CAPITOLO VI.

Dell'esterior politia ecclesiastica

La Chiesa ancorchè sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio, Principi religiosi, i quali quasi terminaron di distruggere l'Idolatria nell'Imperio romano, si vedesse, per quel che riguarda questa parte, in istato florido e tranquillo; nulladimeno fu combattuta da tante e sì varie eresie, che nè li numerosi e sì frequenti Concili, nè le molte costituzioni degl'Imperadori pubblicate contra gli eretici, bastaron per darle pace. La religione pagana, se bene sotto gl'Imperadori cristiani, imitando i sudditi l'esempio de' loro Sovrani, si fosse veduta in grandissima declinazione, nientedimeno, non essendosi reputato colla forza estinguerla affatto, anzi avendo gl'Imperadori suddetti per lungo tempo tollerato i templi de' Gentili, molte superstizioni pagane, ed il culto degli Dei, era quella da' più professata, ancorchè il numero de' Cristiani era molto maggiore di quello de' Pagani. Ma sotto gl'Imperadori Arcadio ed Onorio il Culto Gentile era quasi ridotto a nulla in tutte le città dell'Imperio: solamente ne' castelli, in Pagis, ed in Campagna era l'esercizio di quella religione mantenuto. Da questo venne il nome de' Pagani, che s'incontra spesso nel Codice di Teodosio, per significar gl'Idolatri: nome che lor era allora dato comunemente dal Popolo cristiano, in vece di quello di Gentili. Gl'Imperadori Teodosio il Giovane, e Valentiniano III, avviliron poi i Pagani in guisa, che vietando d'ammettergli alla milizia, ovvero ad altro Uficio, gli ridussero a segno, che l'istesso Imperador Teodosio mette in dubbio, se a' suoi tempi ve ne fosse rimaso pur uno: Paganos qui supersunt, quamquam jam nullos esse credamus . In fine gli condanna e gli proscrive; ed ordina, che se pur vi erano ancor rimasi lor tempj o cappelle, siano distrutte e convertite in chiese.

Ma con tutti gli sforzi di quest'Imperadori, restarono in Campagna, in Pagis, più antichi tempj, nei quali il culto degli Dei era sostenuto; e per maggiore tempo vi si mantenne, come quelli, che sono gli ultimi a deporre l'antiche usanze e costumi; tanto che nella nostra Campagna pur si narra, che S. Benedetto, a' tempi del Re Totila, abbattesse una reliquia di Gentilità ancor ivi rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'ergesse una chiesa. Restava ancor un'infinità di Nazioni barbare nelle tenebre dell'Idolatria; ma soprattutto assai più in questi tempi perturbavano la Chiesa le scorrerie de' Barbari ed i nuovi dominj stabiliti nell'Imperio da' Principi stranieri: questi o non in tutto spogliati del Paganesimo, ovvero per la maggior parte Arriani, tutta la sconvolsero e malmenarono; e se la Italia e queste nostre province non sofferirono sì strane rivoluzioni, tutto si dee alla pietà e moderazione del Re Teodorico, il quale, ancorchè Arriano, lasciò in pace le nostre Chiese; e siccome non variò la politia dello Stato civile e temporale, così ancora volle mantenere in Italia l'istessa forma e politia dello Stato ecclesiastico e spirituale.

Lo stesso avvenne, ma per altra cagione, alla Gallia, mercè della conversione del famoso Clodoveo Re de' Franzesi, il quale nell'anno 496 ricevette la religione cristiana tutta pura e limpida, non già contaminata dalla pestilente eresia d'Arrio. Non ebbero prima di Reccaredo questa fortuna le Spagne: non l'Affrica manomessa da' Vandali: non la Germania soggiogata dagli Alemanni, e da altre più inculte e barbare Nazioni; non la Brettagna invasa da' Sassoni; non finalmente tutte l'altre province dell'Imperio d'Occidente. Maggiori revoluzioni e disordini si videro nelle province d'Oriente. Gli Unni sotto il loro famoso Re Attila, gli Alani, i Gepidi, gli Ostrogoti, ed ultimamente i Saraceni posero in iscompiglio non meno lo stato dell'Imperio, che della Chiesa.

A tutti questi mali s'aggiunse l'ambizione de' Vescovi delle sedi maggiori, e l'abuso della potestà degl'Imperadori d'Oriente, i quali ridussero il Sacerdozio in tale stato, che negli ultimi tempi ad arbitrio del Principe sottomisero interamente la religione. Queste furono le cagioni di quella variazione, che nello Stato ecclesiastico osserveremo dalla morte di Valentiniano III, fin all'Imperio di Giustiniano. Vedremo, come quasi depressi e posti a terra tre Patriarcati, l'Alessandrino, l'Antiocheno e quello di Gerusalemme, fossero surti quello di Roma in Occidente, l'altro di Costantinopoli in Oriente, le cui Chiese discordanti fra loro, cagionaron una implacabil ed ostinata divisione fra' Latini e' Greci: e come quel di Costantinopoli, non essendo la di lui ambizione da termine o confine alcuno circoscritta, tentasse eziandio invadere il Patriarcato di Roma, e queste nostre province, ancorchè come suburbicarie a quello di Roma s'appartenessero.

§. I. Del Patriarca d'Occidente.

Il Pontefice romano, che in questi tempi non meno da' Greci che da' Latini cominciò a chiamarsi Patriarca, ragionevolmente ottenne il primo luogo fra tutti i Patriarchi, così per esser fondata la sua sede in Roma, città un tempo Capo del Mondo; come anche per esser egli successor di S. Pietro, che fu Capo degli Appostoli. Nella sua persona s'uniron perciò le prerogative di Primate sopra tutte le Chiese del Mondo cattolico, appartenendo a lui, come Capo di tutte le Chiese aver delle medesime cura e pensiero, invigilare, ch'in quelle la fede fosse conservata pura ed illibata, e la disciplina conforme a' canoni, e che questi fossero esattamente osservati. L'ordinaria sua potestà, siccome s'è veduto nel precedente libro, non si stendeva oltre alle province suburbicarie, cioè a quelle, che ubbidivano al Vicario di Roma, fra le quali eran tutte le quattro nostre province, onde ora si compone il Regno; ed in questi limiti s'è veduto essersi contenuta fin al tempo di Valentiniano.

In decorso di tempo, perchè nella sua persona andavan anche unite le prerogative di Primate, fu cosa molto facile di stenderla sopra l'altre province. Per ragion del Primato s'apparteneva anche a lui averne cura e pensiero: quindi cominciò in alcune province, dove credette esservene bisogno, a mandarvi suoi Vicarj. I primi che s'istituirono, furon quelli, che mandò nell'Illirico: Tessaglia, ch'era Capo della diocesi di Macedonia, nella quale il suo Vescovo esercitava le ragioni Esarcali, da poi che riconobbe i Vicarj mandati dal Pontefice romano, si vide sottoposta al Patriarca di Roma, il quale per mezzo de' medesimi, non pur le ragioni di Primate, ma anche le patriarcali vi esercitava; e così avvenne ancora, oltre alla Macedonia, nell'altre province dell'Illirico. Col correr poi degli anni non solo all'autorità sua patriarcale sottopose l'intera Italia, ma anche le Gallie e le Spagne; ond'è che non solo da' Latini, ma da' Greci medesimi degli ultimi tempi era reputato il romano Pontefice Patriarca di tutto l'Occidente; siccome all'incontro volevano, che quel di Costantinopoli si riputasse Patriarca di tutto l'Oriente. S'aggiunse ancora, che a molte province e Nazioni, che si riducevan alla fede della religion cattolica, erano pronti e solleciti i Pontefici romani a mandarvi Prelati per governarle, ed in questa maniera al loro Patriarcato le soggettavano: siccome accadde alla Bulgaria, la quale ridotta che fu alla fede di Cristo, tosto le si diede un Arcivescovo; onde nacquero le tante contese per questa provincia col Patriarca di Costantinopoli, che a se pretendeva aggiudicarla. In cotal guisa tratto tratto i Pontefici romani estesero i confini del loro Patriarcato per tutt'Occidente; ond'avvenne (non senza però gravissimi contrasti) che s'arrogaron essi la potestà di ordinare i Vescovi per tutto l'Occidente, ed in conseguenza l'abbattere e mettere a terra le ragioni di tutti i Metropolitani. Di vantaggio trassero a se l'ordinazioni de' Metropolitani stessi. Così quando prima l'Arcivescovo di Milano, ch'era l'Esarca di tutto il Vicariato d'Italia, era ordinato da' soli Vescovi d'Italia, come si legge appresso Teodorito dell'ordinazione di S. Ambrogio, in processo di tempo i romani Pontefici alla loro ordinazione vollero, che si ricercasse ancora il loro consenso, come rapporta S. Gregorio nelle sue Epistole. Trassero a se ancora tutte le ragioni de' Metropolitani intorno all'ordinazioni per la concessione del Pallio, che lor mandavane; poichè per quello si dava da' Sommi Pontefici piena potestà a' Metropolitani d'ordinare i Vescovi della provincia; onde ne seguiva, che a' medesimi insieme col Pallio si concedeva tal potestà: quindi fu per nuovo diritto interdetto a' Metropolitani di poter esercitare tutte le funzioni Vescovili, se non prima ricevevano il Pallio; e fu introdotto ancora di dover prestare al Papa il giuramento della fedeltà, che da lui ricercavasi. Fu ancora in progresso di tempo stabilito, che l'appellazioni de' giudicj, che da' Metropolitani erano proferiti intorno alle controversie, che occorrevano per l'elezioni, si devolvessero al Pontefice romano: che se gli elettori fossero negligenti, ovver l'eletto non fosse idoneo, che l'elezione si devolvesse al Papa: che di lui solo fosse il diritto d'ammettere le cessioni de' Vescovati, e di determinare le traslazioni e le Coadjutorie colla futura successione: e finalmente che a lui s'appartenesse la confermazione dell'elezioni di tutti i Vescovi delle province.

Ma tutte queste intraprese, che si videro sopra le altre province d'Occidente, non portarono variazione alcuna in queste nostre, onde ora si compone il Regno; poichè essendo quelle suburbicarie, e su le quali il Papa fin da principio esercitò sempre le sue ragioni patriarcali, furono come prima a lui sottoposte; nè perciò si tolse ragione alcuna a' Metropolitani, poichè non ve n'erano; nè intorno all'ordinazioni dei Vescovi si variò la disciplina de' precedenti secoli. Non ancora le nostre Chiese erano innalzate ad esser metropoli; nè anche per la concession del Pallio, a' loro Vescovi eran concedute, come fu fatto da poi, le ragioni de' Metropolitani: nè fin a questo tempo erano state invase dal Patriarca di Costantinopoli; poichè ciò che si narra di Pietro Vescovo di Bari, che nell'anno 530 sotto il Ponteficato di Felice IV avesse dal Patriarca di Costantinopoli ricevuto il titolo di Arcivescovo, e l'autorità di Metropolitano, con facoltà di poter consecrare dodici Vescovi per la sua provincia di Puglia, non dee a quell'anno riportarsi, quando queste province non erano state ancora dai Greci invase, ed erano sotto la dominazione d'Atalarico Re de' Goti, ma ne' tempi seguenti, quando sotto gl'Imperadori d'Oriente essendo rimasa parte della Puglia e Calabria, della Lucania e Bruzio, e molte altre città marittime dell'altre province, i Patriarchi di Costantinopoli, col favore degl'Imperadori, s'usurparono in quelle le ragioni patriarcali, come diremo ne' seguenti libri.

§. II. Del Patriarca d'Oriente.

Se grandi furono l'intraprese del Patriarca di Roma sopra tutte le province d'Occidente, maggiori e più audaci senza dubbio furon quelle del Patriarca di Costantinopoli in Oriente: egli non solamente sottopose al suo Patriarcato le tre diocesi Autocefale, l'Asiana, quella di Ponto, e la Tracia; ma col correr degli anni, quasi estinse i tre celebri Patriarcati d'Oriente, l'Alessandrino, l'Antiocheno e l'ultimo di Gerusalemme. Nè contenta la sua ambizione di questi confini, invase anche molte province d'Occidente, nè perdonò a queste nostre, che per tutte le ragioni al Patriarcato di Roma s'appartenevano.

Da quali bassi e tenui principj avesse il Patriarcato di Costantinopoli cominciamento, si vide nel precedente libro. Il Vescovo di Bizanzio prima non era, che un semplice suffraganeo del Vescovo d'Eraclea, il quale presiedeva come Esarca nella Tracia. Sopra tutti erano in Oriente celebri ed eminenti due Patriarcati, l'Alessandrino e l'Antiocheno. Quello di Alessandria teneva il secondo luogo dopo il Patriarca di Roma, forse perchè Alessandria era riputata dopo Roma la seconda città del Mondo: l'altro d'Antiochia teneva il terzo luogo, ragguardevole ancora per la memoria, che serbava d'avervi S. Pietro tenuta la sua prima Cattedra. Così le tre parti del Mondo tre Chiese parimente riconobbero superiori sopra tutte le altre: l'Occidente quella di Roma, l'Oriente quella di Antiochia, ed il Mezzogiorno quella d'Alessandria. Non è però, che sopra tutta Europa esercitasse la sua potestà patriarcale quel di Roma, ovvero quello d'Antiochia per tutta l'Asia, e l'altro d'Alessandria in tutta l'Affrica: ciascuno, come s'è veduto nel secondo libro, non estendeva la sua potestà, che nella diocesi a se sottoposta: l'altre ubbidivano agli Esarchi proprj: e molti altri luoghi ebbero ancora i loro Vescovi Autocefali, cioè a niun sottoposti. Tali furon in Oriente i Vescovi di Cartagine e di Cipro. Tali furon un tempo nell'Occidente i Vescovi della Gallia, della Spagna, della Germania e dell'altre più remote regioni. Le Chiese de' Barbari certamente non furon soggette ad alcun Patriarca, ma si governavano da' loro proprj Vescovi. Così le Chiese d'Etiopia, della Persia, dell'Indie e dell'altre regioni, ch'eran fuori del romano Imperio, da' loro proprj Sacerdoti venivano governate.

Vide ancora l'Oriente un altro Patriarca, e fu quello di Gerusalemme. Se si riguarda la disposizione dell'Imperio, non meno, che il Vescovo di Bizanzio, meritava tal prerogativa il Vescovo di Gerusalemme; e siccome quegli era suffraganeo al Metropolitano di Eraclea nella Tracia, così questi era suffraganeo al Vescovo di Cesarea, metropoli della Palestina: ma forse con più ragione si diedero gli onori di Patriarca al Vescovo di Gerusalemme: fin da' tempi degli Appostoli fu riputato un gran pregio il sedere in questa Cattedra posta nella città santa, dove il nostro Redentore instituì la sua Chiesa, e dalla quale il Vangelo per tutte l'altre parti del Mondo fu disseminato; dove l'Autor della vita conversò fra noi, ove di mille sanguinosi rivi lasciò asperso il terreno:

Dove morì, dove sepolto fue,

Dove poi rivestì le membra sue.

Ma se altrove in ben mille esempj si vide, come la politia della Chiesa secondasse quella dell'Imperio, e come al suo variare mutasse ancor ella forma e disposizione, certamente per niun altro convincesi più fortemente questa verità, che per l'ingrandimento del Patriarcato di Costantinopoli. Da che Costantino il Grande rendè cotanto illustre e magnifica quella città, che la fece sede dell'Imperio d'Oriente, con impegno di renderla uguale a Roma, e che fosse riputata dopo quella la seconda città del Mondo; cominciò il suo Vescovo anch'egli ad estollere il capo, ed a scuotere il giogo del proprio Metropolitano. Per essere stata riputata Costantinopoli un'altra Roma, ecco che nel Concilio costantinopolitano vengon al suo Vescovo conceduti i primi onori dopo quella, eo quod sit nova Roma. Così quando prima, dopo il romano, i primi onori erano del Patriarca d'Alessandria, sottentra ora quello di Costantinopoli ad occupare il suo luogo. Egli è vero, come ben pruova Dupino, che i soli onori furon a lui dal Concilio conceduti, non già veruna patriarcal giurisdizione sopra le tre diocesi autocefale: ma tanto bastò, che collo specioso pretesto di questi onori, cominciasse egli le sue intraprese; non passò guari, che invase la Tracia, ed esercitando ivi le ragioni esarcali, si rendè Esarca di quella diocesi, ed oscurò le ragioni del Vescovo di Eraclea.

Dopo essersi stabilito nella Tracia, lo spinse la sua ambizione a dilatar più oltre i suoi confini: invade le vicine diocesi, cioè l'Asia e Ponto, ed in fine al suo Patriarcato le sottopone. Non in un tratto le sorprende, ma di tempo in tempo col favor de' Concilj, e più degl'Imperadori. S. Giovan Crisostomo più di tutti gli altri Vescovi di Costantinopoli aprì la strada d'interamente occuparle: in fine venne ad appropriarsi non solo la potestà d'ordinar egli i Metropolitani dell'Asia e di Ponto, ma ottenne legge dall'Imperadore, che niuno senza autorità del Patriarca di Costantinopoli potesse ordinarsi Vescovo; onde appoggiato su questa legge, si fece lecito poi ordinare anche i semplici Vescovi. Ecco come i Patriarchi di Costantinopoli occuparono l'Asia e Ponto; ciò che poi, per render più ferme le loro conquiste, si fecion confermare dal Concilio di Calcedonia e dagli editti degl'Imperadori. S'opposero a tanto ingrandimento i Pontefici romani: Lione il Santo glie le contrastò, il simile fecero i suoi successori, e sopra tutti Gelasio, che tenne la Cattedra di Roma dall'anno 492 sino all'anno 496. Ma tutti i loro sforzi riusciron vani, poichè tenendo i Patriarchi di Costantinopoli tutto il favor degl'Imperadori, fu loro sempre non meno confermato il secondo grado d'onore dopo il Patriarca di Roma, che la giurisdizione in Ponto, nell'Asia e nella Tracia. L'Imperador Basilisco in un suo editto rapportato da Evagrio glie le rattificò: l'Imperador Zenone fece l'istesso per una sua costituzione, ch'ancor si legge nel nostro Codice; e finalmente il nostro Giustiniano con sua Novella, secondando quel che da' canoni del Concilio di Calcedonia era stato statuito, comandò il medesimo. Ciò che poi fu abbracciato dal consenso della Chiesa Universale; poichè essendo stati inseriti i canoni de' Concilj costantinopolitano e calcedonense ne' Codici de' canoni delle Chiese, fu ne' seguenti secoli tenuto per costante, il Patriarca di Costantinopoli tener il secondo grado di onore, e la giurisdizione sopra tutte le tre quelle diocesi.

Ecco come questo Patriarca si lasciò indietro gli altri tre, ch'erano in Oriente: quelle tre sedi non pure per lo di lui ingrandimento e per le frequenti scorrerie de' Barbari, che invasero le loro diocesi, ma assai più per le sedizioni e contrasti, che sovente insorsero fra loro intorn'all'elezioni, e intorno a' dogmi ed alla disciplina, perderon il loro antico lustro e splendore; e da allora innanzi con quest'ordine si cominciaron a numerare le sedi patriarcali: la romana: la costantinopolitana: l'alessandrina: l'antiochena: e la gerosolimitana. Quest'ordine tenne il Concilio di Costantinopoli celebrato nell'anno 536. Questo medesimo tenne Giustiniano nel Codice e nelle sue Novelle, e tennero tutti gli altri Scrittori non meno greci, che latini. Non ancora però il nome di Patriarca erasi ristretto solamente a questi cinque: alcune volte soleva ancor darsi ad insigni Metropolitani: così nel sopraccitato Concilio di Costantinopoli si diede anche ad Epifanio Vescovo di Tiro; e Giustiniano così nel Codice, come nelle Novelle dà generalmente questo nome agli Esarchi, ch'avevan il governo di qualche diocesi: non molto da poi però in Oriente questo nome si restrinse a que' soli cinque.

Ma in Occidente si continuò come prima a darsi ad altri Vescovi e Metropolitani. In Italia il nostro Re Atalarico, appresso Cassiodoro, chiamò i Vescovi d'Italia Patriarchi, ed il romano Pontefice loro Capo, lo chiamò per tal riguardo Vescovo de' Patriarchi. Da Paolo Varnefrido i Vescovi d Aquileja e di Grado sono anche nominati Patriarchi. In Francia questo nome fu anche dato a' più celebri Metropolitani, ed a' Primati. Gregorio di Tours chiamò Nicezio, Patriarca di Lione. Il Concilio di Mascon celebrato nell'anno 583 chiamò Prisco Vescovo di quella città anche Patriarca. Desiderio di Cahors appellò ancora Sulpizio Vescovo di Bourges Patriarca: ed Inemaro di Rems non distingue i Patriarchi da' Primati. Così ancora nell'Affrica il primo Vescovo de' Vandali assunse il nome di Patriarca, ciò che non senza riso fu inteso da' Vescovi cattolici; ed in decorso di tempo presso a quelle Nazioni, che si riducevan alla fede di Cristo, il primo Vescovo ch'era loro dato, fu detto Patriarca. Ridotta la Bulgaria alla nostra fede, l'Arcivescovo, che se le diede, ed i suoi successori presero il nome di Patriarca. Simili Patriarchi hanno ora i Cristiani d'Oriente, dove, toltone quelli, che propriamente si dicono Greci, i quali ritengon tuttavia i quattro Patriarchi, il costantinopolitano, l'alessandrino, l'antiocheno e 'l gerosolimitano, ancorchè i Pontefici romani soglian essi parimente creargli titolari: quante Sette vi sono, altrettanti Patriarchi si contano; così i Giacobiti hanno il lor Patriarca: hannolo i Maroniti, e gli uni e gli altri prendon il nome di Patriarca d'Antiochia. I Cophti hanno ancora il Patriarca, che si fa chiamare Alessandrino, e tien la sua sede in Alessandria. Gli Abissini hanno il loro, che regge tutta l'Etiopia, ancorchè al Patriarca de' Cophti sia in qualche maniera soggetto. I Giorgiani hanno un Arcivescovo Autocefalo a niun sottoposto. Gli Armeni hanno due generali Patriarchi: il primo risiede in Arad, città dell'Armenia; l'altro in Cis, città di Caramania.

Abbiam veduto quanto s'innalzasse il Patriarca di Costantinopoli sopra gli altri Patriarchi d'Oriente, e quanto stendesse i confini del suo Patriarcato in questo secolo, fin all'Imperio di Giustino. Ne' due secoli seguenti lo vedremo fatto assai più grande, volare sopra altre province e Nazioni; poichè non contenta la sua ambizione di questi confini, ne' tempi di Lione Isaurico lo vedremo occupare l'Illirico, Epiro, Acaja e la Macedonia: lo vedrem ancora soggettarsi al suo Patriarcato la Sicilia e molte Chiese di queste nostre province, e contendere in fine col Pontefice romano per la Bulgaria e per le altre regioni.

§. III. Politia ecclesiastica di queste nostre province

sotto i Goti e sotto i Greci, fin a' tempi di Giustino II.

Teodorico e gli altri Re ostrogoti suoi successori, ancorchè arriani, lasciarono, come s'è detto, le nostre Chiese in pace;, e quella medesima politia che trovarono, fu da lor mantenuta inviolata ed intatta. Il Pontefice romano vi fu mantenuto, ed in queste nostre province, come suburbicarie, esercitava, come prima, l'autorità sua patriarcale, anzi era riconosciuto come Patriarca insieme e Metropolitano; poichè infin a questi tempi le nostre metropoli, in quanto alla politia ecclesiastica, non ebbero Arcivescovo o Metropolitano alcuno: nelle città, come prima, erano semplici Vescovi, riconoscenti il Pontefice romano, come lor Metropolitano: quindi Atalarico, che a' Vescovi soleva dar anche il nome di Patriarca, chiamollo Vescovo de' Patriarchi. E se in alcune città d'Italia, nel Regno de' Goti e de' Longobardi ancora, i quali furono parimente arriani, si videro in una stessa città due Cattedre occupate da due Vescovi, l'uno cattolico, l'altro arriano; in queste nostre province, le quali si mantennero sempre salde, e non furon mai contaminate dagli errori d'Arrio, i Vescovi professaron tutti la fede di Nicea, e serbaron le lor Chiese pure ed illibate, e mantennero gli antichi dogmi e quella disciplina, che serbava la romana Chiesa, loro maestra e condottiera. I Vescovi governavan le lor Chiese col comun consiglio del Presbiterio. Non si ravvisava in quelle altra Gerarchia, se non di Preti, Diaconi, Sottodiaconi, Acoliti, Esorcisti, Lettori ed Ostiarj.

I Vescovi eran ancora detti dal Clero e dal Popolo, e ordinati dal Papa, come prima, ancorchè il favor de' Principi vi cominciasse ad avere la sua parte: Grozio portò opinione, che i Re goti, o arriani o cattolici che fossero, semper Episcoporum electiones in sua potestate habuere, e rapporta essersi anche ciò osservato da Giovanni Garzia: ma da' nostri Re goti non si vide sopra ciò essersi usata altra potestà, se non quella, ch'esercitarono gl'Imperadori, così d'Occidente, come d'Oriente. Essi, come custodi e protettori della Chiesa, e come quelli, che reputavan appartener loro anche il governo e l'esterior politia della medesima, credettero esser della lor potestà ed incumbenza di regolare con loro leggi l'elezioni, proibire l'ambizioni, dar riparo a' disordini e tumulti sediziosi, e sovente prevenirgli; riparar gli sconcerti, che allo spesso accadevan per le fazioni delle parti, e far decidere le controversie, che per queste elezioni solevano sorgere; ma l'elezione al Clero ed al Popolo la lasciavano, siccome l'ordinazione a' Vescovi provinciali, ovvero al Metropolitano. Odoacre Re degli Eruli, più immediato successore di Teodorico in Italia alle ragioni degli Imperadori d'Occidente, nell'elezione del Vescovo di Roma e degli altri d'Italia, vi volle avere la medesima parte: Basilio suo Prefetto Pretorio vi invigilò sempre, anche, come e' diceva, per ammonizione del Pontefice Simplicio, il quale gl'incaricò, che, morendo, niuna elezione si facesse senza il suo consiglio e guida.

Ad esempio di quel, che fece l'Imperador Onorio nello scisma della Chiesa di Roma fra Bonifacio ed Eulalio, si osserva che Teodorico usasse della medesima autorità per l'altro insorto ne' suoi tempi in Roma fra Lorenzo e Simmaco. Per la morte accaduta nel fine dell'anno 498 di Papa Anastasio, pretendevano ambedue essere innalzati su quella sede: Simmaco Diacono di quella Chiesa fu da maggior numero eletto ed ordinato: ma Festo Senator di Roma, che avea promesso all'Imperador Anastasio di far eleggere un Papa, che sarebbe stato ubbidiente a' suoi desideri, fece eleggere ed ordinare Lorenzo. I due partiti portarons'in Ravenna a ritrovare il Re Teodorico, il quale giudicò, che dovesse rimaner Vescovo di Roma colui, il quale fosse stato eletto il primo, ed avesse avuto il maggior numero de' suffragi: Simmaco avea sopra Lorenzo ambedue questi vantaggi; onde fu confermato nel possesso di quella sede, e nel primo anno del suo Ponteficato tenne un Concilio, dove furon di nuovo fatti alcuni canoni per impedir nell'avvenire le competenze in simili elezioni. Quelli che s'eran opposti all'ordinazione di Simmaco, vedendolo lor mal grado in possesso, fecero tutti i loro sforzi, perchè ne fosse scacciato; gli attribuiron perciò molti delitti, sollevaron una gran parte del Popolo e del Senato contro di esso, e domandaron al Re Teodorico un Visitatore, cui delegasse la conoscenza di queste accuse: Teodorico nominò Pietro, Vescovo di Altino, il quale precipitosamente, e contra il diritto, spogliò incontanente il Papa dell'amministrazione della sua diocesi e di tutte le facoltà della Chiesa: questa azione sì precipitosa eccitò in Roma gravi sconcerti, e perniziosi tumulti; Teodorico per acquetargli fece tosto nell'anno 501 convocare un Concilio in Roma, al quale invitò tutti i Vescovi d'Italia. V'andarono quasi tutti i Vescovi della nostra Campagna, quel di Capua, di Napoli, di Nola, di Cuma, di Miseno, di Pozzuoli, di Sorrento, di Stabia, di Venafro, di Sessa, d'Alife, d'Avellino, ed alcuni altri dell'altre città di questa provincia. Dal Sannio vi si portarono i Vescovi di Benevento, d'Isernia, di Bojano, d'Atina, di Chieti, di Amiterno ed altri.

Da queste due province, come più a Roma vicine, ve ne andaron moltissimi: dall'altre due, come dalla Puglia e Calabria, e dalla Lucania e Bruzio, come più da Roma lontane, e più a' Greci vicine, ve ne andaron molto pochi. Vi vennero ancora i Vescovi di Emilia, di Liguria e di Venezia, i quali, passando per Ravenna, parlaron a Teodorico in favor di Simmaco; ed essendo giunti in Roma, senza volere imprendere ad esaminare l'accuse proposte contra Simmaco, lo dichiararono, innanzi al Popolo, innocente ed assoluto; e s'adoperaron in guisa col Re Teodorico, che si contentò di quella sentenza; ed il Popolo col Senato, ch'erano molto irritati contro al Papa, si placarono e lo riconobbero per vero Pontefice. Restarono tuttavia alcuni mal contenti, che produssero contra quello Sinodo una scrittura; ma Ennodio Vescovo di Pavia vi fece la risposta, la quale fu approvata in un altro Concilio tenuto in Roma nell'anno 503, nel quale la sentenza del primo Sinodo fu confermata. Le calunnie inventate contra Simmaco passaron fino in Oriente, e l'Imperador Anastasio, ch'era separato dalla comunione della Chiesa romana, glie le rinfacciò; Simmaco con una scrittura apologetica si giustificò assai bene; il quale, mal grado de' suoi nemici, dimorò pacifico possessor di quella sede fin all'anno 514, che fu quello della sua morte.

Fu in questi tempi riputato così proprio de' Principi di regolare queste elezioni, per evitar gli ambimenti e le sedizioni, che Atalarico mosso da' precedenti scismi, accaduti in Roma per l'elezione de' loro Vescovi, volendo dare una norma nell'avvenire, affinchè non accadessero consimili disordini, imitando gli Imperadori Lione ed Antemio, fece un rigoroso editto, che dirizzò a Gio. II, romano Pontefice, il quale nell'anno 532 era succeduto a Bonifacio su la sede di Roma, con cui regolò l'elezioni non solamente dei Pontefici romani, ma anche di tutti i Metropolitani e Vescovi, imponendo gravissime pene a coloro, i quali per ambizione, o per denaro aspirassero ad occupar le sedi, dichiarandogli sacrileghi ed infami, e che oltre alla restituzion del denaro, ed altre gravi ammende, da impiegarsi alla reparazione delle fabbriche delle Chiese, ed a' Ministri di quelle, sarebbono stati severamente puniti da' suoi Giudici, e le lor elezioni, come simoniache, avute per nulle ed invalide: diede con questo editto altre providenze per evitare l'altercazioni e litigi sull'elezioni, le quali riportate al suo palazzo da' Popoli, egli n'avrebbe tosto presa cura, e dato provedimento, dichiarando, che ciò che egli stabiliva per questo suo editto, s'appartenesse non solo per l'elezione del Vescovo di Roma, sed etiam ad universos Patriarchas, atque Metropolitanas Ecclesias. Fu questo editto istromentato per Cassiodoro, il quale ancorchè cattolico, e nelle cose ecclesiastiche versatissimo, tanto che oggi vien annoverato fra li non inferiori Scrittori della Chiesa, e da alcuni riputato per Santo, forse perchè morì monaco Cassinese, non ebbe alcun riparo di non solamente istrumentarlo, ma consigliarlo ancora, come assai opportuno, al suo Principe; nè fu riputato, secondo le massime di questo secolo, estranio e lontano dalla sua real potestà. Fu dirizzato a Papa Giovanni II, che lo ricevè con molto rispetto e stima, nè se ne dolse; anzi se è vero esser sua quell'epistola, che leggiamo fra le leggi del Codice, scritta all'Imperador Giustiniano, dove tanto commenda il suo studio intorno alla disciplina ecclesiastica (poichè Ottomano, ed altri ne dubitano, ancorchè venga difesa da Fachineo), si vede che questo Pontefice non contrastò mai a' Principi quella potestà, che s'attribuivano sopra la disciplina della Chiesa. E di vantaggio Atalarico lo mandò ancora a Salvanzio, che si trovava allora Prefetto della città di Roma, acciocchè dovesse senza frapporvi dimora pubblicarlo al Senato e Popolo romano; anzi perchè di ciò ne rimanesse perpetua memoria ne' futuri secoli, ordinogli, che lo facesse scolpire nelle tavole di marmo, le quali dovesse egli porre avanti l'atrio di S. Pietro Appostolo per pubblica testimonianza.

Vollero i Re goti, come successori degl'Imperadori d'Occidente, mantener tutte quelle prerogative, che costoro avevan esercitate intorno all'esterior politia ecclesiastica, delle quali ne rendono testimonianza le tante loro costituzioni, registrate nell'ultimo libro del Codice di Teodosio. Così appartenendo ad essi lo stabilire i gradi, dentro a' quali potevan contraersi le nozze, vietare i matrimonj ne' gradi più prossimi, dispensargli per mezzo di loro rescritti, ed avere la conoscenza delle cause matrimoniali, non dee parer cosa nuova, se tra le formole dettate da Cassiodoro, si legga ancora quella de' nostri Re goti, formata per le dispense, che solevan concedere nei gradi proibiti dalle leggi. Così ancora, imitando ciò che fecero gl'Imperadori d'Occidente e d'Oriente di non permettere assolutamente e senza lor consenso ai loro sudditi di ascriversi alle chiese o monasteri, di che ne restano molti vestigi nel Codice Teodosiano: fu de' Goti ancora, come scrive Grozio, non minus laudanda cautio, quod subditorum suorum neminem permisere se Ecclesiis, aut Monasteriis mancipare, suo impermissu.

La medesima politia intorno a ciò fu ritenuta in queste nostre province, quando da' Goti passarono sotto gl'Imperadori d'Oriente, e molto più sotto l'Imperio di Giustiniano. Gl'Imperadori d'Oriente calcaron ancora le medesime pedate; e dell'Imperador Marciano, che in ciò fu il più moderato di tutti, siccome scrisse Facondo, Vescovo d'Ermiana in Affrica, si leggono molti editti appartenenti all'esterior politia della Chiesa. L'Imperador Lione, imitato da poi da Atalarico, proibì ancora a' Vescovi l'elezione per ambizione e per simonia; ed oltre alla pena della degradazione imposta dal Concilio di Calcedonia, v'aggiunse egli quella dell'infamia; ed Antemio fece il medesimo. Ma sopra tutti gli altri Imperadori d'Oriente, Giustiniano fu quegli, che della disciplina ecclesiastica prese maggior cura e pensiero: donde nacque, che gli ultimi Imperadori d'Oriente, non sapendo tener poi in ciò regola nè misura, s'avanzaron tant'innanzi, che finalmente sottoposero interamente il Sacerdozio all'autorità del Principe. Le sue Novelle per la maggior parte sono ripiene di tanti editti sopra la disciplina della Chiesa, che vien perciò egli arrolato nel numero degli Autori ecclesiastici: egli più leggi stabilì intorno all'ordinazion de' Vescovi, della loro età, de' requisiti, che debbon aver coloro per esser eletti e promossi al Vescovado, della loro residenza, della loro nozione e privilegi, ed infinite altre cose a quelli appartenenti. Regolò le convocazioni de' Sinodi e de' Concilj, e loro prescrisse il tempo. Diede varj provedimenti intorno a' costumi e condotta de' Preti, Diaconi, e Sottodiaconi, delle loro esenzioni e cariche personali. Fece molti editti riguardanti la degradazione de' Cherici, ed intorno alla regolarità e professione de' Monaci. Diede con sue leggi maggior forza e vigore a' canoni che furono stabiliti in varj Concilj, imponendo a' Metropolitani, a' Vescovi, ed a tutti gli Ecclesiastici l'osservanza di essi; aggiungendo gravi pene a coloro, che a quelli contravvenissero, d'esser deposti e degradati dal lor Ordine; e moltissimi altri editti sopra le cose ecclesiastiche stabilì, che possono vedersi nelle sue Novelle, e nel suo Codice.

Appartenevasi ancora all'economia del Principe impedire a' Vescovi l'abuso delle chiavi. Così quando essi s'abusavano delle scomuniche, tosto lor s'opponevano; e Giustiniano stesso con sua legge proibì a' Vescovi le scomuniche, se prima la cagione non fosse giustificata: e ne' Basilici ancor si vede con particolar legge proibito a' Vescovi di scomunicar senza giusta cagione, e quando non concorrano i requisiti da' canoni prescritti. Quindi avvenne, che i Principi ne' loro Reami, che in Europa stabilirono dopo la decadenza dell'Imperio romano, vi vollero mantenere questo diritto, come praticano gli Spagnuoli ed i Franzesi, e come ancora veggiamo tuttodì in questo nostro Reame; di che altrove ci sarà data occasione d'un più lungo discorso. Nè in questi tempi furono queste leggi reputate come eccedenti la potestà imperiale; anzi furon queste di Giustiniano comunemente ricevute non men in Oriente, che in Occidente, come ne rendon testimonianza Gio: Scolastico Patriarca di Costantinopoli, S. Gregorio M., Inemaro,, ed altri: e se non è apocrifa la sua epistola, che si legge nel nostro Codice, di sì fatta cura e pensiero, ch'egli mostrò verso l'ecclesiastica disciplina, n'ebbe per commendatore, e panegirista l'istesso Giovanni, romano Pontefice.

Le medesime pedate furon calcate da Giustino suo successore, sotto l'Imperio del quale ora veggiamo queste nostre province. Per la qual cosa non fu insin a questo tempo (per ciò che s'attiene a questa parte) variata la politia ecclesiastica di queste nostre province, ma da' Goti e da' Greci fu ritenuta la medesima, che si vide ne' secoli precedenti sotto i successori di Costantino, fin a Valentiniano III, Imperador d'Occidente.

§. IV. De' Monaci.

Cominciarono però in questo secolo le nostre province a sentir qualche mutazione per riguardo del monachismo, che di tali tempi ebbe nelle medesime la perfezione e lo stabilimento. Come si vide nel precedente libro, non ancora fino a' tempi di Valentiniano, eransi in queste nostre parti stabiliti i Solitarj, o Cenobiti: ma ecco, ch'essendosi l'Ordine monastico perfezionato in Oriente, tanto per le leggi degl'Imperadori, quanto da' varj trattati ascetici, e divenuto sopra tutti gli Ordini quello di S. Basilio celebre e numeroso, che in due nostre province più a' Greci vicine, cioè nella Puglia e Calabria, nella Lucania e Bruzj, comincian a fondarsi, in alcune città delle medesime, monasteri di quell'Ordine, che Basiliani furon appellati.

Nelle due altre, quanto più a' Greci lontane, tanto più a Roma vicine, cioè nella Campagna, e nel Sannio, vedi stabilito il monachismo per molte regole, ma sopra tutte per quella di S. Benedetto, il cui Ordine fu sì avventuroso, che stabilito nella nostra Campagna, si sparse in poco tempo non solo per l'Italia, ma eziandio per la Francia e per l'Inghilterra.

S. Benedetto nacque in Norcia città della diocesi di Spoleto verso l'anno 480. Fu condotto giovane in Roma a studiare, ma fastidito delle cose del secolo, si ritirò in Subiaco, 40 miglia da Roma distante, e si chiuse in una grotta, ove dimorò per lo spazio di tre anni, senza che alcuno ne avesse notizia, toltone Romano, Monaco, il quale gli somministrava dal suo vicino monastero il mangiare: essendo stato poi conosciuto, i Monaci d'un monastero vicino, per la morte del loro Superiore, l'elessero Abate; ma i loro costumi non confacendosi con quelli di Benedetto, egli si ritirò di nuovo nella solitudine, dove visitato da molte persone, vi fabbricò dodeci monasteri, de' quali l'Abate della Noce rapporta i nomi, e i luoghi dove furon fondati. Di là passò nell'anno 529 nella nostra Campagna, e fermossi nel monte, che da Casino, antica Colonia de' Romani, la qual è nella sua costa, prende il nome, lontano da Subiaco intorno a 50 miglia, e da Roma 70. Quivi giunto, abbatte una reliquia di Gentilità, ch'era in quell'angolo ancor rimasa presso a' Goti, ed in suo luogo v'erge un tempio, che dedicò a' SS. Martino, e Giovanni. I suoi prodigiosi fatti ivi adoperati, e la santità della sua vita, tiraron in quel luogo della gente, e molti sotto la sua regola ivi rimasero. Si rendè vie più famoso per l'opinione e stima, che s'acquistò presso a Totila Re d'Italia, e presso a molti Nobili romani; crebbe perciò il numero de' suoi Monaci, e vi s'arrolavan i personaggi più insigni; ond'egli stese la sua regola, e gettò gli stabili fondamenti di un grand'Ordine.

La divozione de' Popoli, e la fama della sua santità tirò ancora la pietà di molti Nobili ad arricchirlo di poderi e di facoltà: Tertullio Patrizio romano, vivendo ancor S. Benedetto, gli donò tutto quel tratto di territorio, ch'è d'intorno al monastero Cassinese; onde Zaccheria in suo Diploma disse esser quel monastero edificato in solo Tertulli : donogli ancora molte altre possessioni che e' teneva in Sicilia; e Gordonio, padre di S. Gregorio M., gli donò una sua villa, che possedeva ne' contorni d'Aquino. Così tratto tratto, non ancor morto S. Benedetto, cominciò questo monastero a rendersi numeroso ed illustre per la qualità de' suoi Monaci, e ad arricchirsi per le tante donazioni, che alla giornata gli si facevano. La sua fama non potè contenersi nella sola Campagna, si mandavan anche Monaci di sperimentata probità e dottrina a fondar nell'altre nostre province altri monasteri. Cassiodoro, uno de' più illustri personaggi di questo secolo, nell'età di 70 anni, ritiratosi dalla Corte, si fece Monaco, e tratto dalla fama di S. Benedetto, ch'ancor viveva, volle ne' Bruzj, e propriamente in Squillace suo natìo paese, fondarvi un monastero, che secondo pruova il P. Garezio, e rapporta Duppino, lo pose sotto la regola di S. Benedetto, nella quale egli viveva: e venuto poi a governarlo, menò in quello venticinque anni, che fu il resto di sua vita essendovi morto vecchissimo d'età di più di 95 anni, verso l'anno 565 di nostra salute, onde Bacon di Verulamio lo fa quasi che centenario.

Questo è il monastero Vivariese, ovvero Castellese, di cui tratta ben a lungo il P. Garezio, Monaco Benedettino della Congregazione di S. Mauro, fondato da Cassiodoro, di cui ne fu Abate, non molto lungi da Squillace a piè del monte volgarmente chiamato Moscio, ovvero Castellese da una villa di tal nome quivi vicina, le cui radici vengono bagnate dal fiume Pelena, oggi detto di Squillace. Fu nomato Vivariese, perchè Cassiodoro, mentre occupava i primi onori nella Corte de' Re goti, sovente soleva andar a diporto a Squillace sua patria, ed in quella villa per la comodità ed abbondanza dell'acque di quel fiume, che irrigava le radici del monte, fece costruire molti vivai. Avendo da poi per la caduta de' Goti abbandonata la Corte, rendutosi Monaco, quivi ritirossi, e costrusse in quel luogo, ove aveva i suoi vivai e poderi, questo monastero, dove compose la maggior parte delle sue opere, e nel quale ancora ebbe per compagno Dionigi il Piccolo. Lo arricchì delle sue possessioni, e d'una biblioteca; e lo rendè illustre e numeroso per molti Monaci; facendo anche nella sommità di quel monte costruire molte celle per coloro, i quali dalla vita monastica volevan passare all'eremitica, e da Cenobiti rendersi Anacoreti e Solitari. Prima di morire lasciò ivi per Abati, Calcedonio e Geronzio, l'uno perchè reggesse gli Eremiti, che nella sommità del monte castellese eransi ritirati, l'altro i Cenobiti del monastero Vivariese. Il P. Garezio rapporta ancora, che dopo la sua morte, per molti anni fu ritenuto da' Monaci Benedettini: ma che poi vi sottentrarono in lor luogo i Basiliani, che lungamente il tennero, insino che per le susseguenti irruzioni de' Saracini, non fosse stato disfatto e ruinato. Così non pur nel vicino Sannio e nella Puglia cominciarono in questi tempi a fondarsi monasteri di quest'Ordine, ma anche nelle province più remote e lontane.

Nell'ultimo anno di sua vita mandò S. Benedetto Placido suo discepolo in Sicilia a fondarvi de' monasteri del suo Ordine, dove colle donazioni di Tertullo e devozione di que' Popoli, fu propagato per tutta quell'isola. Altre missioni in questi medesimi tempi si fecero nella Francia, dove S. Mauro, Fausto, e suoi compagni vi fecero meravigliosi progressi. Morì S. Benedetto secondo Lione ostiense ed altri, nell'anno 543, ovvero, secondo alcuni altri, nell'anno 547, non essendo ancor appurato presso agli Scrittori il preciso giorno ed anno della sua morte, di che l'Abate della Noce, come d'un punto d'istoria molto importante, tanto s'affatica e si travaglia; ma per la di lui morte crebbero e s'avanzarono più tosto le fortune al suo Ordine: imperocchè da poi assai più moltiplicaronsi i monasteri, e si stese non pur in Italia, Sicilia, e nella Francia, ma ancora nell'Inghilterra, e nell'altre più lontane province dell'Europa.

In cotal guisa queste nostre due province, la Campagna, ed il Sannio, videro in maggior numero i monasteri di quest'Ordine, i quali nell'altre due province, come più remote, furon più radi; ma ben all'incontro più numerosi quelli fondati sotto la regola di S. Basilio; la Puglia e la Calabria, il Bruzio e la Lucania, e le città marittime della Campagna, come Napoli, Gaeta, Amalfi, ed alcune altre, che per la maggior parte lungo tempo dimorarono sotto gl'Imperadori d'Oriente, come più a' Greci vicine, e coi quali aveano assai più frequenti commerci, ricevettero con maggiore prontezza i loro istituti; ed in Oriente, essendo la regola di S. Basilio assai celebre e rinomata, quindi avvenne, che tutti, o la più parte dei monasteri, che vi si fondavano, sotto quell'Ordine erano istituiti. In Napoli S. Agnello fu il primo, per quanto si sa, che vi stabilisse un monastero, cominciato prima da S. Gaudioso, di cui egli ne fu Abate. Alcuni credettero, che S. Agnello seguitasse la regola di S. Benedetto; ma il P. Caracciolo pruova assai chiaro che fu Monaco Basiliano, il quale trovando, che S. Gaudioso, quando si ricovrò in Napoli, dove morì l'anno 453 avanti che fosse nato S. Benedetto, v'avea eretto un monastero, egli vi stabilì la regola di S. Basilio: Ordine che in que' tempi erasi renduto assai celebre e rinomato. Nè quello passò sotto la regola di S. Benedetto, se non ne' tempi posteriori, morto Agnello, dopo l'anno 590, quando i Benedettini cominciaron ad essere più considerati, e si renderon più famosi. Molto tempo da poi ne' secoli men a noi remoti, verso l'anno 1517, fu abitato da' Canonici Regolari della Congregazione del Salvatore, siccome oggi giorno vi dimorano. E così in questo sesto secolo, come ne' secoli seguenti si videro in Napoli molti di questi monasteri sotto la regola di S. Basilio, come il monasterio Gazarese nella piaggia di mare: de' SS. Nicandro, e Marciano: di S. Sebastiano: de' SS. Basilio, ed Anastasio nella regione Amelia: di S. Demetrio nella regione Albina: di S. Spirito, ovvero Spiridione: di S. Gregorio Armeno nella regione Nostriana di S. Maria di Agnone: di S. Samona: de' SS. Quirico, e Giulitta, ed altri: ed in Napoli, ed altrove.

Ecco come in queste nostre province fossero stati introdotti i monasteri. I primi, che vi comparvero, furono sotto la regola di S. Basilio, e di S. Benedetto; e quindi, essendosi già introdotte le Comunità di donzelle, le quali facevan voto di virginità, e dopo certo tempo ricevevano con solennità il velo, si videro parimente i monasteri di donne sotto la regola di S. Benedetto, ch'ebbero ancora per loro condottiera Scolastica di lui sorella; e sotto quella di S. Basilio, che sono i più antichi, che ravvisiamo in queste nostre province. Così presso di noi fu stabilito l'Ordine monastico, il quale però in questi tempi non avea fatti que' maravigliosi progressi, che si sentiranno in appresso. Nè gli Abati, e' Monaci erano stati ancora sottratti dalla giurisdizione de' Vescovi, nè lor conceduti que' tanti privilegi da' Pontefici romani, i quali per avergli a se devoti e ligi, da poi lor concedettono. Si rendè perciò il monte Casino uno dei due più celebri santuarj, ch'ebbero in quest'età le nostre province, ove concorrevano i peregrini da tutte le parti del Mondo. Un altro in questi medesimi tempi era surto in Puglia nel monte Gargano per l'apparizione di S. Michele, che narrasi accaduta in quella grotta a tempo di Papa Gelasio, mentre la sede di Siponto era occupata dal Vescovo Lorenzo. Santuarj, che nel regno de' Longobardi e de' Normanni si renderono così chiari e rinomati, che per la loro miracolosa fama, tiraron a se non pur i peregrini dalle più remote parti del Mondo, ma anche i maggiori Re e Monarchi d'Europa, ed i più potenti Principi della terra.

§. V. Regolamenti ecclesiastici, e nuove Collezioni.

I regolamenti ecclesiastici si videro in questi tempi, non men intorno a' dogmi, che alla disciplina, assai più ampj e numerosi. Coll'occasione d'essersi convocati più Sinodi e Concilj, si stabiliron in conseguenza moltissimi canoni. Si cominciò a stabilirne anche di quelli, che s'appartenevano alla potestà de' Principi. I gradi di parentela, che prima si regolavano secondo le leggi civili, furon anche regolati da' canoni, e le proibizioni delle nozze furono stese a' cugini, ed ai figliuoli de' cugini. Teodosio M. avea prima proibite le nozze fra' cugini, il che confermaron Arcadio ed Onorio suoi figliuoli, come attesta S. Ambrosio: Giustiniano poi le permise, onde Triboniano volendo inserir nel suo Codice la legge di Teodosio, la smozzicò sconciamente per non farla contraddire a ciò, che Giustiniano avea su ciò variato. I canoni ora le proibiscono, non pur fra' cugini, come avea fatto Teodosio, ma anche fra' figliuoli di quelli; ed introdusser poi un nuovo modo di computare i gradi che Cujacio stima non esser più antico di S. Gregorio M. e del Papa Zaccheria. Non s'erano ancora intesi regolamenti intorno alle facoltà delle Chiese, ma essendo in questi tempi cresciute e malmenate dagli Ecclesiastici, si cominciò a far de' canoni per impedirne il dissipamento e l'alienazioni. Era della potestà de' Principi il proibir l'opere servili nel dì di domenica, e gl'Imperadori ne stavano in possesso, come si vede dalle leggi di Lione e d'Antemio: ed ora si vede sopra di ciò essersene anche fatti canoni. Il dichiarar le Chiese per asili s'apparteneva agli stessi Imperadori, come se ne leggono molte costituzioni nel Codice di Teodosio: ma ora questo diritto vien anche dichiarato da' canoni. Ne furon eziandio stabiliti molti su l'usure e divorzj, e sopra altre materie, la cui providenza e regolamento s'apparteneva, ed era della potestà ed imperio de' Principi. Quindi si vide il lor numero crescere in immenso; onde sursero altri Codici e nuove Compilazioni.

Nel precedente libro s'è veduto, che sin a' tempi di Valentiniano III, così la Chiesa occidentale, come l'orientale non conobbero altri regolamenti, che quelli che furono raunati nel Codice de' Canoni della Chiesa Universale, compilato per Stefano, Vescovo d'Efeso. Ma da poi nel primo anno dell'Imperio di Giustiniano nel 527 uscì fuori la Collezione di Dionigi il Piccolo. Questi fu un Monaco scita abitante in Roma, e fu il primo che introdusse l'uso di numerar gli anni dalla nascita di Cristo S. N. come noi facciamo ancora; poichè prima si computavano, o nella maniera dell'antica Roma per li Consoli, o per li primi stabilimenti de' Principi greci successori d'Alessandro: ovvero per li tempi de' Martiri, che sofferirono il martirio sotto Diocleziano: ed in Ispagna per l'Era d'Augusto Imperadore, che precede 38 anni alla nascita di Cristo. Egli fu amicissimo di Cassiodoro, dal quale fu ricercato, che istruisse nelle discipline, e particolarmente nella filosofia i suoi Monaci nel monastero Vivariese: lesse quivi insieme con Cassiodoro la dialettica, e più anni dimorò suo compagno in quel magisterio. Gli encomj, che da Cassiodoro gli vengon dati, si leggono ancora nelle sue opere. Egli arricchì la Chiesa latina di molte traduzioni fedeli dell'opere de' Greci; ed a richiesta di Stefano Vescovo di Salona in Dalmazia tradusse in latino la raccolta de' canoni greci più fedelmente, che non era la traduzione antica latina, della quale si servivano gli occidentali: a questa aggiunse tutto ciò che v'era nel Codice greco, cioè i 50 canoni appostolici, i canoni del Concilio di Calcedonia, di Sardica, di Cartagine, e d'altri Concilj d'Affrica.

Aggiunse parimente l'epistole decretali di Siricio Papa, che morì l'anno 398 (argomento, che l'epistole, che si rapportano prima di Siricio sieno apocrife). Si chiamavano lettere decretali quelle, che i Pontefici scrivevano sopra le consultazioni de' Vescovi per decidere i punti di disciplina, e le quali si mettevano fra' canoni. Così i Greci mettevano fra i canoni le tre lettere di S. Basilio ad Anfilochio, ed alcune altre de' più famosi Vescovi delle sedi maggiori. A queste poi, dopo la morte di Dionigi, furon aggiunti i decreti di Gregorio II, compresi in 17 capitoli, come fu osservato da Pietro de Marca Arcivescovo di Parigi. Quel che reca maraviglia si è, che benchè il Codice greco, di cui si servì Dionigi, finisse nel Concilio costantinopolitano I, al quale eransi poi aggiunti discontinuatamente i canoni del Concilio calcedonense, come afferma il medesimo Dionigi nella prefazione a Stefano Vescovo di Salona, tuttavia avendovi dovuto aggiunger tanto del suo, come i canoni sardicensi ed affricani, non fa niuna menzione del Concilio efesino, o de' suoi canoni fatti nell'anno 431, quando questi canoni si trovano nel Codice greco dato in luce da Justello nell'anno 1610 onde si rifiuta l'opinione di coloro, che stimano, che Giustiniano nella Novella 131 fatta nell'anno 451 avesse confermato, e data forza di legge al Codice de' canoni compilato da Dionigi; poichè quivi Giustiniano conferma anche i canoni fatti nel Concilio efesino, ivi: Sancimus vicem legum obtinere sanctas Ecclesiasticas regulas, ec. in Ephesina prima, in qua Nestorius est damnatus ec. Doujat però dice, che Dionigi non ne fece menzione, perchè quel Concilio non stabilì canoni attenenti alla disciplina, ma solamente canoni riguardanti l'esecuzione della condanna di Nestorio, e suoi aderenti.

Questa Collezione di Dionigi, in Occidente ed in queste nostre province ebbe tutta l'autorità, e tutto il vigore; e da Niccolò I. R. P. vien chiamata per eccellenza Codex Canonum, e dal diritto canonico Corpus Canonum . E ne' tempi seguenti ebbe tanta forza, che nell'anno 787 data in dono da Adriano I. a Carlo M., questo Principe comandò a' Vescovi di Francia, che invigilassero all'osservanza dei canoni in quella racchiusi; e comprese que' decreti nel suo Capitolare d'Aix la Chapelle, che fece comporre nell'anno 789 secondo che narra Justello.

Intorno al medesimo tempo nell'anno 547 Fulgenzio Ferrando Diacono di Cartagine fece un'altra raccolta di canoni, ma con diverso ordine, più tosto citandogli, che rapportandogli, e sotto ciascun capo raccolse i canoni di diversi Concilj, della quale fa menzione Graziano nel suo decreto.

Il Cardinal Baronio stima, che circa questi medesimi tempi sieno state fatte le Collezioni di Martino di Braga, e di Cresconio. Altri credono che quella di Martino fosse fatta intorno all'anno 572, e l'altra di Cresconio circa l'anno 670. Martino, di nazione Unghero, e Monaco Benedettino, fu Vescovo di Braga in Portogallo. Fece la sua raccolta per uso delle Chiese di Spagna, traducendo i Sinodi greci, ed aggiungendovi altri canoni di Concilj latini, e spezialmente dei toletani: questa Collezione però fuori delle Spagne non ha avuto uso nè autorità, se non quanto avesse servito per illustrazione.

Cresconio Vescovo d'Affrica compose la sua Collezione di canoni, della quale ci resta un compendio, il cui titolo, secondo un MS. che rapporta il Baronio, era questo: Concordia Canonum a Cresconio Africano Episcopo digesta sub capitibus trecentis. E perchè ivi fassi anche menzione d'un poema in versi esametri composto dal medesimo Cresconio per celebrar le guerre e le vittorie riportate da Giovanni Patricio contra i Saraceni d'Affrica, fa conto il Baronio, che egli vivesse intorno a' tempi di Giustiniano Imperadore.

Giovanni Scolastico, che, mandato Eutichio in esilio, fu innalzato al Patriarcato di Costantinopoli da Giustiniano Imperadore, e visse anche dopo lui, fu il primo, che in Oriente avesse fatta Raccolta, dove si unissero insieme i canoni colle leggi, spezialmente le Novelle di Giustiniano; la qual spezie di libro fu chiamata poi Nomocanone da' Scrittori seguenti: e benchè questa Collezione divisa in cinquanta titoli, da principio ebbe qualch'uso; nondimeno Teodoro Balsamone nel supplimento osserva, che a tempo suo, cioè nella fine dal secolo duodecimo, non aveva alcuna stima, come quella ch'era stata adombrata dal Nomocanone di Fozio, più utile e più abbondante.

Queste furono le Collezioni de' canoni, che dopo il Codice de' canoni della Chiesa universale sursero ne' seguenti tempi infin all'Imperio di Giustino, successor di Giustiniano: le quali non avevan forza di legge, se non quando dagl'Imperadori e Principi era lor data. La Chiesa non avea peranche in questi tempi acquistata giurisdizione perfetta, sì che potesse far valere i suoi regolamenti, come leggi, ed obbligare i Fedeli con temporal costringimento all'osservanza de' medesimi, o punire i trasgressori con pene temporali: obbligavan solamente per la forza della religione le loro anime; e le pene e gastighi erano spirituali, di censure, penitenze, e deposizioni. I Principi per mezzo delle loro costituzioni lor davan forza di legge, obbligando i sudditi ad osservargli con temporale costringimento, come il manifestano in Oriente le Novelle di Giustiniano, la Collezione di Giovanni Scolastico, i Nomocanoni di Fozio e di Balsamone; ed in Occidente, nella Francia i capitolari di Carlo M. in Ispagna le leggi di que' Re, per le quali a' canoni stabiliti n'Concilj tenuti in Toledo, o altrove, davan tutta la forza ed autorità; ed in Italia i tanti editti di Teodorico e d'Atalarico, che appresso Cassiodoro si leggono.

§. VI. Della conoscenza nelle cause.

Lo Stato ecclesiastico, durante la dominazione dei Goti in queste nostre province, non acquistò maggior conoscenza, o nozione nelle cause, di quella ch'ebbe ne' precedenti secoli sotto i successori di Costantino infino all'Imperio di Valentiniano III. Era ancor ristretto nella conoscenza degli affari della fede e della religione, di cui giudicava per forma di politia; nella correzione de' costumi, di cui conosceva per via di censure; e sopra le differenze insorte fra' Cristiani, le quali decideva per forma d'arbitrio e d'amichevole composizione. Non ancora avea acquistata giurisdizione perfetta, nè avea foro o territorio, nè i suoi Giudici eran divenuti Magistrati. Teodorico e gli altri Re suoi successori lo contennero ne' suoi limiti, nè la di lui conoscenza trapassò i confini del suo potere spirituale, toltone la conoscenza in quelle tre sole occorrenze già ricordate; in tutto il resto gli Ecclesiastici osservavano le leggi civili, e come membri della società civile ubbidivano, come tutti gli altri, a' Magistrati secolari, così ne' giudicj criminali, come civili, dai quali eran giudicati e puniti. L'accuse si riportavan al Principe, perchè o egli le giudicasse, o delegasse ad altri la loro cognizione, e sovente per li loro delitti eran mandati in esilio, e deposti dalle loro cariche. Si è veduto, come il Popolo romano, l'accuse che inventò contra Simmaco, le portò fin a Ravenna al Re Teodorico, perchè prendesse a giudicarlo, dimandandogli un Visitatore, siccome gli fu dato, perchè lo sentenziasse; non altrimente di ciò, che fecero i Vescovi d'Italia contra Damaso, i quali ricorsero agl'Imperadori Graziano e Valentiniano, pregandogli che prendessero a giudicare quel Papa da loro accusato. Non recava maraviglia in questi tempi, mandarsi dal Re i Vescovi, come loro sudditi, ed il Papa stesso in varie parti, ove portava il bisogno, e chiamargli a lor posta, nel che sempre erano pronti ed ubbidientissimi. Papa Giovanni I. fu mandato dal Re Teodorico fino in Costantinopoli per ottener dall'Imperador Giustino I. la revocazione d'un suo editto, col quale esprimeva, che le Chiese degli Arriani si fossero date a' Cattolici: e non avendo avuta questa imbasciata quel successo da Teodorico sperato, imputandosi alla sospetta fede di Giovanni, e poca buona condotta da lui usata, quando egli era di ritorno per Italia, lo fece arrestare in Ravenna, dove morì il dì 27 di marzo dell'anno 526. E Teodato mandò Papa Agapito a Costantinopoli per trattar con Giustiniano la pace cotanto da lui bramata.

Il Re Atalarico stabilì con suo editto istromentato da Cassiodoro, che quelli, i quali per simonia ed ambizione erano stati eletti, fosser accusati avanti i suoi Giudici e puniti severamente, stabilendo premj agli accusatori, con dar loro la terza parte di ciò, che venissero condennati, ed il rimanente da doversi impiegare alle fabbriche delle Chiese, e per sovvenimento de' loro Ministri.

Intorno alle loro cause civili fu serbata a' Magistrati secolari la medesima giurisdizione che prima avevano; dovevan innanzi a loro istituire i giudicj, proponere le loro azioni, e citati dar malleveria judicio sisti. Solamente il Re Atalarico favorì in ciò la Chiesa romana, approvando una consuetudine, che s'era introdotta nel Clero di quella, di doversi prima i suoi Preti convenire, o accusare avanti il loro Vescovo. I Magistrati secolari, che in Roma da quel Principe erano stati destinati ad amministrar giustizia, secondo ciò che praticavasi in tutte l'altre province, ad istanza del suo creditore, costrinsero un Diacono di quella Chiesa a soddisfar il debito; e lo strinsero con tanta acerbità, che lo diedero in mano del medesimo creditore a custodirlo. Un altro Prete della medesima Chiesa per leggiere cagioni accusato, lo trattarono assai aspramente e con molti strazi. Il Clero di Roma con flebili lamenti e preghiere, ricorse al Re Atalarico, esponendogli, che nella lor Chiesa, per lunga consuetudine, affinchè i loro Preti intrigati nelle liti del Foro, e tra' negozj del secolo, non si distogliessero dal culto divino, erasi introdotto, che avanti il loro Vescovo dovessero convenirsi: e che ciò non ostante, da' suoi Magistrati erano stati un lor Prete e un Diacono acerbamente, e con molte contumelie trattati; pregavano per tanto la clemenza di quel Principe a darvi opportuno provedimento. Il Re alle loro preci rispose, che per la riverenza ed onore, che si doveva a quella sede appostolica, d'allora innanzi stabiliva, che se alcuno avea da convenire qualche Prete del Clero romano in qualsivoglia causa, dovesse prima ricorrere al giudicio del Vescovo di quella sede, il quale dovesse, o egli conoscere more suae sanctitatis de' meriti della causa, ovvero delegarla, acquitatis studio terminandam; ma se l'attore o l'accusatore usando di questa riverenza, si vedesse deluso e differito nelle sue dimande, o quelle disprezzate; tunc ad saecularia fora jurgaturus occurrat. All'incontro, se pretermesso questo suo comandamento, ricorrerà alla prima a' Tribunali secolari, gl'impone pena di dieci libbre d'oro, da doversi da' suoi Tesorieri immantenente riscuotere, e per le mani del Vescovo dispensarsi a' poveri, e di vantaggio cadesse dalla causa, e con tal doppia pena fosse punito. Ma non tralasciò Atalarico nell'istesso tempo d'ammonirgli, che vivessero, come si conveniva al loro stato, dicendogli: Magnum scelus est crimen admittere, quos nec conversationem decet habere saecularem; professio vestra vita coelestis est. Nolite ad mortalium vota humilia, et errores descendere. Mundani coerceantur humano jure, vos sanctis moribus obedite.

Ecco come in questi tempi in tutte l'altre Chiese, de' Magistrati secolari era la conoscenza e giurisdizione delle cause, così civili come criminali degli Ecclesiastici, erano sottoposti a' loro giudicj ed ammende: nè perchè al solo Clero di Roma, per riverenza di quella sede, volle Atalarico usar questa indulgenza, fu perciò al suo Vescovo, o pure a quelli, a' quali egli delegava le cause, data per giudicarle giurisdizione alcuna; ma solo, che dovessero terminarle more suae sanctitatis, et aequitatis studio, in forma d'arbitrio e di caritatevole composizione, non già in forma di giudicio e di giustizia contenziosa.

Giustiniano adunque fu il primo, che cominciò ad accrescere la conoscenza de' Vescovi nelle cause degli Ecclesiastici, e diede a quelli privilegio di non piatire avanti Giudici laici. Questo Principe, siccom'egli era pietoso e religioso, così accrebbe la conoscenza dei Vescovi, ordinando per le sue Novelle, che nelle azioni civili i Monaci ed i Cherici sarebbero convenuti in prima innanzi al Vescovo, il quale deciderebbe le loro differenze prontamente, senza processi e senza alcun rumore o strepito di giudicio; a condizione però, che se una delle parti dichiarasse fra dieci giorni di non volere acquetarsi al suo giudicio, il Magistrato ordinario prendesse cognizione della causa, non per forma d'appellazione, come alcuni credettero, e come in ciò superiore al Vescovo, ma tutto di nuovo: e se giudicava come aveva arbitrato il Vescovo, non v'era appellazione da lui: ma se altrimente, si dava in questo caso luogo all'appellazione. E quanto alle cause criminali, era permesso d'indirizzarsi contro il Cherico, o innanzi al Vescovo, ovvero al Giudice ordinario, salvo ne' delitti ecclesiastici, come d'eresia, simonia, inobbedienza al Vescovo, ed ogn'altro concernente la loro qualità, la cui conoscenza era attribuita al solo Vescovo: come altresì delle differenze concernenti alla religione e alla politia ecclesiastica, anche contro a' laici. Stabilì ancora, che se nelle cause criminali il Cherico fosse condennato dal Giudice laico, la sua sentenza non potesse eseguirsi, nè il Prete degradarsi, senza l'approvazione del Vescovo; che se egli non lo volesse fare, era necessario di ricorrere all'Imperadore. Ed in quanto a' Vescovi, diede loro particolarmente questo privilegio di non piatire per niente innanzi a' Magistrati laici, il qual privilegio diede ancora alle religiose per la Novella 79 che gl'Interpreti hanno malamente steso a' religiosi. E questo regolamento di Giustiniano, contenuto nella Novella 123, è quasi interamente reiterato dalle costituzioni dell'Imperador Costantino III figliuolo d'Eraclio, e di Alessio Comneno, rapportate per Balsamone nel titolo sesto del suo Nomocanone. Ecco come per privilegio del Principe si cominciò ad ingrandire la conoscenza de' Vescovi: non è però, ch'allora acquistassero giustizia perfetta, che il diritto chiama giurisdizione, sopra i Preti, non avendo di que' tempi territorio, cioè Jus terrendi, nè preciso costringimento. Per la qual cosa non potevano di lor autorità imprigionare le persone ecclesiastiche, nè avevan carceri: nè potevano imporre pene afflittive di corpo, d'esilio e molto meno di mutilazion di membra o di morte, anche nei più gravi delitti; nè condennare all'ammende pecuniarie.

Le pene, che usavano erano deposizioni, o sospensioni degli Ordini, digiuni e penitenze: e questa forma di disciplina continuossi per tutto l'ottavo secolo: ciò che ottimamente notò Gregorio III, in quella bella epistola, che dirizzò a Lione Isaurico, dove fa vedere quanto sia grande la differenza, fra le pene dell'Imperio e della Chiesa: gl'Imperadori condannano a morte, imprigionano, mandano i rei in esilio e rilegano: non così i Pontefici: Sed ubi, come sono le sue parole, peccarit quis, et confessus fuerit, suspendii, vel amputationis capitis loco, Evangelium, et Crucem ejus cervicibus circumponunt, eumque tamquam in carcerem, in secretaria, sacrorumque vasorum aeraria conjiciunt, in Ecclesiae Diaconia, et in Catecumena ablegant, ac visceribus corum jejunium, oculisque vigilias, et laudationem ori ejus indicunt. Cumque probe castigarint, probeque fame afflixerint, tum pretiosum illi Domini Corpus impartiunt, et Sancto illum Sanguine potant: et cum illum vas electionis restituerint, ac immunem peccati, sic ad Deum, purum insontemque transmittunt. Vides, Imperator, Ecclesiarum, Impertorumque discrimen, etc.

Avevan però gli Ecclesiastici in questi tempi cominciato ad usurparsi la potestà di bruciare i libri degli Eretici, perchè nell'anno 443 il Pontefice Lione il Santo bruciò in Roma molti libri de' Manichei, quando prima la censura solamente apparteneva alla Chiesa, ma la proibizione, o bruciamento al Principe, di che altrove ci tornerà occasione di più lungamente ragionare.

§. VII. Beni temporali.

Non al pari della conoscenza nelle cause, fu l'ingrandimento de' beni temporali nelle nostre Chiese: fu questo di gran lunga a quello superiore. I Principi intorno agli acquisti, che tuttavia facevano, non molto vi badavano, e non solo poca cura si presero d'impedire gli eccessivi, come fecero Teodosio M. e gli altri Imperadori suoi successori, ma anch'essi vi contribuirono con donazioni e privilegi. Quando prima gli acquisti facevansi dalle sole Chiese, ora cominciando in queste nostre province a fondarvisi dei monasteri, ancor essi ne tiravano la lor parte, e molti buoni presagi ne diedero, fin da' loro natali, i monasteri di S. Benedetto.

S'aprirono ancora nuovi altri fonti, donde ne scaturiva maggior ricchezza: sursero in questi tempi i santuari, e allargossi grandemente la venerazione delle reliquie de' Santi. I tanti miracoli, che si predicavano, l'apparizioni angeliche, le particolari devozioni a' Santi, e l'esortazioni de' Monaci, tiravano le genti per la loro devozione ad offerire a' loro monasteri ampie ricchezze. Fu riputato ancora in questi tempi il donare, o lasciare per testamento alle Chiese, essere un fortissimo remedio per ottener la remissione de peccati. Salviano che fiorì nell'Imperio d'Anastasio, esortava a molti pietosi, che soccorressero le loro anime ultima rerum suarum oblatione. Quindi sovente leggiamo nelle donazioni fatte alle Chiese quella clausola; pro redemptione animarum, etc.

Si stabilì ancora un nuovo fondo assai più stabile di quel di prima, donde se ne ritraevano buoni emolumenti: le decime che ne' tre primi secoli erano libere e volontarie; e nel quarto e quinto secolo, per la tepidezza de' Fedeli in darle, erano avvalorate dai sermoni de' PP. e dalle loro esortazioni, perchè non le tralasciassero; in questo sesto secolo divennero debite e necessarie. Vedendo, che niente allora giovavano le prediche e l'esortazioni, fu bisogno ricorrere ad aiuti più forti e vigorosi; onde si pensò a stabilirle per via di precetti e di canoni. Così molti Concilj d'Occidente, e più decretali de' romani Pontefici fecero passare in legge l'uso di pagarle. Per queste ed altre vie, le ricchezze delle Chiese cominciaron ad essere assai più ampie e considerabili, ed a posseder esse particolari patrimonj. La Chiesa di Roma sopra tutte l'altre si rende ricchissima, tanto che narra Paolo Varnefrido, ch'avendo Trasimondo Re de' Vandali in Affrica mandato in esilio 220 Vescovi, Simmaco, che allor sedeva nella Cattedra di Roma, fece a tutti somministrare ciò, che lor bisognava per sostentarsi. Nè si pensò solo a' modi di acquistar le ricchezze, ma anche a' modi di conservarle; poichè colle ricchezze essendo congiunto il rilasciamento della disciplina e de' costumi, quelle appropriandosi gli Ecclesiastici, come facoltà proprie, dove prima non eran considerate, se non come patrimonio de' poveri, venivan in conseguenza mal impiegate e peggio distribuite; onde più Concilj (quando che prima non erasi per anche fatto alcun regolamento sopra questa materia) si mossero a stabilire un gran numero di canoni, proibendo l'alienazioni, regolando il modo di distribuirle, e badando sopra tutto alla loro conservazione e sicurezza. Egli è però ancora vero, che non perciò i Principi lasciarono di stabilir leggi intorn'a' beni ecclesiastici, regolando gli acquisti, e tal ora anche le maniere di distribuirgli e vietar gli abusi: e Giustiniano ci accerta d'aver egli di suo diritto stabilite molte leggi intorno a' medesimi.

La divisione de' frutti di questi beni in quattro parti, una all'Amministratore o Beneficiato, l'altra alla Chiesa, la terza a' Poveri, e la quarta a' Cherici, che s'attribuisce a Papa Simplicio, il qual fu eletto nell'anno 468, non fu in questi tempi sempre costante, nè la medesima per tutte le province d'Occidente. In Francia nel Concilio I d'Orleans, ragunato l'anno 511, s'assegna la metà al Vescovo, e l'altra metà al Clero. In Ispagna, dal Concilio I di Braga tenuta nell'anno 563, la divisione dell'oblazioni si riserva ai Cherici tutti in comune. Ma da poi nel Concilio IV di Toledo, convocato sotto il Re Sisenando nell'anno 633, fu stabilito, che i Vescovi avessero la terza parte delle rendite. Così, come assai approposito notò Graziano, secondo la diversità de' luoghi, e consuetudine delle regioni, al Vescovo era riservata, in alcune la terza, in altre la quarta parte: nè tali divisioni furono sempre, e da per tutto invariabili e perpetue.

Grande che fosse stato in questo sesto secolo l'accrescimento de' beni temporali delle nostre Chiese e de' monasteri, a riguardo però degli altri immensi ed eccessivi acquisti, che poi si videro nel Regno dei Longobardi e de' Normanni, era comportabile, nè molta alterazione recossi perciò allo Stato civile: maggiore lo ravviseremo sotto i Longobardi, il Regno de' quali saremo ora per narrare.

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