CAPITOLO IV.

Federico prosiegue la guerra contra i Lombardi nell'istesso tempo, che Corrado suo figliuolo è travagliato in Alemagna da Errico di Turingia, e da Guglielmo Conte d'Olanda. Muore in Fiorentino, e gli succede Corrado.

Intanto il Re Enzio seguitava a travagliar con aspra guerra la Lombardia: ed in Alemagna non minori e men crudeli erano le battaglie tra Corrado ed Errico di Turingia, il quale ancorchè avesse data una gran rotta a Corrado, fu poi ucciso da un colpo di saetta mentre combattea la città d'Ulma: onde Innocenzio saputa la morte d'Errico, inviò di nuovo quattro altri suoi Legati ad istigare i Principi tedeschi contro Federico; e per essere stato dal Re Enzio d'ordine del padre fatto morir impiccato per la gola un parente d'esso Pontefice, di nuovo amendue scomunicò, e tanto operò co' Tedeschi, che fu eletto in nuovo Re de' Romani Guglielmo Conte d'Olanda, il quale incamminatosi dopo la sua elezione a prendere la Corona in Aquisgrana, se gli oppose intrepidamente col suo esercito Corrado, il quale occupata e munita quella città lungamente dentro d'essa da Guglielmo, e dai suoi si schermì. Non avea il Pontefice trascurata ogni opera di far ribellare Corrado istesso contro il suo padre, e per mezzo del Cardinal Ubaldino suo Legato, dell'Arcivescovo di Colonia, e di molti altri Baroni alemani, faceva continuamente insinuare al medesimo a non seguire l'imprese e le dannate vestigia, com'essi diceano, di suo padre: ma Corrado Principe pio e costante gli rispose, che avrebbe difese le sue parti insino all'ultimo spirito di sua vita.

Federico intanto racchetati i rumori del Regno partì di Puglia, e passò a Pisa, e di là per li confini dei Parmegiani a Cremona. Quivi essendo, fugli da alcuni insinuato di dover trovare qualche modo di riconciliarsi colla Chiesa, e conchiuse perciò di conferirsi di persona in Lione per umiliarsi al Pontefice; sicchè tolto in sua compagnia onesto numero di famigliari, passò da Cremona a Torino, e celebrata quivi un'altra Assemblea, partiva già per Lione; ma giunto appena alle radici dell'Alpi gli fu per particolar messo significato, per opra d'Innocenzio essergli stata dai suoi partigiani ribellata Parma; onde accorse immantenente per riaverla, ed intrigato col Re Enzio suo figliuolo in questa guerra, ampiamente scritta da Sigonio, passò quivi tutto quest'anno, e nel seguente anno 1248 per occasione di questa guerra, nella quale ora perdente, ora vincente, perdè Vittoria città novellamente da lui edificata a fronte di Parma, nel qual fatto i suoi nemici uccisero, e fecer prigioni la maggior parte degli assediati, fra' quali morì Taddeo di Sessa, quel celebre nostro Giureconsulto, e che in questi tempi avea anche avuto l'onore d'essere stato fatto General Capitano in quell'esercito. E mentre con tali successi era afflitta Italia, Guglielmo Conte d'Olanda creato Re de' Romani, dopo un lungo contrasto, presa la città d'Aquisgrana, era stato in essa dall'Arcivescovo di Colonia incoronato nel dì primo di novembre di quest'anno; e poco stante azzuffatosi con Corrado, ch'era col suo esercito di nuovo sopra detta città venuto, il ruppe e pose in fuga.

Nel seguente anno 1249 Federico lasciato il Re Enzio suo Vicario in Lombardia, se ne passò in Toscana, ove giunto, se creder vogliamo a Giovanni Villani, non volle entrare in Firenze, perchè per vana predizione di Michele Scoto grande Astrologo e Mago di que' tempi, gli era stato detto, che aveva da morirvi dentro, e fermatosi ad un luogo ivi vicino, poco da poi passò l'Imperadore in Puglia, ove finchè visse, che fu molto poco, dimorò.

In questo medesimo anno avendo i Bolognesi data una terribile rotta al Re Enzio, lo fecero prigione; onde crebbe oltremodo la fortuna e potenza de' Bolognesi, e per la fama dell'acquistata vittoria per sì riguardevole personaggio, e per la nobiltà del suo aspetto, e per la fiorita età, che non passava 25 anni, e per la grandezza del padre; e avendolo condotto con gran trionfo prigioniero a Bologna, diede manifesto esempio dell'incostanza ed infelicità delle cose umane, ed i Bolognesi statuito con pubblico decreto, che mai non s'avesse a riporre in libertà, regiamente a spese del Pubblico, mentre egli visse lo sostennero, non si movendo a liberarlo, nè per le minacce del Padre, che sopra di ciò scrisse loro una sua lettera, nè per offerta di grossa somma d'oro in suo riscatto. In tal maniera ventidue anni, e nove mesi dimorato, come scrive Cuspiniano, fu poi venendo a morte con nobilissima pompa sepolto da' Bolognesi nella chiesa di S. Domenico in un ricchissimo avello di marmo con la sua statua indorata, ove sino al presente, secondo che scrive Stradero, si legge l'inscrizione in una piastra di bronzo.

Ricevette, non molto tempo dopo tal successo, l'Imperadore lettere da' Modanesi, ove significandogli la ricevuta sconfitta si dolevano della prigionia del figliuolo, a' quali egli rispose magnanimamente ringraziandogli del loro ben volere, con minacciare aspramente i Bolognesi, e tutti i partigiani della Chiesa. Ma questi col favor dell'ottenuta vittoria, dopo aver soggiogate molte città e castelli di Lombardia e di Romagna, e fra essi Modana, che per alcun tempo strettamente assediarono, mossero Federico per non perdere affatto il dominio di quei paesi, essendo già entrato l'anno di Cristo 1250 a raccorre soldati, e moneta per rinovar la guerra, e tentare di riporre il figliuolo in libertà, e mentre a ciò badava, ammalò del suo ultimo male nel castel di Fiorentino, ora disfatto, in Capitanata di Puglia, sei miglia lungi da Lucera, e come scrive Cuspiniano, non senza sospetto, che Manfredi Principe di Taranto suo figliuol bastardo l'avesse avvelenato, o come è più verisimile, perchè aspirando al dominio del Reame, voleva torsi dinanzi il padre, per tentare di porre il suo pensiero ad effetto, come si conobbe da poi.

L'Imperadore aggravato dal male, pentitosi de' suoi falli, e chiedendone a Dio perdono, si confessò a Bernardo Arcivescovo di Palermo, e da lui ricevette l'assoluzione, ed il sacramento dell'Eucaristia, se creder dobbiamo ad Alberto Abate di Strada; e persuaso dall'istesso Arcivescovo fece il suo testamento, il qual tutto intero, come quello, che contiene più notabili cose, addurremo.

Soggiunge Cuspiniano, che mentre superando la forza del veleno o della malattia, o per la sua robusta complessione, o per la diligente cura de' Medici, stava per riaversi, Manfredi aggiungendo fallo a fallo per tema non il padre campasse, di notte tempo, postogli un piumaccio alla bocca crudelmente il soffocò; alla qual opinione di violenta morte par che concorra lo Scrittor di Giovennazzo, quando dice, che a tempo si sparse voce, che l'Imperadore era già guarito, e che il seguente giorno voleva uscir di letto, per aver mangiato la sera certe pera cotte con zuccaro, si ritrovò poi il mattino morto nel letto, verificandosi il vaticinio fattogli (se tai vanità son degne di fede) che aveva a morir in Fiorenza, ma secondo le solite anfibologie degl'Astrologi non in Fiorenza di Toscana, ma in Fiorentino di Puglia; se bene l'Anonimo Autor della Cronaca di Manfredi, come troppo appassionato di questo Principe, passa sotto silenzio le circostanze di questa morte violenta, per non incolpar Manfredi suo Eroe.

Cotal fu dunque il fine di Federico II Imperador romano, il quale morì in età di cinquantasei anni, e nel trentesimo ottavo del suo Imperio, lo stesso giorno, che fu eletto a cotal dignità in Alemagna, dopo aver cinquantatre anni dominato il Reame di Napoli e di Sicilia, e 28 quello di Gerusalemme, Principe degno di chiara ed immortal memoria, per le molte e singolari virtù, che così nell'animo, come nel corpo di pari in lui fiorirono; perciò, lasciando star da parte quello, che alcuni Scrittori italiani di lui con troppa malevoglienza, e alcuni altri tedeschi con troppa adulazione scrissero: egli è certo, che fu un savio ed avveduto Signore, valoroso e prode di sua persona, e di nobile, e signoril presenza: fu liberale e magnanimo, perchè premiò ampiamente coloro, che l'aveano servito, così nell'opere di pace, come nella guerra, ed onorò i Signori dell'Imperio di grandissime prerogative e privilegi; poichè primieramente creò Federico, detto il Bellicoso, di Duca, che in prima egli era, Arciduca d'Austria, e gli diede l'insegne reali per quel, che ne scrive il Cuspiniani; ma nel sesto libro delle Pistole di Pietro delle Vigne appare, che nel creò Re, benchè secondo il Zurita, di cotai titoli di Re, e d'Arciduca non si servì niuno de' suoi seguenti Signori, che quella provincia dominarono fin all'Imperador Federico III ch'il concedette di nuovo a Filippo suo nipote, quando stava trattando d'ammogliarsi con una delle figliuole di Ferdinando Re di Castiglia e d'Aragona, detto poi il Re Cattolico, nell'anno di Cristo 1488.

Fu nella militar disciplina espertissimo, per la quale ottenne nobilissime vittorie de' suoi nemici; e mostrò non men fortezza ne' casi avversi, che temperanza e continenza ne' prosperi. E provvido ne' consigli, e prudente nel riordinare i suoi Regni di molte utili e giuste leggi.

Per aver avuti nemici tre romani Pontefici, Onorio, Gregorio ed Innocenzio, e le città Guelfe partigiane dei medesimi, acquistò egli presso i posteri nome di spergiuro, e di crudele con tutti i Prelati e Ministri della Chiesa; e per averne perseguitati molti, e scacciati dalle loro sedi, altri imprigionati, e fatti morire in esilio, ed avere in altre strane guise fatto impiccare grosso stuolo di Frati e Preti; e per aver taglieggiate le chiese, i monasterj, e gli Ecclesiastici, con torre loro i beni e facoltà: pose timore a tutti gli Ecclesiastici, non volesse ridurgli alla strettezza e povertà della primitiva Chiesa, tanto maggiormente ch'era lor riferito, che l'Imperadore soleva avere spesso in bocca cotali voci; onde Matteo Paris, che prima che Federico fosse stato deposto, avea sempre nella sua Cronaca aderito al suo partito, quando da poi intese, che Federico soleva dir queste parole, come che egli si trovava Abate di Monte Albano d'Inghilterra, e ricco di molti Beneficj e Commende, dispiacendogli tal proponimento, cominciò a mutar stile e scrivere contro di lui in altra maniera, che prima avea fatto.

Se questo fece Paris, ognun può credere, che cosa mai facesser gli altri Scrittori italiani partigiani dei Pontefici romani, e tutti Guelfi: e particolarmente i Frati. Paolo Pansa nella Vita d'Innocenzio IV rapporta, che Fr. Salimbene da Parma Frate Minore, che visse in que' tempi, e conobbe Federico, in una sua Cronaca a penna lasciò scritto, che Federico in quest'ultima sua infermità fu afflitto da' vermi, che scaturivano dalle sue carni, e che morto che fu, usciva tal puzza da quel cadavere, che non si poteva in alcun modo tollerare, e che per allora non gli si potè dar sepoltura: ch'era poco cattolico, anzi epicureo, come quegli, che non credea trovarsi altra vita, che questa; soggiungendo, che quando e' fu in Oriente, e vide la Terra, che si chiama di Promissione, si pose a ridere, e facendosene beffe, ebbe a dire che se il Dio de' Giudei avesse veduto il Reame di Napoli, e massimamente Terra di Lavoro, non avrebbe fatto sì gran conto di quella sua terra di Promissione.

(Oltre a ciò i Monaci nelle loro Croniche anche scrissero, che Federico passando un giorno col suo esercito vicino alcuni campi di formento, che avea le spiche già mature, e danneggiando i Soldati coi loro cavalli le spiche, e rapportato ciò a Federico, avesse motteggiando risposto, che se ne astenessero, e le portassero rispetto, poichè un giorno i grani di quelle spiche potevano divenire tanti Cristi. Le parole sono rapportate da Simone Hanh, Hist. Germ. in Friderico II).

Lo dipinsero perciò, ch'egli fosse ateo, e che negando l'immortalità dell'anima avesse posto ogni suo intendimento ne' diletti del corpo, godendosi, e sollazzandosi con quel, che più gli aggradiva, e che perciò si contaminasse con ogni sorte di lussuria, tenendo sempre, oltre alla moglie, uno stuolo di concubine attorno, alcune delle quali erano anche Saracene; della quale opinione mostra essere stato anche Dante, ancorchè Ghibellino, ponendolo a patire le pene dell'Inferno, in un luogo, ove era simil peccato d'eresia punito, con il padre di Guido Cavalcanti, e Farinata degli Uberti Cavaliere Fiorentino, e col Cardinale Ottavio degli Ubaldini, facendo dall'istesso Farinata dire:

Qua entro è lo secondo Federico,

E 'l Cardinale, e degli altri mi taccio.

Ma da ciò, che s'è in questi libri veduto, si conosce, che Federico quando fu corrisposto da' Pontefici, fu cotanto attaccato alla Chiesa romana, ed ai suoi Ministri, che Ottone soleva perciò chiamarlo il Re de' Preti. E si vede ancora dalle tante sue Costituzioni promulgate tutte favorevoli alla giurisdizione della Chiesa, le quali insino oggi s'osservano. Quanto perseguitasse gli Eretici ben si è di sopra veduto, e ben lo dimostrano le severe sue Costituzioni, che promulgò contro i medesimi, non meno per estirpargli da Italia, che dalla Germania. E se dobbiam credere a Capecelatro, Inveges, e ad alcuni Scrittori, egli fu, che per osservar la promessa fatta al Pontefice Innocenzio III istituì nell'anno 1213 il Tribunal dell'Inquisizione in Sicilia.

In questo nostro Reame si è ancor veduto quanto fosse grande il suo zelo in estirpargli; poichè oltre d'aver pubblicata quella celebre Costituzione Inconsutilem, avendo preinteso, che in queste nostre province, e particolarmente in Napoli, era penetrata l'eresia de' Patareni, mandò l'Arcivescovo di Reggio, e Riccardo di Principato suo Maresciallo a carcerargli. Non istituì però (che che si facesse in Sicilia, di che alcuni anche ne dubitano, non essendovi Scrittor contemporaneo, che lo rapporti) per queste nostre Province particolar Tribunale d'Inquisizione contro i medesimi. Solo comandò a' suoi Ufficiali, che contro di loro, ancorchè non accusati, procedessero ex inquisitione, siccome si costumava negli altri enormi e gravi delitti, e con molto più rigore di quello, che si praticava ne' delitti di lesa Maestà umana. Perciò stabilì, che gl'indiziati, ancorchè per leggieri sospetti, si dovessero portare ad esaminarsi avanti i Prelati e persone ecclesiastiche, come coloro, a' quali appartiene, ed è della lor perizia di conoscere se le opinioni deviano dalla fede cattolica in qualche articolo; i quali Prelati se evidentemente, e con manifeste e chiare pruove conosceranno essere i rei convinti d'eresia, era solamente della loro incumbenza di ammonirgli pastorali more, affinchè lasciassero gli errori, e l'insidie del Demonio; e se, così ammoniti, pertinacemente s'ostineranno ne' loro errori, e costantemente vorranno in quelli perseverare, era terminata la loro incumbenza; e de' rei in cotal guisa convinti, prendevano cura i Magistrati secolari, i quali a tenore di quella sua Costituzione gli sentenziavano a morte, e ad esser bruciati vivi nel cospetto del Popolo. Stabilì ancora che nelle Corti generali, che due volte l'anno doveano tenersi nel Regno, i Prelati dovessero denunciar gli Eretici al suo Legato, ed agli Ufficiali, che componevano quella Corte, affinchè ne prendessero severo castigo. E quantunque presso di noi non istituisse particolar Tribunale, volendo, che que' medesimi suoi Ufficiali, a' quali era commessa la punizione di tutti gli altri delitti, procedessero anche in quello: i modi però, che prescrisse di procedere contro gli Eretici, e le pene, ed i mezzi per iscovrirgli, furono troppo diligenti e rigorosi. Egli fu il primo, che generalmente gli condennò a pena di morte: egli castigava severamente i loro recettatori, e coloro, dai quali erano ajutati: favoreggiò le pruove, e volle, che contro di quelli si procedesse anche ex inquisitione, come in tutti gli altri enormi delitti, e che a somiglianza di questi, per inquisirgli bastassero leggieri indizj: separò con ben fermi e chiari confini le conoscenze, che gli Ecclesiastici, ed il Magistrato secolare doveano avere intorno a questo delitto. La conoscenza del diritto, se tal opinione era eretica, o no, tutta intera la lasciò agli Ecclesiastici; e perciò volle, che gl'imputati d'eresia fossero esaminati da persone ecclesiastiche, perchè non altronde poteva conoscersi se l'errore era dannabile o no, se s'opponeva alla nostra Fede, ed a' suoi Dogmi, o non s'opponeva. Essi doveano ricercarli, essendo ciò della lor perizia, non altrimente che negli altri delitti, ne' quali accade richiedersi il giudicio de' periti. La conoscenza del fatto, e la condanna era del Magistrato secolare, non potendo la Chiesa, come altrove fu notato, in questi delitti, toltone di separargli dal consorzio de' Fedeli, condennar a morte, nè a mutilazion di membra, nè d'affliggere i rei con altre temporali pene.

A torto adunque vien lacerata la fama di Federico da' nostri Scrittori italiani, per lo più tutti Guelfi. E se egli fu crudele contro alcuni Prelati, e più contro i Frati e Monaci, ben nel corso di questo libro si sono vedute le cagioni di tanta severità, e delle occasioni dategli d'usarla. Nè deve riputarsi estraneo dalla potestà del Principe, quando si mova con giuste cagioni, e precisamente se lo faccia per ragion di Stato, d'esiliare i Vescovi, discacciargli dalle loro sedi, imprigionare i Frati, ed incrudelire contro di essi, quando sono perturbatori dello Stato, e della pubblica quiete. E molto meno deve parer cosa strana di taglieggiare i beni degli Ecclesiastici, quando il bisogno del Principe e della Repubblica lo richieda.

I Principi, sempre che il bisogno de' loro Regni il richiedeva, sono stati soliti imporre alle Chiese e Monasterj certo tributo, che esigevano unitamente dalle città e Feudatarj; e come altrove fu notato, li Patrimonj delle nostre Chiese pagavano il tributo agli Imperadori d'Oriente.

Carlo M., discacciato Desiderio, e resosi padrone del Regno d'Italia, lo impose alle Chiese e Monasterj d'Italia, come lo testimonia il Sigonio. E coloro, che sotto il nome di Principi di Benevento ressero la maggior parte di queste province, che oggi compongono il nostro Regno, han sempre esatto questi tributi dalle Chiese e monasterj che si tassavan a proporzione, dal valore delle robe, che possedevano. Così quando nell'anno 851 sotto Lotario Imperadore, e Lodovico Re d'Italia suo figliuolo, fu diviso il Principato di Benevento, ed eretto in Principato di Salerno tra Radelchiso Principe di Benevento e Siconolfo Principe di Salerno, abbiamo, che fra l'altre cose, che furono accordate tra questi due Principi, fu che di tutte le robe de' Vescovadi e monasterj, ovvero Xenodochii, se ne prendesse conto, e secondo il valore delle medesime si tassasse il censo solito a contribuirsi al Principe: nel che furono solamente eccettuati i monasterj di Monte Cassino, e l'altro di S. Vincenzo a Vulturno, i quali perchè stavano sotto l'immediata protezione dell'Imperador Lotario, e del Re Lodovico, furono esentati per li privilegi e prerogative, che ne tenevano. Siccome ne furono anche eccettuate le robe degli Abati e d'altri Ecclesiastici, che servivano al Principe nel proprio palazzo. Ma poi mutate le cose ed innalzato da' Papi l'Ordine ecclesiastico in più sublime stato, sottraendogli, così per ciò che riguarda le loro persone, come le loro robe, dalla potestà e giurisdizione del Principe; sembrava Federico empio e tiranno, il quale seguendo gli antichi esempj, si studiava restituire l'antiche ragioni, e preminenze sopra le loro persone e beni.

Del rimanente, tolte da lui queste false accuse, fu Federico un Principe, in cui di pari gareggiavano la giustizia, la magnificenza e la dottrina. Egli ci lasciò molte sagge ed utili leggi; ed a cui molto deve questo Regno, e Napoli più d'ogni altra città del medesimo. Egli amantissimo delle lettere vi fondò una famosa Accademia, ove chiamò gli scolari da tutti i suoi dominj. Egli ancora dottissimo in filosofia, ed in ogni altra scienza, pose in grande onoranza lo studio pubblico di Salerno per la medicina, e ne fondò un altro di nuovo in Padova, togliendolo da Bologna città sua inimica, ordinando, che in questi Studj non dovessero gire a studiare i cittadini delle città Guelfe sue nemiche di Lombardia, di Toscana e di Romagna.

E ciò che è da ammirare, in un secolo, nel quale, come dice l'Anonimo, erant Literati pauci, vel nulli, egli non solo fu amante delle buone lettere, ma come studiosissimo di filosofia e d'ogni altra scienza compose un libro de Natura, et Cura Animalium . Egli spinse Giordano Ruffo Maestro della sua Manescalchia reale a comporre un Trattato della cura e medicamenti de' cavalli, il quale nel fine del libro, che si conserva in S. Giovanni a Carbonara, fra i libri, che furono del Cardinal Seripando, dice, che egli di quanto avea scritto n'era stato istrutto da Federico suo Signore.

Fece dal Greco e dall'Arabico traslatare molti libri in linguaggio latino, come l'Almagesto di Tolomeo, l'opere di Aristotele, e molti altri di medicina, e di altre scienze, de' quali, siccome scrive Giovanni Pontano, inviò a donare con sua particolar lettera, che si legge nel terzo libro dell'epistole di Pietro delle Vigne, alcune opere d'Aristotele a' Maestri e Scolari dello Studio di Bologna, prima che divenissero suoi nemici.

Fece parimente comporre da Michele Scotto famoso Medico ed Astrologo di que' tempi, e suo carissimo famigliare molti libri di filosofia, di medicina, e di astrologia, come testifica l'istesso Michele in alcuni d'essi, che li dedica, e Corrado Gesnero nel suo Compendio; ond'è, che le cose filosofiche e le matematiche cominciarono ad aver vita: e per essersi queste opere d'Aristotele, e libri di Galeno, e degli altri Medici arabi lette nelle nostre Scuole, e favorite da Federico, quindi la filosofia d'Aristotele, e la medicina di Galeno, acquistarono appresso di noi, e fecero quei progressi nelle Scuole, che insino a' nostri tempi abbiam veduto.

Fece ancora ridurre in ordine quelle sue Costituzioni, donde furon prese molte Autentiche ed inserite nel Codice di che altrove abbiam ragionato; siccome i libri delle nostre Costituzioni pur a lui li dobbiamo che fece compilare da Pietro delle Vigne celebre Giureconsulto di questi tempi. Compose ancora un libro della Caccia de' Falconi, della quale non s'avea allora notizia alcuna; e Manfredi suo figliuolo vi aggiunse poscia molte altre cose.

E se in sì gran Principe questo anche annoverar si dee, fu egli versatissimo in molte lingue, così nella latina, come nella greca, nella italiana, nella francese ed anche nella saracena, oltre della tedesca sua natia; e si dilettò di poesia italiana, e vagamente molti Sonetti e Canzoni compose, che insino ad ora si leggono unite con quelle di Pietro delle Vigne, di Enzio suo figliuolo e d'alcuni altri Poeti di que' tempi, quando la nostra lingua italiana surta dal mescuglio di tante altre lingue e dalla latina precisamente, cominciava a diffondersi, e che raffinata poi da valenti Scrittori, meritò d'esser paragonata alla latina, ed alla greca istessa, anzi contendere con quelle di maggioranza, ed al suo genio verso la poesia deve questo secolo tanto numero di Poeti antichi, de' quali Lione Allacci tessè lungo catalogo; e fra noi l'Abate di Napoli: Giacomo dell'Uva di Capua: Folco di Calabria: Guglielmo d'Otranto: Guezolo da Taranto: Ruggiero e Giacomo Pugliesi: Cola d'Alessandro, e tanti altri antichi Rimatori nell'infanzia della lingua italiana.

Principe magnificentissimo, che ornò Italia e questo nostro Reame di molti nobili edifici, e particolarmente Capua e Napoli, avendo in questa ampliato e ridotto in miglior forma il castello Capuano; ed in quella rifatto con gran magnificenza l'antico ponte di Casilino sopra il fiume Vulturno con due fortissime torri, ove fece porre la sua statua di marmo, che ancora oggi ivi s'addita.

Fondò molte città in questi suoi Reami, le quali furono Alitea e Monte Lione in Calabria; Flagella in Terra di Lavoro a fronte di Cepparano e Dondona in Puglia, delle quali due oggi non vi è vestigio, essendo subito dopo il lor principio disfatte; Augusta ed Eraclea in Sicilia; e l'Aquila in Apruzzi a' confini del Regno per fronteggiare allo Stato della Chiesa.

Ma quello, di che questo nostro Reame è principalmente debitore a questo Principe, si è il vedere, che sotto di lui con miglior ordine e distinzione si videro divise queste nostre province: ciocchè bisogna minutamente notare, per lo rapporto, che si tiene ancora oggi di questa divisione.

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