roma, e non oltre si distendevano, e che al Prefetto della città di Roma ubbidivano. Altri diedero in un'altra estremità, e sotto nome di province suburbicarie intesero, chi l'universo Imperio di Roma, e chi almeno tutto l'Occidente, come con grandi apparati studiaronsi provare Emanuello Schelstrate, e Lione Allacci.

Ma Lodovico Ellies Dupino non può non commendare per vera l'opinione di Sirmondo, e riprovando così l'una, come l'altra delle opposte sentenze, sopra ben forti e validi fondamenti stabilisce le province e le Chiese suburbicarie essere state quelle, che al Vicario di Roma ubbidivano, e che da quel Vicariato eran comprese.

Per questa cagione avvenne, che secondando la politia della Chiesa quella dell'Imperio, il Vescovo di Roma sopra tutte queste province esercitasse le ragioni di Metropolitano. Non potea chiamarsi propriamente Esarca, perchè non l'intera diocesi d'Italia fu a lui commessa, siccome eran nomati gli Esarchi d'Oriente, i quali dell'intere diocesi avean il pensiero; ma la diocesi d'Italia essendosi divisa in due Vicariati, questo fece, che non si stendesse più oltre la sua autorità, nè fuori, nè dentro l'istessa Italia; poichè fuori di queste province suburbicarie, i Metropolitani di ciascuna provincia ordinavano tutti i Vescovi, ed essi da' Vescovi della provincia eran ordinati: e se si legge, avere i romani Pontefici in questi medesimi tempi raunato talora da tutte le province d'Occidente numerosi Sinodi, cotesto avvenne, non per ragion dell'autorità sua di Metropolitano, ma per ragion del Primato, che tiene sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico; la qual cosa in progresso di tempo (confondendosi queste due autorità) portò quell'estensione del Patriarcato romano, che si vide da poi, quando non contento delle province suburbicarie, si sottopose l'Illirico, dove mandava suoi Vicarj; ed indi non solamente si dilatò per tutte le province d'Italia, ma per le Gallie, e per le Spagne ancora, tanto che acquistò il nome di Patriarca di tutto l'Occidente, come si vedrà più innanzi.

Ma in questi tempi, ne' quali siamo di Costantino, infino all'Imperio di Valentiniano III l'autorità sua, che per ordinario diritto esercitava, non s'estendeva più, che nelle sole province suburbicarie. E perciò avvenne ancora; che il R. P. esercitasse in queste province la sua autorità con maggiore e più pieno potere, che non facevan gli Esarchi d'Oriente nelle province delle loro diocesi; imperciocchè a lui come Metropolitano s'appartenevano l'ordinazioni, non solamente de' Vescovi delle città metropoli, ma anche di tutti gli altri Vescovi di quelle province: quando in Oriente gli Esarchi l'ordinazione di questi Vescovi la lasciavano a' loro Metropolitani.

Nè il nome di Patriarca dato al Pontefice romano, fu cotanto antico, come agli Esarchi d'Oriente. Se voglia riguardarsi l'antichità della Chiesa, fu prima questo nome di Patriarca dato in Oriente per encomio anche a' semplici Vescovi: poi si ristrinse agli Esarchi, ch'avean cura dell'intere diocesi, per la qual cosa presso a' Greci tutti gli Esarchi con questo nome di Patriarca eran chiamati. Ma in Occidente infra i Latini, il primo che si fosse nomato, fu il Pontefice romano: ed i Greci medesimi furono i primi a dargli questo encomio, ma non prima de' tempi di Valentiniano III. In questi tempi Lione R. P. fu da' Greci e da Marciano stesso Imperador di Oriente chiamato Patriarca; nè prima, come notò l'accuratissimo Dupino, da' Latini stessi, o da' Greci se gli diede tal nome: ed il Sirmondo non potè contra Claudio Salmasio allegar sopra ciò esempi più antichi, che degli Imperadori Anastasio e Giustino, i quali aveano chiamato Patriarca Ormisda Vescovo di Roma.

Per questa cagione nelle nostre province non leggiamo noi Metropolitano alcuno: ed ancorchè dopo Costantino si fosse veduta in maggior splendore la Gerarchia ecclesiastica, le città delle nostre province però non ebbero, che i soli Vescovi, come prima, non riconoscenti altri, che il Vescovo di Roma per loro Metropolitano. Ciò che non accadde nelle province d'Oriente, nelle quali, come s'è veduto, ciascuna provincia ebbe il suo Metropolitano, il quale sopra i Vescovi di quella provincia esercitava le ragioni sue di Metropolitano: presso di noi fu diversa la politia: poichè, ancorchè la provincia della Campagna avesse la sua città metropoli, la quale fu Capua, non per questo il suo Vescovo sopra gli altri Vescovi della medesima provincia alzò il capo, con rendersegli suffraganei: nè se non ne' tempi a noi più vicini, e propriamente nell'anno 968, la Chiesa di Capua fu renduta metropoli, ed il suo Vescovo acquistò le ragioni di Metropolitano sopra molti Vescovi di quella provincia suoi suffraganei. La Puglia parimente, e la Calabria non riconobbe se non molto da poi i suoi Metropolitani; e se non voglia tenersi conto di ciò, che dal Patriarca di Costantinopoli si disponeva intorno alle Chiese di questa provincia, Bari, Canosa, Brindisi, Otranto, Taranto, S. Severina, e l'altre città della medesima, non gli riconobbero, se non ne' secoli seguenti, e Siponto più tardi da Benedetto IX fu nell'anno 1034 costituita metropoli. Lo stesso s'osserva nella provincia della Lucania, e de' Bruzj, dove Reggio e Salerno, che secondo la politia dell'Imperio erano in questi tempi le città metropoli della medesima provincia, non ebbero, che i soli Vescovi, e Reggio conobbe da poi i Metropolitani, mercè del Patriarca di Costantinopoli, siccome Salerno da Benedetto V nell'anno 984, e così gli altri, che veggiam ora in questa provincia. Il Sannio ancora gli conobbe molto tardi: Benevento fu innalzato a questo onore da Giovanni XII nell'anno 969 un anno dopo Capua: e tutti gli altri Metropolitani, che ora scorgonsi moltiplicati in tanto numero in tutte queste nostre province, hanno men antica origine, come si vedrà chiaro più innanzi nel corso di questa Istoria.

Ne' tempi adunque, ne' quali siamo di Costantino sino a Valentiniano III, le Chiese di queste nostre province, come suburbicarie, ebbero per loro Metropolitano il solo Pon. Romano: a lui solo s'apparteneva l'ordinazione de' Vescovi: e quando mancava ad una città il Vescovo, il Clero ed il Popolo eleggevan il successore, poi si mandava al R. P. perchè l'ordinasse; il quale sovente, o faceva venir l'eletto a Roma, ovvero delegava ad altri la sua ordinazione; e da poi s'introdusse, che quando accadevan contese intorno all'elezione, egli le decideva, o per compromesso si terminavano: il qual costume vedesi continuato ne' tempi di S. Gregorio M. del quale ci rimangono ancora nel Registro delle sue Epistole molti provvedimenti, che diede per l'elezione de' Vescovi di Capua, di Napoli, di Cuma e di Miseno, nella Campagna; e nel Sannio, de' Vescovi di Apruzzi.

Ed in Sicilia, come provincia suburbicaria, pur osserviamo la medesima autorità esercitata da' romani Pontefici intorno all'elezione de' Vescovi, come è manifesto dall'Epistole di Lione, e da quelle di Gregorio M..

Ecco in brieve qual fu del quarto e quinto secolo la politia ecclesiastica in queste nostre province: ebbero, come prima, i soli Vescovi, nè riconobbero sopra le loro città alcun Metropolitano: solo il Pontefice romano esercitava le ragioni di Metropolitano sopra quelle, e vi tenea spezial cura e pensiero. Per questa cagione, nè l'eresia d'Arrio, nè la Pelagiana poteron giammai in queste province por piede. Nè i Patriarchi di Costantinopoli eran ancora entrati nella pretensione di volere al loro Patriarcato sottoporre queste province, siccome tentaron da poi a tempo di Lione Isaurico, e del Pontefice Gregorio II, e posero in effetto ne' tempi seguenti; di che altrove avrem opportunità di favellare. Nè in queste nostre province si conobbe fin a questo tempo altra Gerarchia, che di Diaconi, Preti, Vescovi, e di Metropolitano, qual era il Vescovo di Roma, Capo insieme, e Primo sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico. Alcuni anche a questo tempo mettono l'instituzione de' Sottodiaconi, degli Acoliti, Esorcisti, Lettori, ed Ostiarj; ed eziandio d'alcuni altri Ministri, che non s'appartengono punto all'ordine gerarchico, ma alla custodia ed alla cura delle temporalità della Chiesa: di che altrove ci tornerà l'occasione di ragionare.

§. I. De' Monaci.

In Oriente però s'erano già cominciati a sentire i Solitarj, appellati in lor favella Monaci: ma questi non eran, che uomini del secolo, senza carattere e senza grado, i quali nelle solitudini, e ne' deserti dell'Egitto per lo più menavano la lor vita: data che fu pace alla Chiesa dall'Imperador Costantino, cominciò a rilasciarsi nella comunità de' Cristiani quella virtù, che ne' tre primi precedenti secoli in mezzo alle persecuzioni era esercitata: e siccome non era più di pericolo l'esser Cristiano, molti ne facevan professione, senz'esser ben convertiti, nè ben persuasi del disprezzo de' piaceri, delle ricchezze, e della speranza del Cielo. Così coloro che vollero praticare la vita cristiana in una maggior purità, trovarono più sicuro il separarsi dal Mondo, ed il vivere nella solitudine.

I primi Monaci, che ci comparvero, furon in fra di loro divisi e distinti in due ordini, ciò sono, Solitarj, e Cenobiti: i primi si chiamaron anche Eremiti, Monaci, Monazonti, ed Anacoreti. Alcuni han voluto tirar l'origine del Monachismo da' Terapeuti, che credettero essere una particolar società di Cristiani stabilita da S. Marco ne' contorni d'Alessandria, de' quali Filone descrive la vita. Ma se bene Eusebio avesse creduto, che i Terapeuti fossero Cristiani, ed avesse loro attribuito il nome di Asceti; nulladimanco è cosa affatto inverisimile riputar quelli, Cristiani e discepoli di S. Marco. Poichè quantunque la vita, che di lor ci descrive Filone, fosse molto conforme a quella de' Cristiani, le molte cose però che e' soggiunse dei loro riti e costumi, come l'osservanza del Sabato, la Mensa sopra la quale offerivano pani, sale, ed isopo, in onor della sacra Mensa ch'era dentro al vestibolo del tempio, e mille altre usanze, che non s'accordano co' costumi degli antichi Cristiani, convincono e fan vedere, che coloro fossero Ebrei, non Cristiani. Il nome di Asceti, che Eusebio loro attribuisce, non deve fargli passar per Monaci, poichè siccome il termine d'Asceti è un termine generale, che significa coloro, che menano una vita di quella degli altri più austera e più religiosa, così non si può conchiudere aver egli creduto, che gli Asceti fosser Monaci.

Comunque ciò siasi, egli è cosa certa, che erano nel quarto secolo questi Monaci moltiplicati in guisa, che non vi fu provincia dell'Oriente, che non ne abbondasse. La diocesi d'Oriente, il cui capo era Antiochia, ne fu piena: in Egitto il numero era infinito. Nell'Affrica, e nella Siria parimente abbondavano: ed in Occidente eran ancora in questi tempi penetrati fin dentro a' confini del Vescovato romano, nella nostra Campagna, e nelle circonvicine province, siccome è chiaro da una costituzione di Valentiniano il Vecchio dirizzata nell'anno 370 a Damaso Vescovo di Roma. Palladio ancor rapporta, in queste nostre province, come nella Campagna e luoghi vicini, verso la fine del quarto secolo, molti aver menata vita eremitica e solitaria: ed il P. Caracciolo non pur nella Campagna, ma anche nel Sannio e nella Lucania ne va molti ravvisando.

Questi viveano nelle solitudini e ne' deserti, ed ivi menavan una vita tutta divota, sciolti da ogni cura mondana, e lontani dalle città, e dal commercio degli uomini. Si fabbricavano per abitare povere cellette, e passavano il giorno lavorando, facendo stuoje, panieri, ed altre opere facili, e questo lor lavorio bastava non solo per alimentargli, ma ancora per far grandi elemosine. I Gentili reputavano questa lor vita, oziosa ed infingarda, onde ne furono acerbamente calunniati da' loro Scrittori, accagionandogli, che in queste solitudini si contaminassero d'ogni sozza libidine, e di nefandi vizj. Non avevan certa regola, nè si legavan a voto alcuno: la lor vita quieta tirava della molta gente al bosco, tanto che ne venner tosto a nascere degli abusi; perchè molti per isfuggire i pesi della Curia, e degli altri carichi della Repubblica, e per menare una vita affatto oziosa, e sottrarsi da ogni altra obbligazione, sotto finto pretesto di religione, lasciavano le città, e andavansi ad unire con questi Solitarj; tanto che fu di mestieri a Valente di proibire questi loro recessi, e ordinare, che si richiamassero da que' luoghi nelle città, a portare i carichi lor dovuti.

Ma i Solitarj, non guari da poi, degenerando dal lor instituto, troppo spesso frequentavano le città, e s'intrigavano negli affari del secolo; nè vi occorreva lite ne' Tribunali, nè faccenda, o qual altro si fosse negozio nelle piazze, ch'essi non ne volessero la lor parte: e crescendo vie più la lor audacia, furon sovente cagione nelle città di molti disordini e tumulti: di che se ne leggono molti esempj appresso Eunapio, Crisostomo, Teodoreto, Zosimo, Libanio, Ambrosio, Basilio, Isidoro Pelusiota, Geronimo, ed altri: tanto che bisognò, che i Giudici, e gli altri Magistrati ricorressero all'Imperador Teodosio M. perchè rimediasse a' disordini sì gravi, ed alla Rep. perniziosi, e da quel Principe fu proferita legge, colla quale fu comandato, che non partissero dalle loro solitudini, nè capitassero mai più nelle città: ma non passarono venti mesi, che Teodosio in grazia de' medesimi Solitarj rivocò la legge.

Ebbero costoro per loro Gonfaloniere nella Tebaide Paolo, detto perciò primo Eremita: nella Palestina, Ilarione, e ne' deserti d'Egitto Geronimo, i quali con intento d'imitare, così vivendo, Elia e Giovanni precursor di Cristo, si renderono per la loro austerità assai rinomati e celebri.

Gli altri s'appellaron Cenobiti, ovvero Religiosi, perchè essi avevansi prescritte certe regole di vita, ed in comunità vivevano. Traggon questi la lor origine dagli Esseni, ch'era una Setta di Giudei distinta dai Terapeuti, e la maniera del loro vivere era molto diversa da coloro, siccome quelli, che menavan una vita tutta contemplativa, e molto divota, della quale Filone appresso Eusebio fa lungo racconto, descrivendola tutta simile a quella de' nostri Religiosi.

Il primo lor Duce nella Tebaide fu Antonio. In Grecia Basilio, il quale gli obbligò a tre voti, che diciamo ora esser essenziali alla Religione, cioè d'ubbidienza per combattere l'alterigia del nostro spirito; di castità risguardante i moti nel nostro corpo; e di povertà, per una totale abbominazione a' beni di fortuna.

(Altri vogliono, che Basilio non fosse stato Institutore di alcun nuovo Ordine, ma solo il direttore di que' che si erano già resi Monaci, siccome infra gli altri credette Binghamo .)

S. Benedetto gl'introdusse in Italia, e propriamente nella nostra Campagna: ma ciò avvenne nel principio del sesto secolo sotto il Regno di Totila, di che nei libri, che seguono, ci verrà a proposito di ragionare più a lungo, come d'una pianta pur troppo in questo nostro terreno avventurosa, che distese i suoi rami, e dilatò i germogli in più remote regioni.

S. Pacomio diede anche perfezione all'ordin monastico, ed unì molti Monasterj in congregazione: loro diede una regola, e fondò monasterj di donzelle. Erano state già prima introdotte alcune comunità di donzelle, le quali facevano voto di virginità, e dopo un certo tempo ricevevano con solennità il velo. Così essendo la vita monastica dell'uno e dell'altro sesso divenuta più comune, furono stabiliti monasterj, non solo vicino alle città grandi, ma eziandio dentro le stesse città, ed in quelli i Monaci viveano in solitudine in mezzo al Mondo, praticando la loro regola sotto un Abate, ovvero Archimandrita; ed il Monachismo da Oriente passò in Occidente verso il fine del quarto secolo.

Di questi Cenobiti ne' secoli seguenti ne germogliaron infiniti altri Ordini di regole diverse, che potranno vedersi presso a Polidoro Virgilio, de' quali nel corso di questa Istoria, secondo l'opportunità, se ne farà menzione.

S. Agostino pur volle nell'Affrica introdurre un altro Ordine di regolarità: egli fu l'Autore de' Canonici Regolari, avendo posti in vita religiosa i suoi Preti della Chiesa d'Ippona. Non gli chiamò nè Monaci, nè Religiosi, ma Canonici, cioè astretti a regole, ch'eran mescolate di chericheria, e della pura vita monastica: e fu chiamata vita apostolica, per l'intento, che s'avea di rinnovare la vita comune degli Apostoli: eran essi astretti agli accennati tre voti, ed avean clausura.

(S. Agostino vien anche da Duareno riputato Autore de' Canonici Regolari. Ciò che lo stima molto probabile anche Binghamo, se bene Onofrio Panvinio , ed Ospiniano, credano che fosse stato Autore Papa Gelasio I intorno l'anno 495. È certo però, che S. Agostino non fu institutore degli Eremiti Agostiniani, siccome costoro vantano, poichè nè quel Dottore fu mai Romito, nè si legge aver dettate regole per loro uso, siccome saviamente ponderò Binghamo. Delle origini ed istituzioni di tanti nuovi Ordini de' Monaci venuti da poi nel Mondo, oltre Polidoro Virgilio, son da vedersi Ospiniano e Creccelio).

Sorsero da poi i Mendicanti, i quali agli tre descritti voti aggiunsero il quarto della mendicità, cioè di vivere di elemosina. Indi seguiron i Fratelli Cavalieri, come furon quelli di S. Giovanni in Gerusalemme, i Teutonici, i Templarj, che furono sterminati per Clemente V, i Commendatori di S. Antonio, i Cavalieri di Portaspada, di Cristo, di S. Lazaro, ed altri annoverati da Polidoro Virgilio, i quali erano chiamati Fratelli Cavalieri, ovvero Cavalieri Religiosi, a differenza de' Cavalieri Laici di nobiltà, de' quali tratteremo ne' seguenti libri di questa Istoria.

Di questi nuovi Ordini di Religiosi ne' tempi, nei quali si manifestarono, faremo qualche breve racconto: donde non senza stupore scorgerassi, come in queste nostre province, col correr degli anni, abbian potuto germogliar tanti e sì varj Ordini, fondandovi sì numerosi e magnifici monasterj, che ormai occupano la maggior parte della Repubblica, e de' nostri averi, formando un corpo tanto considerabile, che ha potuto mutar lo Stato civile e temporale di questo nostro Reame.

In questi secoli, ne' quali siamo di Costantino M. fino a Valentiniano III niuna alterazione recaron allo Stato politico, perocchè quantunque molti Solitarj fossero già nel Vescovato di Roma allignati, per quello che si ricava dalla riferita costituzione di Valentiniano il Vecchio: ed in queste nostre province fossero ancor penetrati, dove ristretti in qualche solitudine menavano la lor vita: niente però portaron di male, o di turbamento allo Stato, nè furon osservati, nè avuti in alcuna considerazione, e niente perciò s'accrebbe all'ecclesiastica Gerarchia.

(È manifesto che a questi tempi i Monaci non si appartenevano alla Gerarchia ecclesiastica, rigettandosi nell'Ordine de' Laici da quel che ne scrisse Isaaco Alberto , dicendo: Monachi quales primo erant quo extra Ordinem constituti, ad Hierarchiam imperantem non pertinent. Lindano pur de' Monaci parlando, disse: Qui omnes sicuti erant Ordinis Laici, ita una cum reliquis Templi choro, quem dicimus, erant exclusi. Insino Graziano confessò, che fino a' tempi di Siricio, e di Zosimo, Monachos simpliciter, et non Clericos fuisse, Ecclesiastica testatur Historia, come sono le sue parole).

I Cenobiti è manifesto, che, prima di S. Benedetto, eran radissimi, ed i lor monasterj assai più radi, e di niun conto. Poichè ciò che si narra del monastero eretto in Napoli da Severo Vescovo di questa città, che fiorì nell'anno 375 sotto il nome di S. Martino, quando questo Santo era ancor vivo; dell'altro di S. Gaudioso, che si pretende fondato da S. Gaudioso stesso Vescovo di Bitinia nell'anno 438, il qual, fuggendo la persecuzione di Gizerico Re dell'Affrica, si ricoverò in Napoli; quando quello ebbe i suoi principj circa l'anno 770 da Stefano II Vescovo di questa città: e di alcuni altri fondati in altre città di queste nostre province, e rapportati a questi tempi, sono tutte favole mal tessute, e da non perderci inutilmente l'opera ed il tempo in confutarle.

§. II. Prime collezioni di canoni.

I regolamenti, che tratto tratto, da poi che Costantino diede pace alla Chiesa, cominciaron a stabilirsi dallo Stato ecclesiastico, se bene tuttavia per lo corso d'un secolo e mezzo fino a Teodosio il Giovane e Valentiniano III. moltiplicassero; nulladimeno non davan in questi tempi alcun sospetto, o gelosia a gl'Imperadori; imperocchè allora non si poneva in dubbio, ed era cosa ben mille volte confessata, anzi non mai negata dagli stessi Ecclesiastici, che i Principi per la loro autorità e protezione, che tenevan della Chiesa, potevano lodevolmente della stessa canonica disciplina prender cura e pensiero, ed emendar ciò, che allo Stato avrebbe potuto esser di nocumento e di disordine: di che ne rende ben ampia e manifesta testimonianza l'intero libro decimosesto del Codice di Teodosio, compilato unicamente per dar provvedimento a ciò, che concerneva le persone e le robe ecclesiastiche.

All'incontro appartenendo, come s'è detto nel primo libro, alla Chiesa la potestà di far de' canoni attenenti alla di lei disciplina, avendo già per la pietà di Costantino acquistato maggior splendore, e posta in una più ampia e numerosa Gerarchia, ebbe in conseguenza maggior bisogno di far nuovi regolamenti per buon governo della medesima, e per accorrere a' disordini, che sempre cagiona la moltitudine: perciò oltre a' libri del Testamento Vecchio e Nuovo, ed alcuni canoni stabiliti in varj Sinodi tenuti in quelli tre primi secoli, se ne formaron poi degli altri in maggior numero ne' Concilj più universali, che si tennero a questo fine; poichè data che fu pace da Costantino alla Chiesa, fu più facile, che molte Chiese unite insieme comunicassero e trattassero sopra ciò, che riguardava la disciplina; poichè intorno a tutti gli altri affari esteriori, gli Ecclesiastici ubbidivano a' Magistrati, ed osservavan le leggi civili.

Da questo tempo, e non da più antica origine cominciarono i canoni, de' quali si formaron da poi più Collezioni; poichè quantunque alcuni abbian creduto, che fin dal principio del nascente Cristianesimo vi fossero stati alcuni regolamenti fatti dagli Apostoli, che anche a' nostri dì si veggono raccolti al numero di 85 sotto il titolo di Canones Apostolorum: nulla di meno nè l'opinione del Turriano, che stimò tutti essere stat'opera degli Apostoli, nè quella del Baronio e del Bellarmino, i quali credettero, che cinquanta solamente di que' canoni fossero Apostolici sono state da savj Critici abbracciate, i quali comunemente giudicano esser quella una raccolta d'antichi canoni, e propriamente de' canoni fatti ne' Concilj congregati prima del Niceno, come, per non entrare in dispute, potrà vedersi appresso Guglielmo Beveregio, Gabriel d'Aubespine, Lodovico Dupino, ed altri, e quel ch'è più notabile, Gelasio P. gli dichiara apocrifi nel can. Sancta Romana, dist. 15.

Lo stesso si dice del libro delle costituzioni Apostoliche falsamente attribuito a S. Clemente, per la grande autorità di quel Santo Pontefice, o che da prima sia stato supposto sotto il nome di Clemente, o che da poi fosse stato da Eretici corrotto, egli è certo, che non tiene alcuna autorità nelle materie di Religione, essendovi state aggiunte varie cose in diversi tempi; onde se bene in esso si rappresenti l'intera disciplina, almeno della Chiesa orientale, conchiudono tuttavia gli uomini più sensati, che non possa esser più antico del terzo secolo. Ed ancorchè prima di questo tempo dobbiam credere, che varj Concilj si fossero dagli Ecclesiastici raunati, secondo le varie occorrenze della purità della dottrina cristiana, o dell'integrità della disciplina, quanto la persecuzione quasi continua de' Pagani, e l'infelicità de tempi loro permetteva; nondimeno i veri canoni di quelli si son perduti, e son tutti apocrifi gli altri, che si millantano; ed in spezie gli atti del Concilio di Sinuessa per l'apostasia di Marcellino P., e 'l decreto, che la prima sede da niuno possa venir giudicata, essere certamente cose tutte apocrife, ben lo dimostra Baronio per autorità di S. Agostino, come inventato dai Donatisti; anzi Cironio prova che l'accusa di Marcellino non fu mai vera: che che ne dica fra' nostri il P. Caracciolo.

Finalmente in quanto all'Epistole de' Sommi Pontefici, benchè di queste se ne trovin antichissime del primo e secondo secolo, pure, toltone due lettere di S. Clemente a' Corintj, che sono Ascetiche più tosto, che Decretali, oggi è costantissima sentenza de' più diligenti ed accurati Critici, non dico fra' Protestanti, come Blondello, e Salmasio, ma tra piissimi Cattolici, come i Cardinali Cusano, e Baronio, Marca, Petavio, Sirmondo, Labbeo, Tomasino, Pagi, ed altri, che tutte le Decretali, che si leggon scritte da' Pontefici romani prima di Siricio Papa, che morì nell'anno 398 e che si trovano nella raccolta d'Isidoro Mercatore, il quale comparve al Mondo verso la fine dell'Imperio di Carlo Magno, sieno in verità spurie e supposte, e da quell'impostore a suo talento formate: de hac Isidori impostura, dice Tomasino, inter doctos jam convenit.

I primi canoni adunque, donde cominciarono le tante Collezioni, sono quelli, che si trovano ne' Concilj del quarto secolo. I primi Concilj fra gli Ecumenici furono quel di Nicea in Bitinia, congregato per ordine di Costantino nell'anno 325, e quello di Costantinopoli per comandamento di Teodosio M. nell'anno 381. I più antichi de' Concilj provinciali (benchè variamente se ne fissi l'epoca da Cronologisti, nè possa additarsene certamente l'anno) furono quel di Gangra nella Paflagonia, di Neocesarea in Ponto, d'Ancira in Galazia, d'Antiochia in Siria, e di Laodicea in Frigia: fuor di molti altri fatti in Affrica, in Ispagna, ed altrove meno rinomati.

Dopo questo tempo, cioè verso la fine del quarto secolo, intorno l'anno 385 si pubblicò la prima Collezione di canoni per opera d'un certo Vescovo d'Efeso chiamato Stefano, come su la fede di Cristofano Justello attesta Pietro di Marca. In essa si veggono cento sessantacinque canoni presi da que' sette Concilj, due generali, e cinque provinciali della Chiesa d'Oriente poco fa mentovati, cioè 20 dal Concilio di Nicea, 24 da quello d'Ancira, 14 da quello di Neocesarea, 20 da quello di Gangra, 25 dal Concilio d'Antiochia, 59 da quello di Laodicea, e 3 da quello di Costantinopoli. Ed è da notare, che i primi canoni appartenenti alla politia e disciplina ecclesiastica furono stabiliti nel Concilio d'Ancira celebrato l'anno 314, poichè negli altri più antichi Concilj solo si trattò di cose appartenenti a' dogmi, ed alla dottrina della Chiesa. Questa Collezione, o sia stata fatta da Stefano per proprio studio o per autorità d'alcun Concilio d'Oriente, non può di certo stabilirsi: vero è però, che in tal maniera fu applaudita, e così universalmente ricevuta, che il Concilio di Calcedonia a quella si rapportò, e volle, che da essa i canoni si leggessero, approvandola con quelle parole: Regulas a Sanctis Patribus in unaquaque Synodo usque nunc prolatas teneri statuimus . E perchè questi canoni erano tutti scritti in greco, per comodità delle Chiese occidentali se ne fece una traduzion latina, il cui Autore è incerto. Nè la Chiesa romana, e le Chiese di queste nostre province si servirono d'altra raccolta, se non di questa così tradotta, fino al sesto secolo, quando comparve la Compilazione di Dionisio il Piccolo: e la Chiesa Gallicana, e Germanica continuarono a servirsene fin al secolo nono. Ella, secondo Justello, ebbe per titolo: Codex Canonum Ecclesiae universae: e secondo Florente, quest'altro: Collectio Canonum Orientalium.

In processo però di tempo, per una seconda Collezione, o sia Giunta, autor della quale crede Doujat essere stato l'istesso Vescovo Stefano, fatta dopo l'anno 451, vi si aggiunsero tutti i sette canoni del primo Concilio di Costantinopoli, de' quali tre solamente erano nella prima, otto canoni del Concilio d'Efeso, e ventinove di quello di Calcedonia, tutti generali; dimodochè tutta questa Collezione era composta di 206 canoni. Alcun tempo da poi furon aggiunti li canoni del Concilio di Sardica, e cinquanta degli 89 canoni, che chiamansi Apostolici, e 68 canoni di S. Basilio; e l'autore di questa nuova Giunta, o sia Collezione, crede Doujat essere stato Teodoreto Vescovo di Cirro. È manifesto dunque, che fin ai tempi di Valentiniano III l'una e l'altra Chiesa non conobbe altri regolamenti, che quelli, che furon in questo Codice raunati.

Ed è da notare, che non avendo infin a questi tempi la Chiesa niente di giustizia perfetta, e di giurisdizione, questi regolamenti obbligavano per la forza della religione, non per temporale costringimento, nè gli trasgressori eran puniti con pene temporali, ma con censure, ed altri spirituali gastighi, che poteva imporre la Chiesa: ond'è che i Padri della Chiesa, quando avean finito il Concilio, dove molti canoni s'erano stabiliti, perchè fossero da tutti osservati, dubitando, che per la condizione di que' tempi torbidi e sediziosi, e pieni di fazioni, particolarmente fra gli Ecclesiastici stessi, i quali sovente, non ostante le decisioni del Concilio, volevan ostinarsi ne' loro errori, solevano ricorrere agl'Imperadori, per la cui autorità erano i Concilj convocati, e dimandar loro che avessero per rato ciò che nel Concilio erasi stabilito, e comandassero che inviolabilmente da tutti fossero osservati. Così narra Eusebio, che fecero i Padri del Concilio di Nicea, i quali da Costantino M. ottennero la conferma de' loro decreti. Ed i Padri del Concilio Costantinopolitano I, ricorsero all'Imperador Teodosio M. per la conferma de' canoni di quello. E Marziano Imperadore promulgò un editto, col quale confermò tutto ciò che dal Concilio di Calcedonia erasi stabilito con i di lui canoni; e generalmente tutti gli altri Imperadori, quando volevano, che con effetto si osservassero, solevano per mezzo delle loro costituzioni comandare, che fossero osservati, e lor davan forza di legge con inserirgli nelle loro costituzioni, pubblicandogli colle leggi loro, come è chiaro dal Codice di Teodosio, dalla Raccolta di Giovanni Scolastico, dal Nomocanone di Fozio, e da ciò, che poi gli altri Principi d'Occidente, e Giustiniano Imperadore ordinò per essi, come si conoscerà meglio, quando de' fatti di questo Principe ci toccherà favellare.

§. III. Della conoscenza nelle cause.

Lo Stato adunque ecclesiastico ancorchè, da Costantino posto in tanto splendore, avesse acquistata una più nobile esterior politia, e fosse accresciuto di suoi regolamenti, non però in questi tempi, e fino all'età di Giustiniano Imperadore, per quel che s'attiene alla conoscenza delle cause, trapassò i confini del suo potere spirituale: egli era ancor ristretto nella conoscenza degli affari della religione, e della fede, dove giudicava per forma di politia; nella correzion de' costumi, dove conosceva per via di censure; e sopra le differenze tra' Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio, e di caritatevole composizione.

Non ancora avea la Chiesa acquistata giustizia contenziosa, nè giurisdizione, nè avea Foro, o territorio nella forma e potere, ch'ella tien oggi in tutta la Cristianità: poichè quella non dipende dalle chiavi, nè è propriamente di diritto divino: ma più tosto di diritto umano e positivo, procedente principalmente dalla concessione o permissione de' Principi temporali, come si vedrà chiaro nel progresso di questa Istoria.

Vi è gran differenza tra la spada, e le chiavi, ed ancora tra le chiavi del Cielo, ed i litigi de' Magistrati: ed i Teologi sono d'accordo che la tradizione delle chiavi, e la potenza di legare e di sciogliere data da Cristo Signor nostro a' suoi Apostoli importò solamente la collazione de' Sacramenti, ed in oltre l'effetto importantissimo della scomunica, ch'è la sola pena, che ancor oggi possono gli Ecclesiastici imponere a loro, ed a' laici, oltre all'ingiugnere della penitenza; ma tutto ciò dipende dalla giustizia, per dir così, penitenziale, non già dalla pura contenziosa; o più tosto dalla censura e correzione, che dalla perfetta giurisdizione. Questa porta un costringimento preciso e formale, che dipende propriamente dalla potenza temporale de' Principi della terra, i quali, come dice S. Paolo, portano la spada per vendetta de' cattivi, e per sicurtà de' buoni. E di fatto le nostre anime, sopra le quali propriamente si stende la potenza ecclesiastica, non sono capaci di preciso costringimento, ma solamente dell'eccitativo, che si chiama dirittamente persuasione. Quindi è, che i Padri tutti della Chiesa, Crisostomo, Lattanzio, Cassiodoro, Bernardo, ed altri, altamente si protestano, che a loro non era stata data potestà d'impedire gli uomini dai delitti, coll'autorità delle sentenze: Non est nobis data talis potestas, ut auctoritate sententiae cohibeamus homines a delictis, dice Crisostomo ; ma tutta la loro forza era collocata nell'esortare, piangere, persuadere, orare, non già d'imperare. Per la qual cosa fu reputato necessario, che anche nella Chiesa i Principi del Mondo esercitassero la lor potenza, affinchè dove i Sacerdoti non potessero arrivare co' loro sermoni ed esortazioni, vi giugnesse la potestà secolare col terrore e colla forza.

A' Principi della terra egli è dunque, che Dio ha data in mano la giustizia: Deus judicium suum Regi dedit, dice il Salmista: ed il Popolo d'Israello domandando a Dio un Re, disse: Constitue nobis Regem, qui judicet nos, sicut caeterae nationes habent. E quando Iddio diede al Re Salomone la scelta di ciò, che volesse, questi dimandò: Cor intelligens, ut populum suum judicare posset: domanda, che fu grata a Dio; laonde S. Girolamo disse, che Regum proprium officium est facere judicium, et justitiam . In brieve in tutta la Sacra Scrittura la giustizia è sempre attribuita e comandata a' Re, e non mai a' Preti, almeno in qualità di Preti; perchè Nostro Signore istesso, essendo stato pregato da certo uomo, perchè imponesse la divisione fra lui, e suo fratello, rispose: Homo quis me constituit Judicem, aut divisorem super vos ? Ed in quanto agli Appostoli, ecco ciò, che ne dice S. Bernardo ad Eugenio: Stetisse Apostolos lego judicandos, judicantes sedisse non lego. Nè in quelli tre primi secoli, siccome s'è veduto nel primo libro, toltone quelle tre accennate conoscenze, ebbero i Preti quest'ampia giustizia contenziosa, che hanno al presente.

Nè tampoco l'ebbero nel quarto e quinto secolo: imperocchè quantunque l'Imperio fosse governato da Imperadori cristiani, toltone la conoscenza delle sole cause ecclesiastiche, essi venivan da' Magistrati secolari, così ne' giudicj civili, come criminali, giudicati e riguardati essi ancora come membri della società civile: e non essendo stata loro conceduta, nè per diritto divino, nè fin allora per legge d'alcun Principe, immunità, o esenzione alcuna, dovevan in conseguenza da' Magistrati secolari nelle cause del secolo esser giudicati. E di fatto nel Concilio Niceno accusandosi i Vescovi l'un l'altro, portaron i libelli dell'accuse a Costantino, perchè gli giudicasse; ancorchè a questo Principe fosse piaciuto, per troncar le contese, di buttargli tutti al fuoco. Costantino stesso giudicò la causa di Ceciliano, ed Attanasio accusato di delitto di maestà lesa, con sua sentenza fu condennato in esilio. Costanzo suo figliuolo ordinò, che la causa di Stefano Vescovo d'Antiochia si trattasse nel suo palazzo; ed essendo stato convinto, fu con suo ordine deposto da' Vescovi. Valentiniano condannò alla multa il Vescovo Cronopio, e mandò in esilio Ursicino, e' suoi compagni, come perturbatori della pubblica tranquillità. Prisciliano, ed Instanzio furono condennati per loro delitti ed oscenità da' Giudici secolari, come testifica Severo. Della causa di Felice Aptungitano, di Ceciliano, e de' Donatisti conobbero ancora i Magistrati secolari. Ed i Vescovi d'Italia ricorsero a Graziano e a Valentiniano, pregandogli, che prendesser a giudicare Damaso da loro accusato.

Nè si fece nelle sue cause civili di questi secoli mutazione alcuna, essendo noto, che non volendo i litiganti acquetarsi al giudicio de' Vescovi, che come arbitri solevano spesso esser ricercati per comporle, e volendo in tutte le maniere piatire, e venire al positivo costringimento, dovevan ricorrere a' Rettori delle province, ed agli altri Magistrati secolari, ed instituire avanti a' medesimi i giudicj, e proponere le loro azioni, ovvero eccezioni, come i due Codici Teodosiano, e Giustinianeo ne fanno piena testimonianza: e quando venivan citati in alcuno di questi Tribunali, dovevan dar mallevadoria judicio sisti .

Nell'estravagante ed apocrifo titolo de Episcopali judicio, che fu collocato in luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine del Codice di Teodosio si legge una costituzione di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, colla quale pare, che si dia a' Vescovi la cognizione delle cause fra Ecclesiastici, e parimente, che non siano tirati a piatire altrove, che avanti di loro stessi: ma quantunque tal legge sia supposta, come ben a lungo dimostra Gotofredo, e tengono per certo tutti i dotti; niente però da quella poteron cavarne i Preti; poichè con espresse e precise parole ivi si tratta delle sole cause Ecclesiastiche, la conoscenza delle quali l'ebbe sempre la Chiesa per forma di politia: ecco le sue parole: Quantum ad causas tamen Ecclesiasticas pertinet. Graziano, al quale ciò dispiacque, glie le tolse affatto, e nel suo decreto smembrò la legge, e variò la sua sentenza: ciò che non fu nuovo di questo Compilatore, siccome altrove ce ne saranno somministrati altri riscontri. Anselmo su questa legge pur fece simili scempj, e maggiori in cose più rilevanti se ne sentiranno appresso.

Oppongono gli Ecclesiastici alcune altre costituzioni di simil tempra, e molti canoni contro a verità sì conosciuta; ma risponde loro ben a lungo, ed a proposito Dupino gran Teologo di Parigi, il quale meglio d'ogni altro ci dimostrò, che i Cherici, così nelle cose civili e politiche, come nelle cause criminali, non furono per diritto divino esenti dalla potestà secolare, siccome nè da' tributi, nè dalle pene: ma che in decorso di tempo per beneficio degl'Imperadori e dei Principi, in alcuni casi l'immunità acquistarono; ciò che si vedrà chiaro nel corso di questa Istoria.

Così è, che la Chiesa fin a questi tempi non aveva acquistata quella giustizia perfetta, che il diritto chiama Giurisdizione sopra i suoi Preti, e molto meno sopra gli altri del secolo; nè allora avea territorio, cioè jus terrendi, come dice il Giureconsulto nè per conseguenza perfetta giurisdizione, che inerisce al territorio, nè preciso costringimento, nè i Giudici di essa erano Magistrati, che potessero pronunciare quelle tre parole essenziali, do, dico, abdico. Per la qual cosa essi non potevano di lor autorità fare imprigionar le persone ecclesiastiche: siccome oggi il giorno ancora s'osserva in Francia, che non possono farlo senza implorare l'ajuto del braccio secolare. E perchè per consuetudine s'era prima tollerato, e poi introdotto, che il Giudice ecclesiastico potesse fare imprigionar coloro, che si trovavano nel suo Auditorio, tosto Bonifacio VIII alzò l'ingegno, e cavò fuori una sua decretale, con cui stabilì, che i Vescovi potessero da per tutto, e dove essi volessero ponere il lor Auditorio, per farv'in conseguenza da per tutto le catture: la qual opera, perchè non poteva nascondersi, fece, che quella decretale in molti luoghi non fosse osservata, ed in Francia, come testifica Mons. Le Maître si pratica il contrario. In fine gli Ecclesiastici non ebbero carcere fin al tempo d'Eugenio I, come c'insegna il Volaterrano.

Egli è altresì ben certo, che in questi secoli la Chiesa non avea potere d'imponer pene afflittive di corpo, d'esilio, e molto meno di mutilazion di membra, o di morte: e ne' delitti più gravi d'eresia, toccava a' Principi di punire con temporali pene i delinquenti i quali Principi per tenere in pace e tranquilli i loro Stati, e purgargli di questi sediziosi, che turbavan la quiete della Repubblica, stabilirono perciò molti editti, dove prescrissero le pene ed i gastighi a color dovuti: di queste leggi ne sono pieni i libri del Codice di Teodosio, e di Giustiniano ancora. Nè in questi tempi i Giudici della Chiesa potevano condennare all'emende pecuniarie; e la ragion era, perch'essi non avevan territorio, e secondo il diritto de' Romani, i soli Magistrati, ch'hanno il pieno territorio, potevano condennare all'emenda; ma poi, ancorchè la Chiesa non tenesse nè territorio, nè Fisco, intrapresero di poterlo fare, con applicare a qualche pietoso uso, come a Monaci, a prigioni, a fabbriche di chiese, o altro, la multa, di che altrove avremo nuovo motivo di ragionare.

Non potendosi adunque dubitare, che tutto ciò, che oggi tiene la Chiesa di giustizia perfetta e di giurisdizione, dipenda per beneficio e concessione de' Principi, alcuni han creduto, che queste concessioni cominciassero da Costantino il Grande, quegli che le diede pace ed incremento. Credettero, che questo Principe per una sua costituzione estravagante, che si vede inserita nel fine del Codice di Teodosio avesse stabilito, che il reo, o l'attore in tutte le materie, ed in tutte le parti della causa, possa domandare, che fosse quella al Vescovo rimessa: che non gli possa esser denegato, avvegnachè l'altra parte l'impedisse e contraddicesse: e per ultimo, che ciò che il Vescovo proferirà, sia come una sentenza inappellabile, e che tosto senza contraddizione, e non ostante qualunque impedimento, debbano i Magistrati ordinarj eseguirla: cosa, che se fosse vera, la giurisdizione temporale sarebbe perduta affatto, o almeno non servirebbe, che per eseguire i comandamenti degli Ecclesiastici. Fu in alcun tempo questa veramente stravagante costituzione reputata per vera, vedendo parte di quella inserita ne' Capitolari di Carolo M., ed ancora ne' Breviari del Codice Teodosiano; e Giovanni Seldeno, perchè la trovò in un Codice antico manuscritto di Guglielmo, Monaco malmesburiense, credette, che veramente fosse di Costantino.

Altri l'attribuirono non già a Costantino, ma a Teodosio il Giovane, come fecero Innocenzio, Graziano, Ivone, Anselmo, Palermitano, e gli altri Compilatori di decreti, mossi perchè in alcuni Codici manuscritti portava in fronte questa iscrizione: Arcad. Honor. et Theodos.

Ma oggi mai s'è renduto manifesto per valenti e gravi Scrittori esser quella finta e supposta, non altramente, che la donazione del medesimo Costantino. Giacomo Gotofredo a minuto per cento pruove dimostra la sua falsità, tanto che bisogna non aver occhi per poterne dubitare: si vede ella manifestamente aggiunta al Codice di Teodosio in luogo sospetto, cioè nell'ultimo fine di quello, intitolata con queste parole: Hic titulus deerrabat a Codice Theodosiano: si porta ancora senza Console, e senza data dell'anno: e tutta opposta a molt'altre costituzioni inserite in quel Codice stesso: non si vede posta nel Codice di Giustiniano, nè di lei presso agli Scrittori dell'Istoria Ecclesiastica hassi memoria alcuna.

Coloro che l'attribuiscono a Teodosio, di cui la vera legge si vede dopo questa supposta costituzione, vanno di gran lunga errati; imperciocchè questa vera legge di Teodosio è tutta contraria a quella, determinandosi per essa, che i Vescovi non possano aver cognizione, se non delle materie di religione, e che gli altri processi degli Ecclesiastici sieno determinati e sentenziati da' Giudici ordinarj: e non è credibile, che Teodosio avesse voluto inserire nel suo Codice una legge tutta contraria alla sua. Di vantaggio le leggi degli altri Imperadori, rapportate in quel Codice, benchè fatte in favor della Chiesa, non l'attribuiscon però tal giustizia, e spezialmente la Novella di Valentiniano III. è direttamente contraria, dicendo, che secondo le leggi degl'Imperadori, la Chiesa non ha giurisdizione, e che seguendo il Codice Teodosiano, ella non può conoscere, che delle materie di religione.

Ma oltre alla vera legge di Teodosio di sopra rapportata, si vede, che in tempo d'Arcadio e d'Onorio, la Chiesa non aveva se non la sua primitiva ragione di conoscere per forma d'arbitrio, ancorchè ciò eziandio le venisse contrastato, laonde promulgaron essi una legge, per mantenergliela, di cui ecco le parole: Si qui ex consensu apud sacrae legis Antistitem, litigare voluerint, non vetentur sed experientur illius, in civili dumtaxat negotio, more arbitri sponte reddentis judicium . E questa fu la pratica della Chiesa in questi secoli, che i Vescovi s'impiegavano per forma d'arbitrio in comporre le liti, che loro per consenso delle parti erano riportate, come ne fanno testimonianza Basilio, e con addurne gli esempli, Gregorio Neocesariense, Ambrogio, Agostino e gli Scrittori dell'Istoria Ecclesiastica Socrate, e Niceforo. Ciò che durò lungamente fino a' tempi di Giustiniano, il quale fu il primo, che cominciò ad augmentare la conoscenza de' Vescovi per le sue Novelle, come vedremo nel sesto secolo: poichè negli ultimi tempi, ne' quali siamo di Valentiniano III egli è costante, che i Vescovi non avevano, nè Foro, nè territorio, nè potevan impacciarsi d'altre cause, che di religione così tra' Cherici, come tra' Laici, siccome Valentiniano stesso n'accerta per una sua molto notabile Novella , di cui eccone le principali parole: Quoniam constat Episcopos Forum legibus non habere, nec de aliis causis, quam de Religione posse cognoscere, ut Theodosianum Corpus ostendit; aliter eos judices esse non patimur, nisi voluntas jurgantium sub vinculo compromissi procedat, quod si alteruter nolit, sive laicus, sive clericus sit, agent publicis legibus, et jure communi; aggiungendo, che i Cherici possano esser citati innanzi al Giudice secolare: ciò che senza dubbio era il diritto e la pratica innanzi Giustiniano, come si vede in molte leggi del suo Codice: e questo solo privilegio era dato agli Ecclesiastici, di non poter essere tirati a piatire fuori del lor domicilio e dimora; e nelle province non potevan essere convenuti innanzi altro Giudice, che avanti il Rettore della provincia; siccome a Costantinopoli innanzi al Prefetto Pretorio.

Così è, che intorno la conoscenza della Chiesa nelle cause, non si mutò niente in questi tempi di quel che praticavasi negli tre primi secoli: nè in queste nostre province ebbero i nostri Vescovi giustizia perfetta, nè Foro, nè territorio: nè per quel che s'attiene a questa parte, lo Stato ecclesiastico portò, fino a questo tempo, alcuna mutazione nel politico e temporale, restringendosi la sua conoscenza alle cause di religione, che giudicava per via di politia, ed a quell'altre due occorrenze dette di sopra: e tutta la giurisdizione ed imperio era de' Magistrati secolari, innanzi a' quali sia Prete, sia laico, si ricorreva per le cause, così civili, come criminali, senza eccezione veruna.

Ma quantunque per questa parte non s'apportasse allo Stato civile alterazione alcuna, non fu però, che in questi medesimi tempi non si cagionasse qualche disordine, per ciò che concerne l'acquisto de' beni temporali, che tratto tratto agli Ecclesiastici, ed alle Chiese, per la pietà de' Fedeli si donavano, ovvero per la troppo avarizia de' Cherici si proccuravano.

§. IV. Beni temporali.

Chi dice religione, dice ricchezze, scrisse il nostro Scipione Ammirato, che fu Canonico in Firenze; e la ragione è in pronto, e soggiunge, perchè essendo la religione un conto, che si tiene a parte con M. Domenedio; ed avendo i mortali in molte cose bisogno di Dio, o ringraziandolo de' beni ricevuti, o dei mali scampati, o pregandolo che questi non avvengano, e che quelli felicemente succedano, necessariamente segue, che de' nostri beni, o come grati, o come solleciti facciamo parte, non a lui, il quale Signor dell'Universo non ha bisogno di noi, ma a' suoi tempj, e a' suoi Sacerdoti. Data che fu dunque da Costantino pace alla Chiesa, potendosi professar da tutti con piena libertà la nostra religione, cominciò in conseguenza a crescer quella di beni temporali. Prima di Costantino le nostre Chiese, come una certa spezie d'unione ed assembramento reputato illecito, non potevan certamente per testamento acquistar cosa alcuna, non meno, che le Comunità de' Giudei, e gli altri Collegi, che non aveano in ciò alcun privilegio.

Questi Corpi erano ancora riputati come persone incerte, e per conseguenza i legati a loro fatti non aveano alcun vigore. Ne' tempi poi del Divo Marco fu fatto un Senatus consulto, col quale si diede licenza di poter lasciare a' Collegi, o ad altre Comunità ciò, che si volesse. Fu perciò rilasciato il rigore, che prima vi era; e quantunque le nostre Chiese come Collegi illeciti, non potevan esser comprese sotto la disposizione del senatusconsulto, con tutto ciò si osserva, che nel terzo secolo, sia per tolleranza, sia per connivenza, cominciavano ad avere delle possessioni: ma subito, che Costantino nell'anno 312 abbracciò la religione cristiana, rendendo con ciò non pur leciti, ma venerandi e commendabili i nostri Collegi, si videro le Chiese abbondar di beni temporali. E perchè non vi potesse sopra di ciò nascer dubbio, e maggiormente si stimolasse la liberalità de' Fedeli a lasciargli, promulgò nell'anno 321 un editto, che dirizzò al Popolo romano, col quale si diede a tutti licenza di poter lasciare ne' loro testamenti ciò che volessero alle Chiese, ed a quella di Roma spezialmente. Così Costantino cotanto della cristiana religione benemerito arricchì le nostre Chiese, e non solamente per questa via, ma anche per avere ordinato, che si restituissero a quelle tutte le possessioni, che ad esse appartenevano, e che ne' tempi di Diocleziano, e di Massimiano eran loro state tolte, sopra di che promulgò anche un altro editto rapportato da Eusebio. In oltre stabilì, che i beni de' Martiri, se non aveano lasciati eredi, si dessero alle Chiese, come afferma l'Autor della sua vita.

Ma siccome questo Principe per la nuova disposizione, che diede all'Imperio, fu riputato più tosto distruggitore dell'antico, che facitore d'un nuovo, così anche fu da molti accagionato, che più tosto recasse danno alla Chiesa per averla cotanto arricchita, che l'apportasse utile; poichè in decorso di tempo gli Ecclesiastici per l'avidità delle ricchezze ridussero la faccenda a tale, che oltre a dimenticarsi del loro proprio ufficio, ad altro non badando, che a tirare e rapire l'eredità de' defunti, furon cagione di molti abusi e gravi disordini, che perciò nella Repubblica si introdussero: tanto che obbligaron i Principi successori di Costantino a por freno a tanta licenza.

Ne' suoi tempi S. Giovan Crisostomo deplorava questi abusi, e si doleva, che dalle ricchezze delle Chiese n'erano nati due mali, l'uno che i laici cessavano d'esercitarsi nelle limosine: l'altro che gli Ecclesiastici, trascurando l'ufficio loro, ch'è la cura delle anime, diventavano Procuratori, Economi, e Dazieri, esercitando cose indegne del loro ministerio.

Non erano ancora cinquant'anni passati, da che Costantino promulgò quelle leggi, che per l'avarizia degli Ecclesiastici, sempre accorti in profittarsi della simplicità massimamente delle donne, fu costretto Valentiniano il Vecchio nell'anno 370 a richiesta forse, come suspicano alcuni, di Damaso Vescovo di Roma, di promulgare altra legge, con cui severamente proibì a' Preti ed a' Monaci di poter ricever sia per testamento, sia per atto tra' vivi qualunque eredità, o roba da vedove, da vergini o da qualsivoglia altra donna, proibendo loro, che non dovessero con quelle conversare, siccome purtroppo licenziosamente facevano; contro alla quale cattiva usanza declamarono ancora Ambrogio e Girolamo: e questa legge, oltre ad essere stata dirizzata a Damaso, fu ancora fatta pubblicare in tutte le chiese di Roma, perchè inviolabilmente si osservasse. Estese in oltre Valentiniano questa sua costituzione a' Vescovi, ed alle vergini a Dio sacrate, a' quali insieme con gli altri Cherici, e Monaci proibì simili acquisti.

Venti anni appresso per le medesime cagioni fu astretto Teodosio il Grande a promulgarne un'altra consimile, per la quale fu vietato alle Diaconesse per la soverchia conversazione, che tenevan con gli Ecclesiastici, di poter lasciare a' Monaci, o Cherici le loro robe in qualunque modo, che tentassero di farlo, anzi questo Principe vietò ancora alle medesime Diaconesse di poter lasciare eredi le Chiese, e nemmeno i poveri stessi, ciò, che Valentiniano non osò di fare: se bene Teodosio dopo due mesi rivocò in parte questa sua legge permettendo alle Diaconesse di poter lasciare a chi volessero i mobili: ancorchè l'Imperador Marciano nella sua Novella reputasse in tutto aver rivocata Teodosio la sua legge, siccome infine volle far egli, di che è da vedersi Giacomo Gotofredo ne' suoi lodatissimi Comentarj.

I Padri della Chiesa di questi tempi non si dolevano di tali leggi, nè che i Principi non potessero stabilirle, nè lor passò mai per pensiero, che perciò si fosse offesa l'immunità, o libertà della Chiesa; erano in questi tempi cotali voci inaudite, nè si sapevano; ma solamente dolevansi delle ragioni, che producevano tali effetti, e che mossero quegl'Imperadori a stabilirle, cioè di loro medesimi, e della pur troppa avarizia degli Ecclesiastici, che se l'aveano meritate: ecco come ne parla S. Ambrogio: Nobis etiam privatae successionis emolumenta recentibus legibus denegantur, et nemo conqueritur. Non enim putamus injuriam, quia dispendium non dolemus, etc. Più chiaramente lo disse S. Girolamo, scrivendo a Nepoziano; Pudet dicere, Sacerdotes Idolorum, Mimi, et Aurigae, et Scorta haereditates capiunt, solis Clericis, ac Monachis hac lege prohibetur: et non prohibetur a Persecutoribus, sed a Principibus Christianis. Nec de lege conqueror, sed doleo cur meruerimus hanc legem. Cauterium bonum est; sed quo mihi vulnus, ut indigeam cauterio? Provida, securaque legis cautio: et tamen nec sic refrenatur avaritia, per fideicommissa legibus illudimus, etc. Così è, che in questi tempi s'apparteneva alla giurisdizione, e potestà del Principe il rimediare a questi abusi, e dar quella licenza, o porre quel freno intorno agli acquisti de' beni temporali delle Chiese, ch'e' riputava più conveniente al bene del suo Stato. Ciò che ne' secoli men a noi remoti in tutti i dominj d'Europa fu dagli altri Principi lodevolmente, e senza taccia di temerità imitato. Così Carlo M. di gloriosa memoria praticò nella Sassonia; e nell'Inghilterra Odoardo I, e III, ed Errico V. Nella Francia lo stesso fu osservato da S. Lodovico, ch'è cosa molto notabile, e poi successivamente confermato da Filippo III, da Filippo il bello, da Carlo il bello, da Carlo V, da Francesco I, da Errico II, da Carlo IX e da Errico III. Ed abbiamo un arresto presso a Papponio, per cui il Senato di Parigi, proibì i nuovi acquisti a' Cartusiani, e Celestini. Nella Spagna Giacomo, Re d'Aragona statuì simili leggi ne' Regni soggetti a quella Corona; siccome nella Castiglia, in Portogallo, ed in tutti gli altri Regni di Spagna osservasi il medesimo, ci attestano Narbona, e Lodovico Molina: ed in varj luoghi di Germania, e della Fiandra si osservano consimili statuti. Nell'Olanda Guglielmo III Conte con suo editto dell'anno 1328 lo proibì severamente. E nell'Italia in Venezia, ed in Milano si pratica il medesimo: nè vi è provincia in Europa, nella quale i Principi non riconoscano appartenere ad essi, ed alla loro potestà fornire i loro Stati di simili provedimenti.

Nelle province, ch'ora compongon il nostro Reame di Napoli, se si riguardano i tempi, che corsero da Costantino fino a Valentiniano III, le nostre chiese, che già tuttavia in Napoli, e nelle altre città s'andavan da' Vescovi ergendo, non fecero considerabili acquisti: e si conosce chiaro dal vedersi, che non possono recar in mezzo altri titoli, se non procedenti, o da concessioni fatte loro da Principi Longobardi, o da Normanni, che furon più profusi degli altri, o finalmente da' Svevi, e dagli Angioini. I monasterj cominciarono nel principio del Regno de' Longobardi a rendersi, per gli acquisti, considerabili; ed ancorchè S. Benedetto nel tempo di Totila fosse stato il primo ad introdurgli in Italia, non si vide però quello di Monte Casino nella Campagna cotanto arricchito, se non nell'età de' Re Longobardi: ma col correr degli anni moltiplicossi in guisa il numero delle Chiese, e dei monasterj in queste nostre province, e gli acquisti furono così eccessivi, che non vi fu città o castello, piccolo o grande, che non ne rimanesse assorbito. Fu tal eccesso ne' tempi dell'Imperador Federico II represso per una sua legge, che oggi il giorno ancor si vede nelle nostre costituzioni, per la quale, imitando, come e' dice, i vestigi de' suoi predecessori, forse intendendo di questi Imperadori, o com'è più verisimile, de' Re Normanni suoi predecessori, la costituzione dei quali ciò riguardante si trova ora essersi dispersa, proibì ogni acquisto di stabili alle Chiese.

(La costituzione di Federico II riguardante la proibizione degli acquisti de' beni stabili alle Chiese, Monasterj, Templarj, ed altri luoghi religiosi, è una rinovazione della costituzione antica, che era nel Regno di Sicilia di qua e di là dal Faro, non già, che l'Imperadore riguardasse alle costituzioni del Codice di Teodosio, o di Giustiniano. Nelle risposte, che diedero i Vescovi di Erbipoli, di Wormes, Vercelli, e di Parma a Papa Gregorio IX sopra l'accuse fatte a questo Imperadore, che avesse spogliati i Templarj, e gli Ospitalieri de' stabili, che possedevano, dicono, che Federico non fece altro, che rivocare alcune compre, che essi aveano fatte in Sicilia di beni Burgensatici contro il prescritto di questa antica costituzione, che avea avuto nel Regno di Sicilia sempre vigore ed osservanza. Le parole dell'accusa, e della difesa sono le seguenti, le quali si leggono non meno presso Goldasto , che presso Lunig . Propositio Ecclesiae: Templarii et Hospitalarii bonis mobilibus et immobilibus spoliati, juxta tenorem pacis non sunt integre restituti. Responsio Imperialis: De Templariis et Hospitalariis verum est, quod per judicium, et per antiquam Constitutionem Regni Siciliae, revocata sunt feudalia, et burgasatica, quae habuerunt per concessionem Invasorum Regni, quibus equos, arma, victualia, et vinum, et omnia necessaria ministrabunt abunde, quando infestabant Imperatorem, et Imperatori, tunc Regi, pupillo, et destituto, omne omnino subsidium denegabant. Alia tamen feudalia et burgasatica dimissa sunt eis, qualitercumque ea acquisierunt et tenuerunt ante mortem Regis Willielmi II seu de quibus haberent concessionem alicujus Antecessorum suorum. Nonnulla vero burgasatica quae emerunt, revocata sunt ab eis secundum formam antiquae Constitutionis Regni Siciliae, quod nihil potest eis sine consensu Principis de burgasaticis inter vivos concedi, vel in ultima voluntate legari, quin post annum, mensem, septimanam, et diem, aliis burgensibus secularibus vendere, et concedere teneantur. Et hoc propterea fuit ab antiquo statutum, quia si libere eis, et perpetuo burgasatica liceret emere sive accipere, modico tempore totum Regnum Siciliae (quod inter Regiones mundi sibi habilius reputarent) emerent, et adquirerent; et hoc eadem Constitutio obtinet ultra mare).

Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre massime, che persuasero non potere il Principe rimediare a questi abusi; e riputata per ciò la costituzione di Federico, empia ed ingiuriosa all'immunità delle Chiese, si ritornò a' disordini di prima; e se la cosa fosse stata ristretta a que' termini, sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le Chiese, e' Monasterj abbondare di tanti Stati e ricchezze, ed in tanto numero, che piccola fatica resta loro d'assorbire quel poco, ch'è rimaso in potere dei secolari: ma di ciò più opportunamente si favellerà ne' libri seguenti, potendo bastare quel che finora s'è detto della politia ecclesiastica di queste nostre province del quarto, e metà del quinto secolo.

FINE DEL LIBRO SECONDO.

STORIA CIVILE

DEL

REGNO DI NAPOLI

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