CAPITOLO V.

Politici ecclesiastica dal decimoterzo secolo insino al Regno degli Angioini.

La potenza de' romani Pontefici si stese in questo secolo tanto, che non fu veduta in altri tempi maggiore: volevan esser creduti Monarchi non meno nello spirituale che nel temporale, e s'arrogavano perciò la facoltà di poter deporre i Principi da' loro Stati e Signorie: chiamargli in Roma a purgarsi de' delitti, dei quali erano stati accusati: assignar loro certo termine a comparire, sentenziargli, e nel caso non ubbidissero, di dichiarargli decaduti da' loro Reami: assolvere i loro vassalli da' giuramenti dati, ed invitar altri alla conquista delle Signorie, ond'erano stati deposti. Riputandosi Signori del Mondo, non aveano difficoltà d'investire i loro devoti di province, e di Regni in tutta la terra, ed in tutto il mare d'isole e golfi, e d'altre province sconosciute e lontane. Bonifacio VIII avendo Ruggiero di Loria famoso Ammiraglio di mare conquistata Gerba ed alcune altre isole dell'Affrica, tosto nel primo anno del suo Ponteficato 1295 essendo in Anagni gliene spedì Bolla d'investitura, per la quale gli concedè in Feudo le isole suddette con obbligarlo a prestar il giuramento di fedeltà ed omaggio, e di pagarli cinquanta once d'oro l'anno al peso del Regno di Sicilia, per censo, in ricognizione del dominio diretto, ch'egli vi pretendeva, siccome lo pretendeva in tutte le altre province del Mondo; e la carta di quest'investitura è rapportata dal Tutini. E da questo principio nacque, che Alessandro VI nell'anno 1493 si facesse lecito di concedere la terra ferma e l'isole insino a' suoi tempi sconosciute, e tirar una linea da un Polo all'altro, assegnandole e donandole a Ferdinando ed Isabella Re di Castiglia. Quindi surse la nuova dottrina professata da' Dottori Guelfi e dai Canonisti che il Papa fosse Signore di tutto il Mondo contrastando a' Dottori Ghibellini, che ne facevano Signore l'Imperadore.

La Cattedra di S. Pietro volevano che si riputasse la Reggia universale del Cristianesimo, ed a questo fine ingrandirono i Cardinali e depressero i Vescovi, per rendere più maestosa la loro Sede. I Cardinali, come si è veduto, sdegnavano di andar di persona a trattare con Manfredi, dicendo, che ciò non era di loro stima ed onore; ed Innocenzio IV ad onta di Federico, che s'ingegnava abbassargli insieme con tutto l'Ordine ecclesiastico, volle dargli il cappel rosso, la valigia e la mazza d'argento quando cavalcavano, volendo che alla regia dignità fosse la loro agguagliata; ed essendosi da poi proccurato d'innalzar assai più la loro dignità a gradi ed onori Eminenti, vennero dagli adulatori della Corte romana anche chiamati Grandi Senatori, che venerati con regali onoranze eleggono il Supremo Principe, che così chiamano il Papa, ed assistono al suo gran soglio.

Divenuto il Papa Monarca, i Cardinali grandi Senatori, e la Sede Appostolica Reggia e Corte universale del Cristianesimo, Gregorio IX per maggiormente stabilire la Monarchia applicò l'animo ad una compilazione e pubblicazione di Decretali, le quali terminarono di mettere interamente in rovina il diritto antico de' Canoni, e stabilirono la possanza assoluta e senza termine de' romani Pontefici; poichè considerando, che siccome l'Imperador Teodosio formò la politia dell'Imperio, con far raccorre le costituzioni ed editti, così suoi, come degli altri Imperadori predecessori in un libro, che fu poi chiamato il Codice Teodosiano; e l'Imperador Giustiniano, oltre la compilazion delle Pandette, che contenevano le leggi antiche accomodate al suo tempo, ridusse ancora in un corpo le sue costituzioni e quelle de' predecessori Imperadori nel suo Codice; così bisognava formar una nuova politia per la Chiesa accomodata a' suoi tempi (giacchè, mutate le cose, la compilazione del Decreto non era a proposito) e di ridurre perciò in un corpo tutte l'epistole decretali de' suoi predecessori, con separarle da' canoni, e dall'altre epistole de' Pontefici, le quali non potevano servire, come queste, ch'egli trascelse, per stabilire la Monarchia romana, e massimamente per la materia beneficiale e per lo Foro episcopale, e per maggiormente stendere la conoscenza nelle cause e la loro giurisdizione; ond'egli, ad imitazione di que' due grandi Imperadori, ordinò la compilazione d'un nuovo Codice; ed aboliti tutti gli altri rescritti, volle, che questo suo libro, che chiamò Decretale, avesse tutta la forza e vigor di legge; nel quale vi è molto più intorno a quello che concerne l'edificazione de' processi, che l'edificazione dell'anime.

I. Della compilazione delle decretali; e loro uso ed autorità.

Epistole decretali erano ne' primi tempi chiamate quelle lettere, che i Vescovi delle Sedi maggiori scrivevano a' Padri della Chiesa, che gli richiedevano di qualche parere intorno alla dottrina, e disciplina della Chiesa. Ma da poi il Pontefice romano, come Capo della Chiesa essendosi innalzato sopra tutti i Vescovi e Patriarchi, e facendo perciò valere la sua autorità più di tutti gli altri, s'appropriò egli solo di mandar sue epistole ai Padri ed a' Vescovi, che ricorrevano a lui per consultarsi di qualche affare delle loro Chiese; e pervenute queste epistole a qualche numero, sin ne' tempi di Papa Gelasio nel Sinodo di 70 Vescovi tenuto in Roma nell'anno 494 furono quelle confermate, acquistando vigore non meno che i Canoni, che ne' Concilj erano stabiliti.

Ma a' tempi di Carlo M. che favorì cotanto i Pontefici romani, acquistando vie più forza le loro decretali, si cominciò a separarle da' Canoni, e riputandosi non esser mestieri per aver vigore, di esser confirmate da' Concilii, o da' Sinodi, si credette, che esse sole bastassero per regolare la dottrina e la disciplina della Chiesa, onde maggiormente i Pontefici stabilirono la loro autorità, e vie più crebbe il lor numero, tanto che bisognò pensare ad unirle insieme, e farne raccolta, con introdursi perciò un nuovo dritto Pontificio, lasciando da parte stare i Canoni de' Concilii.

La prima compilazione di queste lettere decretali separate da' Canoni la fece Bernardo Circa Preposito di Pavia, e poi Vescovo di Faenza, il quale sotto certi titoli dispose le decretali de' Pontefici, cominciando da Alessandro III, insino a Papa Celestino III il qual pervenne al Ponteficato nell'anno 1191. Non ebbe egli altro scopo, se non perchè quella servisse, come un supplemento al decreto di Graziano; onde questa Raccolta fu chiamata libro delle Stravaganti, perchè le Costituzioni ivi racchiuse, vagavan fuori del Decreto . Antonio Augustino la diede alla luce, dandole il primo luogo fra le altre Raccolte delle antiche decretali. In questo decimoterzo secolo ne surse un'altra, di cui si nominano tre Autori, Gilberto, Alano e Giovanni Gallense. Questi imitando Bernardo, raccolsero le decretali di quelli Pontefici, che vissero dopo Bernardo; ma sopra i due primi si distinse Giovanni, che ne fece più ampia Raccolta. La terza la dobbiamo a Bernardo Compostellano il quale da' Registri d'Innocenzio III Pontefice il più dotto, e 'l maggior facitore di decretali, le raccolse, fu chiamata Romana .

Tutte queste Collezioni essendosi fatte per privata autorità, allegate nel Foro o altrove, non avevano vigor alcuno; onde era di mestieri da' scrigni della Chiesa di Roma cavar gli esemplari perchè facessero autorità. Per la qual cosa i Romani pregarono Innocenzio III perchè di sua autorità comandasse una nuova Compilazione: Innocenzio loro compiacque e diede la cura a Pietro Beneventano suo Notajo, che la facesse: questi nell'undecimo anno del suo Ponteficato intorno il 1210 la fece, e fu la prima raccolta del jus Pontificio, che si facesse con pubblica autorità. Passati cinque anni, coll'occasione del Concilio tenuto in Laterano sotto il medesimo Pontefice, se ne fece un'altra nel 1215, nella quale furono aggiunte tutte le decretali e rescritti, che per lo spazio di que' cinque anni eransi emanati. Da poi nell'anno 1227 Tancredi Diacono di Bologna ne fece un'altra, nella quale unì le Costituzioni d'Onorio III successor d'Innocenzio; ma quantunque fosse stata terminata in quell'anno, nel quale morì Onorio IX suo successore, che meditava oscurar la fama de' suoi predecessori con una più ampia o nuova compilazione, la fece supprimere, nè mai vide la luce del Mondo, se non negli ultimi tempi, quando Innocenzo Cironio nell'anno 1645 la fece imprimere in Tolosa colle sue dottissime chiose.

Gregorio IX adunque per maggiormente stabilire la Monarchia romana, ordinò, che si compilasse un nuovo Codice, nel quale ad imitazione dell'Imperadore Giustiniano, volle, che risecate le altre Costituzioni dei Pontefici suoi predecessori, le quali non erano più confacenti a' suoi tempi, s'inserissero in quello le sue e l'altre de' suoi predecessori, che egli stimò più a proposito; ed oltre a ciò, perchè non s'avesse occasione di ricorrere al jus civile, statuì da se molte cose ancorchè non richiesto, affinchè con questo suo Codice si regolassero i Tribunali ne' giudicii, e le Scuole nell'insegnar a' giovani la giurisprudenza. Commise la compilazione di quest'opera a Raimondo di Pennaforte del Contado di Barcellona, Frate Domenicano, gran Canonista, ed Inquisitore in Catalogna, e molto caro a Giacomo Re d'Aragona, che lo trascelse per suo Confessore. Gregorio tratto dalla fama della sua dottrina e bontà de' costumi, lo fece venire in Roma, e lo creò suo Cappellano e Penitenziero, dignità che a que' tempi non si conferiva se non che ad uomini riguardevoli e letteratissimi. Costui eseguendo la sua commessione la ridusse a compimento. Divise l'opera in cinque libri, e seguitò l'istesso metodo appunto, che tenne Triboniano nella compilazione del Codice di Giustiniano.

Papa Gregorio, vedendo terminata l'opera a seconda del suo genio, tosto promulgò una Costituzione, che la propose all'istesso Codice, per la quale, abolendo tutte le altre, comandò a tutti, che solamente di questa compilazione si servissero così ne' giudicii, come nelle scuole: proibendo ancora con molto rigore, che per l'avvenire niuno abbia ardimento di farne altra, senza spezial autorità della Sede Appostolica. Comandò ancora, che per tutto il Mondo si divolgasse, ed in tutte l'Accademie ed Università d'Europa si legesse, infiammando allo studio di quella non meno i Professori, che gli scolari.

Non vi fu parte d'Europa, che per la potenza e credito di Gregorio non la ricevesse con ardore; e si mossero i Professori da tutte le parti, non meno ad insegnarla nelle scuole, che a farvi copiose chiose. I primi furono Ruffino, Silvestro e Riccardo inglese: Rodovico cognominato di pocopasso, e Pietro Corbolo, ovvero Boliato spagnuolo: Bertrando, Damaso ed Alano inglese: Pietro Preposito di Pavia, Pietro Gallense di Volterra, Bernardo Compostellano, Vincenzo Castiglione di Milano, Giovanni Teutonico e Tancredi. Seguitarono appresso le costoro pedate Guglielmo Naso e Giacomo di Albenga Vescovo di Faenza, Vincenzo Goffredo, Filippo, Innocenzio Ostiense, Pietro Sampso, Egidio bolognese, Bonaguida d'Arezzo, Francesco da Vercelli, Boatino di Mantua, e l'Arcidiacono . Ma surse poi sopra gli altri Bernardo Bottone da Parma, il quale raccogliendo tutte le costoro Chiose, ne fece egli, intorno l'anno 1240, una più ampia, trasferendo a se la gloria di tutti.

Anche i Monaci per secondare il genio de' Pontefici v'impiegarono i loro talenti, e sopra queste Decretali composero un'opera intitolata Suffragium Monachorum; ma come mancante delle cose sustanziali, e ripiena di molti errori e di cose vane e superflue, riuscì molto inetta ed inutile. Frate Giacomo Canonico di S. Giovanni in Monte pure intorno a ciò volle affaticarsi: ma così egli, come tutti coloro, che vi s'erano affaticati riuscirono inetti, e siccome per quelli, che s'erano impiegati sopra il Decreto, ne nacque il proverbio Magnus Decretista, Magnus Asinista, così ancora, secondo che ci testifica Giacomo Gujacio, non vi furono Dottori più inetti di coloro, i quali a questi tempi si posero a scrivere sopra questo nuovo Diritto Pontificio.

Dopo questa compilazione di Gregorio non tralasciarono gli altri Pontefici suoi successori (per ingrandire vie più la Monarchia romana) di stabilire altre loro Costituzioni, sicchè nel fine di questo istesso secolo decimoterzo non fosse stimata necessaria da Bonifacio VIII una nuova altra compilazione. Se n'erano stabilite alcune da Gregorio istesso, molte da Innocenzio IV, da Alessandro IV, da Urbano IV, da Clemente IV, da' due Gregorio IX e X, da Niccolò III e dall'istesso Bonifacio. Vi erano ancora molte Costituzioni fatte nel Concilio di Lione nell'anno 1245 sotto Innocenzio IV. Ve n'erano ancora delle stabilite nell'altro Concilio di Lione, tenuto nel 1274 sotto Gregorio X. Per tanto Bonifacio VIII, il quale sopra tutti gli altri suoi predecessori ebbe idee molto grandi, e vaste del Ponteficato romano, riputando per quella sua veramente stravagante Costituzione unam Sanctam, che in balia del Papa sia maneggiar ugualmente i due coltelli, e la sovranità temporale essere dipendente dalla spirituale: volle, che di tutte queste Costituzioni se ne formasse una nuova raccolta, e fosse come di Giunta a quella fatta da Gregorio IX, e ne diede l'incumbenza a tre Cardinali, a Guglielmo Mandagoto Arcivescovo d'Ambrun, al Vescovo Berengario Fredello ed a Riccardo Malumbro da Siena gran Dottore di que' tempi, e Vicecancelliere della chiesa di Roma. Costoro diedero compimento all'opera, e la divisero pure in cinque libri, e quasi in altrettanti titoli, come fu divisa da Raimondo di Pennaforte la sua. Bonifacio, compita che fu, la fece pubblicare intorno l'anno 1299 e volle, che s'aggiungesse al volume delle decretali di Gregorio, e si chiamasse perciò il Sesto libro; e con sua particolar Bolla ordinò, che da tutti s'osservasse, che in tutte l'Università del Mondo si leggesse, e ne' Tribunali avesse la sua forza e vigore, non altrimenti di quel, che Gregorio fece per la sua; ma in Francia questa compilazione di Bonifacio non ebbe gran successo, non solo per contener molte ordinazioni riguardanti l'ingrandimento della sua potenza, e del maggior guadagno della sua Corte, ma ancora perchè molte cose in quella avea stabilite in odio del Regno di Francia per le controversie, ch'allora ardevano fra lui e il Re Filippo il Bello. Non così gli avvenne negli altri Regni dove fu con onor ricevuta, nè le mancarono Canonisti, che vi facessero le loro Chiose, e fra gli altri il famoso Giovanni d'Andrea insigne Dottore del diritto canonico di quei tempi.

Seguirono da poi nel seguente secolo decimoquarto l'altre Collezioni chiamate le Clementine; ed anche l'Estravaganti, affinchè siccome le compilazioni sinora fatte corrispondevano, cioè quella del Decreto alle Pandette, e le Decretali al Codice, così l'Estravaganti corrispondessero alle Novelle; e perchè niente mancasse, negli ultimi secoli, si venne anche a far compilare i libri delle Istituzioni; di che ne' loro luoghi e tempi secondo l'opportunità, che ci sarà data, ragioneremo.

Queste Decretali presso di noi durante il Regno de' Svevi, in quelle cose, che s'opponevano alle nostre Costituzioni, non ebbero gran successo: e così Federico II come gli altri Re svevi suoi successori fecero valere le loro Costituzioni, e quelle dei Re normanni suoi predecessori, contrastando con vigore alle sorprese, che intendevano fare i romani Pontefici sopra i loro diritti e supreme regalie, facevano valere le leggi da essi stabilite sopra i matrimoni, sopra gli acquisti de' stabili alle Chiese, mantenevano le loro regalie nelle Sedi vacanti, nell'elezioni de' Prelati, e sopra tutto ciò, che ne' precedenti libri si è potuto osservare.

Ma caduto questo Regno sotto la dominazione degli Angioini uomini ligi de' Pontefici romani, e da' quali riconoscevano il Regno, prendendo vigore la fazion Guelfa, ed abbassata affatto la Ghibellina, tantosto si vide tutto mutato, ed introdotte nuove massime, e le Decretali non pur ricevute ed insegnate nelle scuole, ma anche ne' Tribunali: non già per legge d'alcun Principe, ma per l'uso e consuetudine, che di quelle s'avea in ciò, che non era espresso nel diritto civile, e massimamente per l'edificazione de' processi nelle cause forensi, per la forma e per l'ordine di procedere ne' giudicii, contenuto nel secondo libro; siccome ancora per le cause ecclesiastiche, e dove accadeva disputarsi di cosa, che poteva portar peccato e pericolo della salute dell'anima. Ed i nostri Principi della casa d'Angiò, ancorchè conoscessero essersi quel volume fatto compilare per gareggiare colle leggi degli Imperadori, ed ingrandire la potenza de' Pontefici, e che si metteva mano non pure alle cose ecclesiastiche ma anche alle profane, con assumersi autorità di giudicare sopra tutte le cause ne' dominii dei Principi cristiani, così fra gli Ecclesiastici come fra' laici; nulladimanco parte per trascuraggine ed ignoranza, non sapendo essi farne migliori, parte perchè molto loro premea aver la grazia e buona corrispondenza de' Pontefici, non si curarono di farle valere ne' loro dominii, e che non pure nelle pubbliche scuole s'insegnassero, ma anche ne' loro Tribunali s'allegassero.

I nostri Professori perciò vi s'applicarono non meno di quello, che faceano gli altri nelle altre città d'Italia; onde imbevuti delle loro massime, ciò che non era a quelle conforme, era riputato straniero ed ingiusto. Alcune Costituzioni di Federico e degli altri Re normanni suoi predecessori, parvero perciò empie, e tra l'altre quelle, che disponevano de' matrimoni, degli acquisti, della cura delle robe delle Chiese vacanti e cose simili: si credette che ciò non potesse appartenere alla potestà del Principe, e fosse un metter la falce nell'altrui messe. Andrea d'Isernia disse chiaramente, che tutto ciò erasi prima stabilito, perchè allora non era uscito fuori il libro delle Decretali: non erat compilatum (e' dice) volumen Decretalium .

A tutto ciò providero ancora i romani Pontefici nell'investiture, che diedero a' nostri Re, e Clemente IV in quella che diede al Re Carlo I d'Angiò, volle che s'annullassero tutte le Costituzioni e tutti gli Statuti, che riputava essere contra la libertà ecclesiastica, togliendogli molte regalie e preminenze, che i Re normanni e svevi si aveano mantenute; onde presso di noi nel Regno degli Angioini, non solo i Pontefici romani non ebbero alcuno ostacolo a' loro disegni di stabilire la Monarchia; ma trattando questo Reame come lor Feudo, ed i Principi come veri Feudatarj e loro ligi, vi fecero progressi maravigliosi, come si vedrà chiaro ne' seguenti libri di quest'Istoria.

II. Elezione de' Vescovi, e provisione intorno a' beneficj.

Non bastava per fondar una Monarchia provvederla di sole leggi, ed ornar la Corte di grandi Senatori, e di altri Ministri per renderla più maestosa; ma bisognava ancora provvederla di denaro, per mantenerla con pompa e fasto conveniente ad una Reggia universale del Cristianesimo, senza il quale sarebbe tosto sparita. Le sole rendite dello Stato della Chiesa di Roma non bastavano: si proccurò pertanto tirare da tutte le province ogni cosa a Roma. Bisognava, che siccome gli altri Principi per gratificare i loro fedeli, e per premiare coloro che per essi militavano, concedevan Feudi, Dignità ed Ufficj: così era uopo averne de' consimili per potergli dispensare a coloro che militavano per la Corte, e trovar mezzi per istabilirgli, affinchè niente mancasse, ed in tutto il Sacerdozio corrispondesse all'Imperio. S'istituirono perciò molte dignità ed ufficj, i quali non appartengono punto alla Gerarchia della Chiesa per ciò che concerne il suo potere spirituale; ma indrizzati solamente per la temporalità e giurisdizione, e per le cose del governo politico: ed in ciò la Corte di Roma ha superate tutte l'altre Corti de' Principi. Per li Feudi, si sono istituiti i Beneficj, e siccome per la materia Feudale surse una nuova giurisprudenza, che ha occupati tanti volumi, così per la materia Beneficiale ne surse un'altra, che ha occupati assai più volumi presso i Canonisti, che non la Feudale presso i Legisti.

La maniera, che si praticò per fargli sorgere, fu non meno ingegnosa che travagliosa: bisognò lungo tempo per istabilirgli, e s'ebbero da sostenere grandi contese co' Principi, e co' Popoli, e Capitoli delle province per tirargli tutti a Roma.

L'elezioni de' Vescovi, ancorchè in apparenza si lasciassero al Clero, si è già veduto, che i Pontefici si servivano di varj mezzi per tirarle tutte in Roma. Si proccurò ancora togliere nell'elezioni l'assenso a' nostri Principi: Federico II, Corrado e Manfredi sostennero con vigore i loro diritti, nè permisero sopra ciò novità alcuna; ma Clemente IV, investendo Carlo I d'Angiò, fra i Capitoli, già rapportati, che gli fece giurare, volle espressamente, che si rinunciasse a quest'assenso, e nel capitolo 18 gli prescrisse, che così egli, come i suoi successori, non s'intromettessero nell'elezioni, postulazioni e provisioni de' Prelati, in maniera, che nè prima, ne dopo l'elezione si ricercasse regio assenso; ma solamente lor rimanesse salvo il diritto, che per ragione di patronato avessero in alcune Chiese, per quanto i canoni concedono a' padroni di quelle.

Rimase solamente a' nostri Re la facoltà di poter impedire all'eletto, che se gli dasse la possessione senza il lor placito regio; e questa pure tentarono di contrastarla; ma non meno gli Aragonesi, che gli Angioini stessi loro ligi, se la mantennero, leggendosi, che Carlo II essendo stato eletto Manfredi Gifonio Canonico di Melito per Vescovo di questa istessa città, perchè era al Re sospetto, gl'impedì il possesso di quella Chiesa, non concedendogli il regio exequatur, come si legge nella carta del Re data in Napoli nell'anno 1299, rapportata dall'Ughello nella sua Italia Sacra. E tutti gli altri Re Angioini, come Carlo III Ladislao, insino alla Regina Giovanna II quando gli eletti non eran loro sospetti, davano alle Bolle papali di loro provisione l'exequatur; di che presso il Chioccarelli se ne leggono più esempj.

Tolse ancora Clemente a' nostri Re la Regalia, la quale (non meno che i Re di Francia) tenevano nelle Sedi vacanti del nostro Regno, con porvi i Regj Baglivi, o altre persone da essi destinate per l'amministrazione dell'entrate, per conservarle al successore, secondo il prescritto de' canoni; e Federico II, com'è chiaro dalle nostre Costituzioni del Regno, ve la mantenne. Siccome altresì fece Corrado suo successore, il quale, secondo che narra Matteo Paris, essendo stato dal Pontefice, fra l'altre cose, imputato, che avesse occupato i beni delle Chiese vacanti; rispose all'accusa, ch'egli non faceva usurpazione alcuna, ma valevasi di quella istessa ragione, che i suoi Predecessori s'erano valsi nelle Sedi vacanti, con dar la cura de' beni di quelle a' suoi proccuratori idonei, e fargli da quelli amministrare; e che egli era contento di valersi di quell'istessa ragione, che i Re di Francia, e d'Inghilterra valevansi nelle Chiese vacanti de Regni loro.

Ma Clemente IV ne' suddetti Capitoli investendo Carlo I ciò non piacendogli, volle nel capitolo 22 obbligare quel Re, e suoi successori a rinunziare a qualunque Regalia, stabilendo, che nelle Sedi vacanti non potesse pretendere, nè avere, nè regalie, nè frutti; rimanendo intanto, finchè non fossero proviste, la custodia delle Chiese presso le persone ecclesiastiche, le quali secondo il prescritto de' Canoni dovranno amministrare le rendite di quelle, e conservarle a' futuri successori. Questo fu un gran passo, che avanzarono i Pontefici romani, togliendo a' nostri Principi le regalie nelle Chiese vacanti; poichè, se bene in questi principii si mostrasse di far rimanere la cura delle medesime alle persone ecclesiastiche, e di regolare l'amministrazione delle loro entrate secondo i Canoni; nulladimanco in processo di tempo, vi destinarono essi i Collettori e Nunzii, i quali mettendo mano sopra i beni di quelle, non più a' futuri successori, ma a Roma si serbavano i frutti; onde fu stabilito presso di noi un nuovo fondo, e cominciò a sentirsi il nome di Nunzio Appostolico, il che non ebbe perfezione se non nel seguente secolo decimoquarto nel Regno di Roberto per le cagioni, che saranno da noi rapportate ne' libri seguenti di quest'Istoria, quando ritornerà occasione di favellare dell'introduzione del Collettore Appostolico nel Regno e de' suoi maravigliosi progressi in fornir Roma di danari per gli spogli delle nostre Chiese, e per altri emolumenti, che ivi si tirarono.

Si fecero ancora a questi tempi altre sorprese per tirar ogni cosa in Roma; poichè quando prima, secondo i concordati dal Re Guglielmo I colla Sede Apostolica, non erano accordate le appellazioni del Regno di Sicilia; ora Clemente nel 18 articolo dell'investitura data a Carlo, espressamente convenne, che le cause ecclesiastiche dovessero trattarsi innanzi agli Ordinarii, e per appellazione dalla Sede Appostolica; ed essendosi proccurato in questi tempi, come vedremo più innanzi, stendere la conoscenza, ed il Foro episcopale in immenso, e tanto che non vi era litigio, dov'essi non pretendessero metter mano, furono tirate tutte le cause in Roma: ciò che apportò a quella Corte grandi emolumenti e danari.

Ma quello, che portò maggior utile e guadagno alla Corte di Roma, siccome non minor povertà al Regno, fu la provisione de' beneficii, ed i varii mezzi e modi inventati e stabiliti da poi per le loro Decretali, ed Estravaganti e molto più per le Regole della Cancelleria, per le quali quasi tutto il denaro delle nostre chiese e monasterii va a colare in Roma.

Il nome di Beneficio fu ne primi secoli della Chiesa inaudito, nè per tutto il tempo, che durò la quadripartita divisione de' beni di quella, s'intese mai; ma quella poi posta in disuso ed annullata, si videro varie mutazioni. Siccome la parte assignata a' poveri si diede a' Vescovi col peso d'alimentargli, così la porzione assegnata a' Cherici cessò, ed in sua vece furono assegnati agli ecclesiastici ufficii certi, con destinar loro determinate rendite, delle quali si servissero i Ministri delle Chiese, come di roba propria; e questo dritto di raccogliere le mentovate rendite congiunto col ministerio spirituale, fu generalmente appellato Beneficio, e credesi che tal nome, ed assegnato di rendite a ciascun ministero cominciasse nel nono secolo circa l'anno 813 come si raccoglie dal Maguntino, celebrato in quell'anno, dove la prima volta si fa menzione del Beneficio ecclesiastico. In cotal guisa, siccome coloro, che militavano per l'Imperio, erano premiati con Feudi, che pure si dissero Beneficj, così i Ministri militanti per la Chiesa era di dovere, che si premiassero con tal sorte di Beneficj, cioè con queste rendite, e dignità ecclesiastiche, le quali erano chiamate Beneficj; affinchè con tal premio ciascuno si rendesse più animoso e forte, e adempisse al proprio dovere ed ufficio.

Ma questi beneficj non essendo, che un dritto annesso e dipendente dal ministerio di godere le rendite ecclesiastiche in vigore d'una canonica istituzione, bisognava, che chi il conferiva, avesse ragione e potestà di conferirlo, e che la persona, a chi si conferiva, fosse parimente ecclesiastica, per cagion del ministerio, a cui con titolo perpetuo era unito. Nelle diocesi la facoltà di conferire era de' Vescovi, i quali o liberamente gli conferivano, ovvero di necessità; ed era quando il beneficio non poteva conferirsi se non a colui, che il Padrone presentava in vigor del patronato, che v'avea: diritto, che erasi acquistato, o per aver fondata la Chiesa, o arricchitala di beni, sopra i quali avea istituito il beneficio.

I Pontefici romani trovaron mezzi non solo di tirar in Roma le collazioni, e privarne i Vescovi, ed i padroni delle presentazioni, ma d'inventare nuove regole, perchè ogni cosa servisse a congregar tesori. Prescrissero certi termini, così agli uni, come agli altri, di valersi di loro ragione, li quali elassi, la collazione si devolve a Roma. Parimente se nominavano persone indegne ed incapaci, ed a' quali ostassero canonici impedimenti, a' quali essi soli si riserbarono la potestà di poter dispensare, togliendola ad ogni altro. Se fra gli presentati, o eletti accadeva litigio, la causa era tirata in Roma, e spesso il beneficio si conferiva nè all'uno, nè all'altro, ma ad un terzo. S'introdusse, che il Papa potesse concorrere, e prevenire ciascun collatore de' Beneficj. S'inventò la Riservazione, ch'è un decreto, per cui il Papa innanzi che un Beneficio vachi, si dichiara, che quando vacherà, nessuno lo possa conferire. Che li vacanti in Curia, la provisione sia del Papa; siccome tutti li vacanti per privazione, ovvero per traslazione ad un altro Beneficio, ed ancora tutti quelli, the fossero rinunziati in Curia, e tutti li Beneficj dei Cardinali, Ufficiali della Corte, Legati, Nunzj, ed altri Rettori e Tesorieri nelle terre dello Stato romano, e parimente li beneficj di quelli, che vanno alla Corte per negozj, se nell'andare, o nel tornare morissero circa 40 miglia vicini alla Corte, ed ancora tutti quelli, che vacassero, a cagione che li possessori loro avessero avuto un altro beneficio.

Furono ancora introdotte le Rassegnazioni, comandandosi sotto spezioso pretesto di levare la pluralità de' Beneficj, che chi ne avea più gli rassegnasse; e per l'avvenire, chi avendo un beneficio curato ne ricevesse un altro, dovesse parimente rassegnar il primo, e li rassegnati fossero riservati alla disposizione del Papa.

S'introdussero in questo secolo le Commende dei beneficj, le quali secondo la loro istituzione antica, non duravan, che per poco tempo: perchè vacando un beneficio, che dall'Ordinario per qualche rispetto non si potesse immediatamente provvedere, la cura di quello era raccomandata dal Superiore a qualche soggetto degno, sin tanto che la provisione si facesse, il quale però non aveva facoltà di valersi dell'entrate, ma di governarle, e riserbarle al futuro successore; ma poi, ancorchè i Pontefici proibissero a' Vescovi il Commendare più che sei mesi, essi passarono a dare le Commende a vita. E le Commende delle nostre Badie rendute ricchissime, che stabilirono nel nostro Reame, han tirato in Roma più tesori, che quelle di tutte le altre parti d'Italia.

Papa Giovanni XXII che si distinse sopra tutti gli altri per l'esquisita diligenza, che avea in cavar danari d'ogni cosa, onde in 20 anni di Pontificato ragunò incredibili tesori, e con tutta la profusione usata in vita, pure lasciò alla morte sua 25 milioni: introdusse da poi l'Annate, ordinando, che per tre anni ogniuno, che otteneva beneficio di maggior rendita, che 24 ducati, dovesse nell'espedizione delle Bolle pagare l'entrata d'un anno: il qual pagamento però finiti li tre anni fu continuato così da lui, come da' suoi successori.

Furono anche introdotte le Pensioni sopra i beneficj, le quali sono riuscite più utili che i beneficj stessi. S'introdussero anche le Coadiutorie, i Regressi, le Grazie espettative, gli Spogli e tanti altri modi per tirar denaro in Roma. Ma sopra tutto li tanti divieti, per potervi appoggiar poi le tante dispense, così per la pluralità de' beneficj in una persona, come per li gradi di matrimonj, per le irregolarità, per l'illegittimità di natali, e per tante altre infinite ed innumerabili cagioni; onde non concedendosi quelle senza denari, vennesi per tante, e sì diverse scaturigini ad essere ben provveduta di tesori la Reggia universale del Cristianesimo: con impoverirsi all'incontro le nostre Chiese, e togliersi ai nostri Vescovi la provisione di quasi tutti i beneficj del Regno, li quali erano in Roma provveduti nella maggior parte a' forestieri, esclusi i nazionali, contro il prescritto de' Canoni.

Quando nella general Dieta tenuta in Vormazia, alle querele de' Principi e de Vescovi si trattò di togliere questi abusi, narra il Cardinal Pallavicino, che i Legato del Papa Alessandro altamente si protestava, che ciò sarebbe uno sconvolgere tutto il Mondo: e facendo la Chiesa un Corpo politico, diceva che il volerlo ridurre all'antica disciplina, era l'istesso, che far tornare un giovane al vitto, che usò bambino; e che siccome le complessioni si mutano ne' corpi umani, così parimente avviene ne' Corpi politici. E quando nel Concilio di Trento s'ebbe a trattare di quest'istessa materia, per darvi almeno riforma, fu la cosa più sensibile e spiacente, che mai potesse proporsi. Si opposero con vigore i Prelati del Papa, e difendevano gli abusi per quest'istesso, che sarebbe dissolvere questo Corpo politico, e questa gran Monarchia; e l'istesso Cardinal Pallavicino alla svelata dice, ch'essendo il Papa il Supremo Principe, che ha tanti gran Senatori venerati con regali onoranze, in una Reggia universale del Cristianesimo, non deve sembrar cosa strana, se per conservar lo splendore d'una Reggia ecclesiastica abbia tirato a se tutte le grazie, le dispense, le collazioni, e tanti altri emolumenti per le resignazioni, regressi, annate, pensioni, spogli e tanti altri modi introdotti per tirar danaro in Roma; poichè (e' dice) siccome qualunque Principe riscuote senza biasimo i diritti per le grazie e per le dispensazioni, ch'egli concede secondo le tasse del suo Governo, così non debba biasimarsi il Papa Principe Supremo e Monarca, per ciò che concede e dispensa nel Cristianesimo; e siccome i Principi qualora talun de' suoi Fedeli s'è segnalato in qualche azione militare o politica, gli concede Feudi o altra mercede; così il Papa Principe Supremo dispensa quanti beneficj egli vuole a chi s'è segnalato in qualche azione o d'aver maneggiato bene un affare, compita bene una Legazione o Nunziatura o fatti altri importanti servizi alla Santa Sede; ed affinchè non fossero distratti dai loro impieghi, e si togliesse l'incompatibilità d'aver molti di questi beneficj, e non adempire a' ministeri, a cui sono annessi, s'introdusse, che in vece dell'ufficio, bastasse la semplice recitazione del breviario e dell'ore canoniche.

Per mantener questa Reggia, dice ancor questo Cardinale, che bisognava aprire più fonti per cavar denari ed onori, onde i Ministri si mantengano con decoro e pompa conveniente a' Re; e che perciò non debbasi molto badare all'unione di più beneficj in una persona, senza obbligargli alla residenza. Questi sono i mezzi in verità (e' dice) per conservar con splendore l'Ordine clericale, ed una Reggia ecclesiastica; un de' più efficaci è la copia di que beneficj, i quali non obbligano a residenza: dovea provvedersi con ciò ed una Corte e ad una Reggia universale. Ed altrove valendosi del medesimo paragone del Principe, apertamente dice, che siccome l'erario del Principe bisogna star sempre pieno per ben governarsi lo Stato, così, tener l'erario vuoto il Papa, Principe supremo, è l'istesso, che allentar la disciplina. Quindi conchiude, che il riformar la Datarìa, proibire a' Giudici ecclesiastici impor pene pecuniarie, ed il levar le spese nelle dispensazioni, era un allentar la disciplina; poichè la pecunia (sono sue parole) è ogni cosa virtualmente; così la pena pecuniaria è dall'umana imperfezione la più prezzata di quante ne dà il Foro puramente ecclesiastico: il quale non potendo, come il secolare, porre alla dissoluzione il freno di ferro, convien che gliel ponga d'argento.

III. Della conoscenza nelle Cause.

Tirate tutte le cause d'appellazioni in Roma, si proccurò ampliare la giurisdizione del Foro episcopale, e stendere la conoscenza de' Giudici ecclesiastici sopra più persone, ed in più cause, sicchè poco rimanesse a' Magistrati secolari d'impacciarsene. Federico II in alcuni enormi e gravi delitti de' Cherici, perchè non rimanessero impuniti, prendeva egli sovente a fargli castigare: ma Clemente nelle condizioni dell'investitura data a Carlo, volle nel 20 articolo che si stabilisse, che in tutte le cause così civili, come criminali non si potessero convenire avanti il Giudice secolare, se non si trattasse civilmente di cause feudali. E le sorprese, che a questi tempi si fecero, non pure presso di noi, durante il Regno degli Angioini, ma anche nel Regno stesso di Francia, furono maravigliose. I nostri Re della Casa di Angiò riconoscendo da' romani Pontefici il Regno; e vedendo che in Francia anche quei Re lo sofferivano, non aveano cuore di resistere e di opporsi. Sottratto l'Ordine ecclesiastico totalmente dalla giurisdizione secolare, ed arricchito di molti privilegi ed immunità, si pensò stendere in prima l'esenzione a più persone che non erano di quell'Ordine.

I. Essi mettevano al numero de' Cherici tutti quelli che avevano avuta tonsura, ancorchè fossero casati, ed attendessero ad altre occupazioni, che ecclesiastiche; e narra Carlo Loyseau , che in Francia la cosa s'era ridotta in tale estremità, che quasi tutti gli uomini erano di loro giurisdizione, perchè ciascuno prendeva tonsura per esenzionarsi dalla giustizia del Re o del suo Signore, più tosto che per servire alla Chiesa. In Francia però quest'abuso fu nell'anno 1274 corretto a riguardo dell'esenzioni delle tasse o gabelle dal Re Filippo l'Ardito, il quale volle che i Cherici casati fossero sottoposti alle tasse, come li puri laici, e l'immunità loro rimanesse solo a riguardo del Foro, la quale pure fu poi lor tolta dall'Ordinanza di Rossiglione, la quale questa immunità la conservò solamente ai Cherici costituiti negli Ordini Sacri, e poi il Parlamento la conservò anche a' Beneficiati. Ma nel nostro Regno l'abuso non fu tolto all'intutto, e rimase sol corretto a riguardo dell'esenzioni delle collette o gabelle, rimanendo loro l'immunità a riguardo del Foro, perchè facevano i Re della Casa d'Angiò valere nel Regno la Costituzione di Bonifacio VIII, per la quale era stato conceduto a' Cherici conjugati privilegio d'immunità; onde il Re Roberto nel 1322 ordinò a' suoi Ufficiali del Regno che osservassero detto privilegio, e che non procedessero, così nelle loro cause civili, come criminali, purchè però abbiano contratto matrimonio con una, e vergine, portino la tonsura, e le vesti chericali, e non si meschino in mercatanzie e negoziazioni; ed ancora se non abbiano assunto la tonsure, ed abito del Chericato dopo commesso il delitto per evitar la pena. La qual Ordinanza fu rinnovata poi dalla Regina Giovanna I nell'anno 1347; e confermata dal Re Ferdinando I d'Aragona per sua Prammatica stabilita nell'anno 1469.

Parimente nel nostro Regno a' Frati terziarj di S. Francesco che sono mantellati e cordonati, ed abitano in luoghi claustrali; siccome alle Bizoche, che vivono con voto verginale o celibe viduale, pure loro si diede l'esenzione dal Foro secolare. E nel Regno degli Angioini la cosa si ridusse a tal estremità, che fino le Concubine de' Cherici godevano esenzione; e quel che fa più maraviglia, ne furon persuasi gli stessi nostri Principi, leggendosi, che i Cherici della città e diocesi di Marsico si querelavan col Re Roberto, perchè il Giustiziero della provincia di Principato citra procedeva contro le loro concubine; imperocchè avendo il Re Carlo II padre di Roberto per suoi Capitolari ordinato, che le concubine scomunicate, le quali passato l'anno persistevano pure nella scomunica, fossero multate in certa quantità di denari, il Giustiziero, anche dalle concubine de' Cherici voleva esiger la multa; onde il Re Roberto nell'anno 1317 ordinò al medesimo, che non procedesse contro di loro in virtù del detto Capitolo di suo padre, nè tampoco le molestasse nelle persone, nè nelli beni, ma che lasciasse il castigo di quelle alli Prelati delle Chiese.

S'introdussero ancora nel Regno i Diaconi selvaggi che pure pretendevano esenzione; e bisognò per correggere in parte quest'altro abuso, che il suddetto Re Ferdinando I, nel 1479, pubblicasse prammatica colla quale fu stabilito, che qualora non sono ascritti al servizio d'alcuna Chiesa, ma si mescolano ne' negozi secolari, e di Diaconi e di Cherici non abbiano che il puro nome, s'abbiano da riputare come veri laici, in modo che siano soggetti al Foro secolare, ed avanti giudici secolari, così nelle cause civili, come criminali, debbano essere convenuti, e debbano soffrire tutti i pagamenti fiscali, gabelle, collette, e tutti gli altri pesi, che sostengono i laici. Fu da poi praticato, che non godessero il privilegio del can. si quis suadente, nè il privilegio del Foro nelle cause civili, ma solo nelle criminali, e nelle civili in quanto al costringimento del corpo, rendendogli immuni da' pesi personali, non però di gabelle, collette, ed altri pagamenti fiscali e pesi reali. Intorno a che dal nostro Collaterale per varie consulte, e dal Tribunale della regia Camera per molti suoi Arresti fu meglio regolato tutto quest'affare, e rimediato in parte agli abusi; di che è da vedersi il Chioccarelli.

Ancora fra noi fu uno de' punti controvertiti se i laici famigliari de' Vescovi dovessero convenirsi così nelle cause civili, come criminali avanti il Vescovo, o pure avanti Giudici secolari; pretendendo gli Ecclesiastici tirargli al loro Foro episcopale.

Parimente stendevano la esenzione conceduta alle loro persone, anche sopra i mobili de' Cherici, in conseguenza di quella massima mal intesa, mobilia sequuntur personam, di maniera che tutti li mobili delle genti di Chiesa casate o non casate, non potevano essere eseguiti, nè ad altri aggiudicati dal Giudice laico.

II. Essi sostennero, che ogni causa dove occorresse mala fede, e per conseguenza peccato, fosse della loro giurisdizione, come quella nella quale occorre di doversi trattare del soggetto dell'anima, di cui essi sono i Moderatori; e così essi intendevano il passo del Vangelo, si peccaverit frater tuus, dic Ecclesiae, particolarmente quando le Parti se ne querelavano; la qual querela perciò essi chiamavano denuncia Evangelica, siccome è ampiamente trattato nelle Decretali , dove il Papa vuol prendere a giudicare delle differenze tra i Re di Francia e d'Inghilterra toccante la devoluzione pretesa dal Re di Francia de' Feudi e Signorie, che il Re d'Inghilterra teneva di quella Corona, a cagion della costui fellonia; per la qual cosa essi si pretendevano Giudici competenti quasi in ogni azione eziandio personale, anche tra laici, dicendo, che rare volte ella era esente dalla mala fede, e per conseguenza dal peccato, o dell'una, o dell'altra parte: e quando si trattava dell'esecuzione de' contratti, essi non facevano difficoltà di tirar alla loro conoscenza la lite, a cagion del giuramento, che per lo stile comune de' Notai vi è inserito, confondendo malamente la censura de' costumi colla giurisdizione, e la correzion penitenziale colla giustizia contenziosa, senza aver riguardo al fatto di Natan con Davide rapportato anche da Graziano nel suo Decreto .

III. Per somigliante ragione essi sostenevano, che la conoscenza de' testamenti loro appartenesse, come materia di coscienza, dicendo, ch'erano li naturali esecutori di quelli; anzi ch'essendo il corpo del defunto testatore lasciato alla Chiesa per la sepoltura, la Chiesa ancora erasi fatta padrona de' suoi mobili per quietare la coscienza, ed eseguire il suo testamento. E Carlo Loyseau ci testifica, che in Inghilterra erasi introdotto perciò costume, che quando taluno moriva senza testamento, il Vescovo o persona da lui destinata s'impadroniva de' mobili di quello. E che in Francia anticamente gli Ecclesiastici non volevano seppellire i morti, se non si metteva tra le loro mani il testamento, o in mancanza del testamento, non s'otteneva licenza speziale del Vescovo; tanto che nell'anno 1407 bisognò che il Parlamento rimediasse a tanto abuso, con far decreto contro il Vescovo di Amiens, e li Curati d'Abbeville, che coloro, che morivano intestati, fossero senza contraddizione, e senza comandamento particolare del Vescovo seppelliti. Ed erasi parimente in Francia introdotto costume, che gli afflitti eredi per salvare l'onore del defunto, morto senza testare, dimandavano permissione al Vescovo di poter per lui testare ad pias causas; e vi erano degli Ecclesiastici, li quali costringevano gli eredi dell'intestato di convenire a prender Arbitri, per determinare la somma, che il defunto avesse dovuto legare alla Chiesa.

Da queste intraprese degli Ecclesiastici nacque nel nostro Regno la pretensione di alcuni Vescovi, d'arrogarsi la facoltà di far essi i testamenti ad pias causas per li laici, che muojono ab intestato, siccome per antica usanza lo pretesero i Vescovi di Nocera de' Pagani, d'Alife, d'Oppido, di S. Marco ed altri Prelati nelle loro diocesi, i quali sovente applicavano i beni del defunto a se stessi. Ed in alcune parti del Regno i Prelati pretesero indistintamente d'applicarsi a lor beneficio la quarta parte de mobili del defunto morto senza testare. E si penò molto presso di noi per estirpar questi abusi, e non se negli ultimi tempi, alle reiterate consulte della regia Camera, e voti del Collaterale, vi si diede rimedio, con ispedirsi più lettere ortatoriali a' Vescovi, affinchè non presumessero d'arrogarsi tal potestà, e sovente contro gl'inobbedienti si è proceduto al sequestro delle loro entrate, ed a carcerazioni de' congiunti; non perdonandosi nemmeno al Vescovo di Nocera, con tutto che per se allegasse l'immemoriale, come un abuso condannabile, e più tosto corrutela, che lodevole usanza.

Da ciò è nato ancora, che siavi presso di noi rimaso costume, siccome anche dura in Francia che li Curati, o i Vicari siano capaci come i Notai di ricevere li testamenti, e quando dispongano ad pias causas, ancorchè fatti senza solennità, dar loro vigore ed osservanza.

IV. Per cagion della connessità, se tra più compratori, coeredi, o condebitori, uno ne fosse Cherico, essi dicevano, che il privilegiato, come più degno, deve tirare avanti il suo Giudice tutte le altre parti. Parimente li Canonisti dicevano, che il laico poteva prorogare la giurisdizione ecclesiastica, e non il Cherico la secolare: e dicevano ancora, che apparteneva al Giudice ecclesiastico supplire il difetto, o negligenza del Giudice laico, e non al contrario; e quando se gli dimandava la ragione, essi dicevano, che ciò era, perchè anticamente gli Ecclesiastici erano giudici de' laici così ben che de' Cherici, e che non v'era perciò inconveniente, che le cose tornassero nella loro prima natura, come dice il Cardinal Ostiense. E pure da' precedenti libri di quest'Istoria si è chiaramente veduto, che la giustizia ecclesiastica in ciò che ella è contenziosa, è stata conceduta dalli Principi, e dismembrata dalla giustizia temporale ed ordinaria, e fu chiamata perciò privilegio Chericale; e li Canonisti la chiamano pure privilegium Fori, per denotare ch'è contro il diritto comune.

V. Essi sostenevano, che tutte le cause difficili, spezialmente in punto di ragione, loro appartenessero, e principalmente quando vi era diversità d'opinioni tra' Giureconsulti o Giudici: allegavano perciò quel passo del Deuteronomio : Si difficile, et ambiguum apud te judicium esse prospexeris, et judicium intra Portas videris variari, venies ad Sacerdotes Levitici generis, et ad Judicem, qui fuerit illo tempore, qui judicabunt tibi veritatem, et facies quaecumque dixerint qui praesunt in loco, quem elegerit Dominus. Quando è a tutti palese la gran differenza tra le leggi romane, e la politia del vecchio e nuovo Testamento. E da questo principio avvenne, che si veggano in più luoghi delle Decretali cause difficili decise da' Pontefici, che non erano in conto alcuno della giustizia ecclesiastica, come fra l'altre la famosa decretale Raynutius .

VI. Dicevano, che apparteneva ad essi il supplire al difetto, negligenza, o suspizione del Giudice laico; e sotto questo pretesto, se un gran processo durava lungo tempo nel Tribunale secolare, lo tiravano a loro. Quindi s'arrogavano la facoltà di conoscere delle suspizioni de' Giudici laici, e quest'abuso non pure in Francia, come testifica Loyseau ma anche ne' Regni di Spagna erasi introdotto, e presso di noi nel Regno degli Angioini avea preso anche piede; e fu tanta la soggezione a' Pontefici romani, ovvero la stupidezza de' nostri Principi Angioini, che non senza gran maraviglia, tra i Riti della nostra Gran Corte della Vicaria, si legge una prammatica della Regina Giovanna II colla quale ordina, che (toltane la città di Napoli, dove vuole che le suspizioni si conoscano dal G. Protonotario) in tutte le altre città e luoghi del Regno, le suspizioni s'abbiano ad allegare avanti il Vescovo diocesano, e suo Vicario. E con tutto che nel regno degli Aragonesi non si fosse fatta osservare, nulladimanco non mancavano i Vescovi, quando lor veniva fatto, di prenderne la conoscenza.

Ma succeduti gli Spagnuoli, usarono costoro rimedj più forti per togliere quest'abuso, perchè avendo nel 1551 l'Arcivescovo d'Acerenza tentato d'intromettersi a conoscere della suspizione allegata innanzi a lui dal Capitano di Pietrapertosa contro i suoi Sindicatori, D. Pietro di Toledo, ad istanza di quella Università, con voto del regio Collateral Consiglio, scrisse una grave lettera ortatoriale all'Arcivescovo, insinuandogli, che dovesse astenersi di conoscere di quella sospizione, spettando tal conoscenza alla giurisdizione del Re, non essendo stata la pretesa prammatica osservata, e che facendone il contrario avrebbe proceduto contro di lui, come di chi cerca usurparsi la giurisdizione regia: la qual lettera, narra Prospero Caravita, averla egli fatta imprimere fra le altre prammatiche di questo Regno, che oggi giorno si legge in quel volume. E nel governo di D. Parafan di Riviera, essendo stato questo Vicerè avvisato che i Vescovi e i loro Vicarj nelle province di Principato citra e di Basilicata, s'abusavano d'intromettersi a conoscere delle cause di sospizione degli Ufficiali, dirizzò nel 1566 un premuroso ordine al Governadore di quelle province, comandandogli, che in suo nome facesse emanar bando sotto gravi pene in tutte le città, terre e luoghi di quelle province, che nelle cause di sospizioni le parti litiganti non debbano più aver ricorso a' diocesani, ma che lo dovessero avere nella regia Audienza, dove loro sarà ministrato complimento di giustizia: il quale ordine fu pure fatto imprimere tra le nostre prammatiche affinchè tra noi si togliesse affatto quest'abuso.

VII. Sotto colore, che negli antichi Canoni trovavano, che il Vescovo era protettore delle persone miserabili, come delle vedove, pupilli, stranieri e poveri, volevano conoscere di tutte le loro cause; ancorchè vi sia gran differenza tra proteggere i miserabili, e proccurar per essi la giustizia, che d'esser Giudice delle loro cause.

VIII. Inventarono un altro genere di giudicio, chiamato di Foro misto, volendo, che contro il secolare possa procedere così il Vescovo, come il Magistrato, dando luogo alla prevenzione, come sono i delitti di bigamia, d'usura, di sagrilegio, d'adulterio, d'incesto, di concubinato, di bestemmia, di sortilegio e di spergiuro, siccome ancora le cause di decime e di legati pii. Nel che essi v'aveano questo vantaggio, perchè colla esquisita lor sollecitudine, sempre prevenendo, non lasciavano mai luogo al Magistrato secolare, e se l'appropriavan tutti, come reputati anche da essi, delitti ecclesiastici. E nel nostro Reame non si finiron d'estirpare affatto questi abusi, se non nel Regno degli Spagnuoli, i quali non ammisero prevenzione alcuna, e la cognizione de' suddetti delitti contro i laici fu attribuita interamente a' Giudici regi; non dovendosi riputar in modo alcuno ecclesiastici perchè veramente li delitti ecclesiastici, o sono quelli che concernono la politia ecclesiastica, come dice Giustiniano nella Nov. 83 ovvero li minori delitti, di cui la Giustizia ordinaria ne trascura la ricerca, e di cui perciò la primitiva Chiesa ne intraprendeva la censura o correzione, per conservare una particolar purità di costumi tra' Cristiani; ma questa correzione ei faceva sommariamente, e senza giudizio contenzioso; come si è narrato nel primo e secondo libro di questa Istoria.

IX. Si appropriarono tutte le cause matrimoniali, dicendo, che essendo stato il contratto di matrimonio da Cristo S. N. elevato a Sacramento, la cognizione di tutte le cause a quello appartenenti deve essere de' Giudici ecclesiastici. Ma s'è veduto ne' precedenti secoli, che i Principi cattolici presero essi la cura dei matrimonj, essendo cosa chiarissima, che le leggi de' matrimonj, i divieti e le dispense de' gradi, tutte furono stabilite dagl'Imperadori; e fin tanto che le leggi romane ebbero vigore, i giudicj a quelli appartenenti erano innanzi a' Magistrati secolari agitati: il che la sola lettura de' Codici di Teodosio e di Giustiniano e delle Novelle lo dimostra evidentemente. E nelle formole di Cassiodoro, come altrove fu da noi rapportato, restano memorie de' termini usati da' Re ostrogoti nelle dispense de' gradi proibiti, che allora erano reputate appartenere al governo civile, e non cosa di religione; ed a chi ha cognizione dell'istoria, è cosa notissima, che gli Ecclesiastici sono entrati a giudicar cause di tal natura, parte per commessione e parte per negligenza de' Principi e de' Magistrati. Ma di ciò ora, per la determinazione del Concilio di Trento, non lece più dubitarne.

Finalmente i Dottori romani arrivarono insino ad insegnare, che i delinquenti ne' territorj d'altri Principi, non si debbano rimettere, ma mandarsi a dirittura in Roma per esser puniti, perchè il Papa essendo il Signore della città di Roma, ch'è la comune Patria di tutti, avendo l'Imperador Antonino per sua legge statuito, che tutti coloro, che nascono nell'Orbe romano, s'intendano fatti cittadini romani, meritamente come suoi sudditi può prendergli a giudicare e punirgli.

Nè finirono qui le loro intraprese, perchè vi sono altri innumerabili casi, ne' quali eran costretti i laici piatire avanti Giudici ecclesiastici, de' quali non comporta il mio istituto farne qui un più lungo catalogo. Essi furon nientedimeno compresi da Ostiense in sette versi, che chi gli considera, non può non rimaner sorpreso in veggendo a quale sterminata ampiezza avessero gli Ecclesiastici a questi tempi stesa la loro conoscenza; donde conoscerà ancora, che non vi è fine all'usurpazione, da poi che una volta li limiti della ragione sono superati ed oltrepassati.

Tutte queste intraprese della Giustizia ecclesiastica, non meno presso di noi, durante il Regno degli Angioini, che in Francia durarono lungamente, ma da poi i Franzesi valendosi di rimedi forti ed efficaci, ruppero le catene; e per l'Ordinanza del 1539 furono molto ben risecate, la quale rimise la loro giustizia al giusto punto della ragione, lasciando solamente alla Chiesa la conoscenza de' Sacramenti tra tutte le persone, e delle sole cause personali degli Ecclesiastici; che fu in effetto ritornare all'antica distinzione delle due potenze, lasciandosi le persone e le cose spirituali alla Giustizia ecclesiastica, e le temporali alla temporale. Nel nostro Reame gli Spagnuoli cominciarono a risecar gli abusi, ma non ridussero la loro Giustizia al giusto punto, come si fece in Francia; perchè gli Spagnuoli, come saviamente fu osservato da Pietro di Marca Arcivescovo di Parigi, e da noi si farà vedere, quando ci toccherà ragionare del lor governo, vollero medicar la ferita giurisdizione regia con impiastri ed unguenti, non già col fuoco e col ferro, come si era fatto in Francia.

IV. Tribunale dell'Inquisizione.

Per meglio stabilir la Monarchia, fu in questo secolo introdotto in Roma il Tribunale dell'Inquisizione. Innocenzio III, come si è veduto nel decimoquinto libro di quest'Istoria, non avea agl'Inquisitori eretto Tribunale alcuno; ed il nostro Imperador Federico II nè meno presso di noi l'eresse, ma a' Magistrati ordinari commise la condannazione degli Eretici, i quali insieme co' Prelati delle Chiese da lui destinati, ai quali s'apparteneva la conoscenza del diritto, dovevano invigilare per estirpargli. Ma morto l'Imperador Federico, essendo le cose di Germania in confusione, e l'Italia in un Interregno, che durò 23 anni, Innocenzo IV rimanendo quasi arbitro in Lombardia, ed in alcune altre parti d'Italia, e vedendo il gran progresso, che gli Eretici aveano fatto nelle turbazioni passate, applicò l'animo all'estirpazione di quelli; e considerate l'opere, che per l'addietro aveano fatte in questo servigio i Frati di S. Francesco, ebbe per unico rimedio il valersi di loro, adoperandogli, non come prima, solo a predicare, o congregare i Crocesignati, ma con dare ad essi autorità stabile, ed erger loro un fermo Tribunale, il quale d'altra cosa non avesse cura.

Ma a ciò due cose s'opponevano: l'una, come si potesse senza confusione smembrar le cause d'eresia dal Foro episcopale, che le avea sempre giudicate, e costituir un Ufficio proprio per esse sole: l'altra come si potesse escludere il Magistrato secolare, al giudicio del quale era commesso il punir gli Eretici, per l'antiche leggi imperiali, e per l'ultime dell'Imperador Federico II ed ancora per li propri statuti, che ciascuna città era stata costretta ordinare, per non lasciar precipitare il governo in que' gran tumulti. Al primo inconveniente trovò il Pontefice temperamento, con erger un Tribunale composto dell'Inquisitore e del Vescovo, nel quale però l'Inquisitore fosse non solo il principale, ma il tutto, ed il Vescovo vi avesse poco più, che il nome. Per dar anche qualche apparenza d'autorità al Magistrato secolare, gli concesse d'assegnar li Ministri all'Inquisizione, ma ad elezione degl'Inquisitori medesimi: di mandare coll'Inquisitore, quando andasse per lo Contado, uno de' suoi Assessori, ma ad elezione dell'Inquisitore stesso: di applicare un terzo delle confiscazioni al Comune; ed altre cose tali, che in apparenza facevano il Magistrato compagno dell'Inquisitore, ma in sostanza servo. Rimaneva di proveder il danaro per le spese, che si sarebbero fatte nel custodire le prigioni, ed alimentar gl'imprigionati; laonde si ordinò, che le Comunità le pagassero, e così fu risoluto, essendo il Papa in Brescia l'anno 1251.

Furono per tanto deputati li Frati di S. Domenico Inquisitori in Lombardia, Romagna e Marca Trivisana, li quali adempiendo al lor ufficio con molto rigore, cagionarono in Lombardia qualche tumulto: perciocchè avendo nel seguente anno Innocenzio deputato Inquisitore di Milano Fr. Pietro da Verona dell'Ordine de' Predicatori, costui per estirpar da quella città alcuni infettati d'eresia, che si facevano chiamar Credenti, non trascurava diligenza per punirgli, onde alcuni incarcerava (sono parole del Pansa) ad altri dava bando, e gli ostinati, in balia della Corte secolare faceva con l'ultimo supplicio del fuoco punire; ed avea già fatto molte esecuzioni, ed ordinato di farne dell'altre dopo Pasqua di Resurrezione; di che intimoriti alcuni principali Milanesi, dubitando della lor vita per li processi, che avean presentito aver loro fatti fabbricare l'Inquisitore, si congiurarono insieme, e risolvettero di prevenir l'Inquisitore con farlo morire; onde accordati gli assassini, questi postisi in agguato in una solitudine fra Milano e Como, dove all'Inquisitore occorreva passare, quando lo videro, gli corsero subito colle spade nude addosso, e l'uccisero. Di che fattosene in Milano gran rumore, e preso de' delinquenti severo castigo, Innocenzio, per questo martirio sofferto, volle canonizzarlo per Santo, siccome la prima domenica di quaresima del seguente anno 1253 con molta solennità fu celebrata la canonizzazione, ed ascritto nel Catalogo de' Santi Pietro Martire da Verona. Si segnalarono anche in cotal guisa molti altri Frati di quest'Ordine, e di quello ancora de' Frati Minori, i quali mandati dal Papa nelle parti di Tolosa, molti ne furono per simili esecuzioni ammazzati. Ma non perciò riputò Innocenzio di rallentar il rigore, anzi sette mesi da poi che in Brescia avea date le leggi per questo Tribunale, dirizzò una Bolla a tutti i Rettori, Consigli e Comunità di quelle tre province, prescrivendo loro XXXI Capitoli, che dovessero osservare per lo prospero successo del nuovo Tribunale, comandando, che li Capitoli fossero registrati fra gli Statuti del Comune, ed osservati inviolabilmente. Diede poi autorità agl'Inquisitori di scomunicargli, ed interdirgli, se non gli osservassero. Non si distese il Pontefice per allora ad introdurre l'Inquisizione negli altri luoghi d'Italia, nè fuori di quella, dicendo, che le tre province soprannomate erano più sotto gli occhi suoi e più amate da lui. Ma la principal cagione era, perchè in queste egli avea grande autorità, essendo senza Principi, e facendo ogni città governo da se sola, nel quale il Pontefice avea anche la parte sua, poichè aveva loro aderito nell'ultime guerre. Ma contuttociò non fu facilmente ricevuto l'editto; onde Alessandro IV suo successore, sette anni da poi, nel 1259, fu costretto a moderarlo e rinovarlo. Comandò tuttavia agl'Inquisitori, che con le censure costringessero li Reggenti della città all'osservanza.

Per la stessa cagione Clemente IV, sei anni da poi, cioè nel 1265 lo rinovò nel medesimo modo, nè però fu eseguito per tutto, finchè quattro altri Pontefici suoi successori non fossero costretti ad usar ogni loro sforzo per superar le difficoltà, che s'attraversavano nel far ricevere il Tribunale in qualche luogo. Nascevano le difficoltà da due capi: l'uno per la poco discreta severità de' Frati Inquisitori, e per l'estorsioni ed altri gravami: l'altro, perchè le Comunità ricusavano di somministrar le spese; per la qual cosa risolsero di deporre la pretensione, che le spese fossero fatte dal Pubblico; e per dar temperamento al rigore eccessivo degli Inquisitori, diedero qualche parte di più al Vescovo, il che fu cagione, che con minor difficoltà s'introducesse l'Inquisizione in quelle tre province di Lombardia, Marca Trivisana e Romagna e poi in Toscana ancora, e passasse in Aragona ed in qualche città d'Alemagna e di Francia. Ma da Francia e da Alemagna presto fu levata, essendo alcuni degl'Inquisitori stati scacciati da que' luoghi per li molti rigori ed estorsioni, e per mancamento ancora de' negozi. Per la qual cagione si ridussero anche a poco numero in Aragona; poichè negli altri Regni di Spagna non erano penetrati.

Nel nostro Reame di Puglia, mentre durò il Regno de' Svevi, non fu variato il modo stabilito dall'Imperador Federico di procedere contro gli Eretici. Nè, morto Federico, per la nimistà e continue guerre tra Corrado e Manfredi suoi successori con Innocenzio e con gli altri seguenti Pontefici, fu introdotta novità alcuna. Nelle Corti Generali da Federico istituite se ne prendeva cura, dove i Prelati doveano denunciargli, affinchè il Magistrato vi procedesse, di cui era il conoscer del fatto e la condanna, siccome de' Prelati la conoscenza del diritto. Erano non da Roma, ma da' nostri Principi destinati i Prelati per quest'Ufficio, i quali insieme co' Giudici regj, quando bisognava, scorrevano le province, e gl'imputati d'eresia, se convinti persistevano ostinatamente nell'errore, erano fatti morire; se davano speranza di ravvedimento, erano mandati nel Monastero di Monte Cassino, o a quello della Cava, dove si tenevano prigionieri, insino che dopo aver abjurato, non soddisfacessero la pena a loro imposta, siccome si è narrato ne' precedenti libri di questa Istoria.

Ma caduto il Regno in mano degli Angioini ligi de' romani Pontefici, ancorchè non si fosse introdotto presso di noi Tribunal fermo d'Inquisizione dipendente da quello di Roma; nulladimanco di volta in volta i Pontefici solevano destinar particolari Commessari Inquisitori per lo più Frati Domenicani, i quali scorrendo per le nostre province, col favore e braccio del Magistrato secolare, facevano delle esecuzioni. E quantunque queste commessioni non potessero eseguirle senza il placito regio; nulladimanco i nostri Principi Angioini per la soggezione, che portavano a' romani Pontefici, non solo non gl'impedivano, ma loro facevan dare da' Giudici regj ogni ajuto e favore; anzi sovente comandavano, che dal regio Erario loro fossero somministrate anche le spese. Così Carlo I d'Angiò nell'anno 1269 ordinò a' suoi Ministri, che pagassero a Fr. Giacomo di Civita di Chieti Domenicano Inquisitore dell'eretica pravità nella provincia di Terra di Bari e di Capitanata costituito dalla S. romana Chiesa, un augustale d'oro il dì per sue spese e di un suo compagno, d'un Notajo e tre altre persone e loro cavalli; e nel medesimo anno ordinò al Governadore della provincia di Terra di Lavoro, che a richiesta di Fr. Trojano Inquisitore costituito dalla Sede Appostolica gli prestasse ogni ajuto, consiglio e favore, quando, e dove vorrà, e che eseguisse subito le sue sentenze, che darà contro gli Eretici, loro beni e fautori. Parimente scrisse a' regj Secreti di Puglia, che somministrassero 30 oncie d'oro a Fr. Simone di Benevento dell'Ordine de' Frati Predicatori Inquisitore dell'eretica pravità, costituito dalla Chiesa romana nel Giustizierato di Basilicata e di Terra d'Otranto. Il medesimo Re nel 1271 ordinò a' suoi Ministri, che pagassero a Fr. Matteo di Castellamare Inquisitore nelle province di Calabria, un augustale il dì per le sue spese e d'un altro Frate suo compagno, un Notajo e tre altre persone: e nell'anno 1278 mandò più lettere a' Giustizieri d'Abruzzo e Capitani dell'Aquila ed a tutti i suoi Ufficiali, che a F. Bartolommeo dell'Aquila dell'Ordine de' Predicatori Inquisitor deputato dalla Sede Appostolica nel Regno di Sicilia, somministrassero ogni ajuto e favore, con tormentare i rei, secondo loro dirà detto Inquisitore ed eseguire quanto da colui verrebbe imposto.

Carlo II suo figliuolo nell'anno 1305 ordinò a tutti i Baroni e suoi Ufficiali, che dassero ogni ajuto a Frate Angelo di Trani Inquisitore destinato dalla Sede Appostolica, guardando e riducendo nelle carceri le persone macchiate d'eresie, secondo vorrà detto Inquisitore: che non molestino i suoi uomini per portar armi: eseguano le sentenze ch'egli darà contro le persone degli Eretici e loro beni; e che agl'Inquisitori di tali delitti, e per gli Ufficiali regj d'ordine del detto Inquisitore carcerati, si tormentino a richiesta di detto Frate Angelo, acciò possa cavare la verità da essi e dagli altri: e nell'anno 1307 incaricò a Frate Roberto di S. Valentino Inquisitore del Regno di Sicilia, che con tutto rigore procedesse contro l'Arciprete di Buclanico, che corretto prima dal suo predecessore Benedetto, era ricaduto ne' primi errori, sostenendo falsa dottrina sopra alcuni articoli della fede Cattolica.

L'istesso Re negli anni 1295 e 1307 scrisse a Filippo suo figliuolo Principe d'Acaja e di Taranto, che Papa Clemente V avea scritto un Breve a Roberto Duca di Calabria suo figliuolo e Vicario generale del Regno avvisandogli, che il Re di Francia avea usata grandissima diligenza in carcerare per le loro eresie in un tempo stesso tutti li Cavalieri Templari che erano in Francia, e sequestrati i loro beni; e per ciò lo richiedeva, che con consiglio secreto de' suoi Savii; facesse carcerare cautamente, e secretamente in un tempo tutti i Cavalieri Templari, ch'erano ne' dominii, e quelli carcerati, tenergli in buona custodia ad ogni ordine della Camera appostolica, siccome facesse sequestrare tutti i loro beni, e li tenesse in nome della medesima: onde Re Carlo ordina al detto suo figliuolo, che esegua detto Breve nel Principato d'Acaja, siccome il Duca di Calabria avrebbe fatto nel Regno.

Il Re Roberto suo successore nell'anno 1334 parimente ordinò a' suoi Ufficiali, che dessero ogni aiuto agli Inquisitori destinati da Roma; ed il medesimo stile fu tenuto dalla Regina Giovanna I nel 1343, dal Re Lodovico nel 1352 e dal Re Carlo III nel 1381, il quale donò a Tommaso Marincola suo famigliare i beni confiscati del Vescovo di Trivento eretico, come aderente all'Antipapa, e dichiarato ribelle di Santa Chiesa e del detto Re.

Non a' soli Frati Predicatori era commesso quest'ufficio, vi ebbero anche parte i Frati Minori, i quali dichiarati dal Papa Inquisitori scorrevano pure le nostre province. Era in questo secolo il numero degli Eretici cresciuto in immenso di varie Sette e di vari istituti. Alcuni, lasciate le loro religioni, affettando di vivere da Solitari senza Regola e senza Superiori, e di menar una più austera vita, si ritiravano nelle solitudini, e scorrevano in varie parti, contaminando dei loro errori molta gente. Si facevano chiamare Fraticelli, Bizocchi, Begardi, ovvero Beghini; e presso di noi erano moltiplicati assai ne' Monti d'Abruzzo e nella vicina Marca d'Ancona. Erano usciti dall'Ordine dei Frati minori, ed avevano quasi tutti gli stessi principii e la stessa condotta; ed i loro Gonfalonieri furono due Frati minori, Pietro di Macerata e Pietro di Forosempronio, i quali prima ottennero da Papa Celestino V amatore della ritiratezza, la permissione di vivere da Romiti e di seguire litteralmente la Regola di S. Francesco; ma da poi Onorio IV, Niccolò IV e Bonifacio VIII condennarono il loro istituto; e i loro successori Clemente V e Giovanni XXII gli suppressero affatto. Era commessa per lo più la cura d'estirpargli a' Frati Minori; onde si legge, che Bonifacio VIII commise a Fr. Marco di Chieti dell'Ordine de' Minori Inquisitore nella provincia di S. Francesco, che si portasse ne' Monti d'Abruzzo e nella Marca d'Ancona, ed implorando, se sarà di bisogno, il braccio secolare, proceda contro di loro e loro fautori, con incarcerargli, scovrirgli, e manifestargli dai nascondigli, ove solevan appiattarsi, mandargli in Roma prigioni e con molto rigore farne inquisizione. Eglino si ritirarono perciò in Sicilia, cominciando a declamare contro i Prelati e contro la Chiesa romana trattandola da Babilonia.

In cotal modo fu, durante il Regno degli Angioini, praticata l'Inquisizione presso di noi; ma quanto poi questo Reame si fosse distinto sopra ogni altro, per aver tolto da se ogni vestigio d'Inquisizione, sarà narrato al suo luogo ne' seguenti libri di quest'Istoria.

V. Monaci e beni temporali.

Fa di mestieri da ora innanzi congiungere i Monaci co' beni temporali, perchè siccome altrove fu notato, che chi dice Religione, dice Ricchezze; così ora essendosi per gli acquisti de' beni temporali renduti più esperti i Monaci, che tutti gli altri Ecclesiastici, tantochè non vi è proporzione fra gli acquisti, che in questi tempi si fecero dalle Chiese, e quelli fatti da' monasteri, bisogna ora dire, Nuove Religioni, nuove Ricchezze; e tanto più la cosa fu portentosa, che non ostante, che fossero fondate sopra la mendicità, onde furon chiamate Mendicanti, contuttociò gli acquisti e le ricchezze furon immense.

Le Religioni, che sursero in questo secolo, riuscirono come tante Legioni, per conservare, e mantenere la Monarchia romana; ed i Pontefici non furon mai dagli altri cotanto ben serviti, quanto da costoro, i quali militavano con ogni fervore per sostenere la loro autorità, e per agevolare le loro intraprese; onde con ragione di tanti privilegi e prerogative gli cumularono. Coloro, che sopra tutti in questo secolo si distinsero, furono i Frati Predicatori ed i Frati Minori. De' primi, come si è veduto, fu autore Domenico Gusmano, il quale avendo gran tempo predicato contro gli Albigesi, prese nell'anno 1215 la resoluzione con nove suoi compagni di fondar un Ordine di Frati Predicatori, con istituto d'impiegar le loro prediche per estirpar l'eresie a quel tempo moltiplicate in Italia ed in Francia. Portossi Domenico a Papa Innocenzio III per ottener la conferma del suo Ordine; ma il Papa differì l'accordarla; e lui morto, ciò che non fece Innocenzio, ottennero da Onorio III suo successore, il quale nell'anno 1216 lo confermò ed acconsentì, che quei Religiosi lasciassero l'abito di Canonici Regolari da essi sino a quel tempo portato, e prendessero un abito particolare, e osservassero nuove costituzioni. Si propagarono in Francia, ed in Parigi sin dall'anno 1217 ebbero un Monastero nella Casa di S. Jacopo, onde furono denominati Jacopini. Appena eran sorti, che vennero nel nostro Reame a fondarvi de' Conventi, ed ebbero gradito ricevimento; poichè avendo i Patareni ed altri Eretici, cominciato a contaminar Napoli e l'altre province. Gregorio IX gli spedì a Napoli, scrivendo nell'anno 1231 a Pietro di Sorrento Arcivescovo di questa Città, che benignamente gli ricevesse e che gl'impiegasse quivi a predicare, ed insinuasse a' Popoli a se commessi di ricevere dalle loro bocche il seme della parola di Dio, per essersi costoro cotanto segnalati in estirpar l'eresie, e con voto di volontaria povertà essersi in tutto applicati ad evangelizzare la sua parola. Incaricò anche, che gli provvedesse in Napoli di una comoda abitazione, affinchè quivi agiatamente permanendo, potessero attendere con maggior fervore alla carica loro imposta. Scrisse consimile epistola al popolo Napoletano, incaricandogli, che benignamente e devotamente gli ricevessero, affinchè potessero felicemente pervenire al lor fine, e raccogliere il frutto delle loro fatiche, cioè la salute delle anime; ed insinuò anche al Cardinal Castiglione suo Legato appostolico nel Regno di Sicilia, che incaricasse all'Arcivescovo il loro ricevimento; per la qual cosa ricevute costui le lettere del Papa, e l'insinuazioni del Legato, gli ricevè con onore e gli diede per abitazione la Chiesa di S. Arcangelo ad Morfisam con un gran Monastero ivi congiunto, ch'era allora abitato da' Monaci Benedettini, i quali tenendo in Napoli altri grandi Monasteri, cedettero quello a' Frati Predicatori, resignandolo in mano dell'Arcivescovo con tutte le case ed orti adiacenti. L'Arcivescovo insieme col Capitolo ne investì Fra Tommaso, sotto la cui guida erano que' Frati qui venuti, e ne gli spedì Bolla, che si legge presso Chioccarello sotto la data del primo di novembre 1231. Ampliarono poi que' Frati il lor Convento (che mutato l'antico nome lo chiamaron poi dal nome del loro Institutore S. Domenico) con altri orti contigui, per concessione avutane da Giovanni Francaccio, a cui l'istesso Arcivescovo nell'anno 1246 prestò l'assenso. Nell'anno 1269 in tempo dell'Arcivescovo Aiglerio per nuovi altri acquisti l'ingrandirono assai più, e vie maggiori ingrandimenti ricevè da poi nel Regno degli Angioini sotto Carlo II d'Angiò, cotanto appassionato di questa Religione, di che è da vedersi Engenio nella sua Napoli Sacra.

Non furono soddisfatti i Re di questa Casa d'aver in Napoli un solo Convento di Padri Predicatori, ma l'istesso Carlo II nell'anno 1274 ne costrusse un altro in onor di S. Pietro Martire da Verona, che come si disse nell'anno 1253 era stato da Innocenzio IV ascritto nel catalogo de' Santi. Lo dotò di ricchi poderi, di molte case e di altre rendite. L'esempio del Principe mosse altri Nobili napoletani ad arricchirlo, come fecero Errico Macedonio, Bernardo Caracciolo, Giacomo Capano, ed altri rammentati dall'Engenio.

Parimente nella città d'Aversa edificò una Chiesa, e Convento a' Frati di quest'Ordine sotto il titolo di S. Luigi, che fu suo zio, al quale concedè ampissimi privilegi, e dotò di molte rendite.

Anche alle Suore Domenicane, che vivevano nel medesimo istituto, fu data in questa città comoda abitazione. Ad istanza di Maria, moglie di Carlo II, Papa Bonifacio VIII ordinò all'Arcivescovo di Capua, che alle Monache Domenicane si dasse per loro abitazione il Monastero di S. Pietro a Castello situato dentro il castello dell'Uovo, con tutte le case e possessioni; e che i Monaci Benedettini, che tenevano quel luogo si fossero trasferiti ne' monasteri di S. Severino, di S. Maria a Cappella e di S. Sebastiano. Ma essendo stato da poi il monastero di S. Pietro saccheggiato da' Catalani, e con gran vergogna cacciate le Monache, il Pontefice Martino V scrisse all'Abate di S. Severino, che desse loro ricetto nel Monastero di S. Sebastiano, che allora era stato dato in Commenda al Vescovo di Melito, e non v'abitava che un sol Monaco Benedettino, con ceder loro tutte le sue possessioni ed entrate, siccome fu eseguito; ond'è che per detta unione ritenga questo monastero ancora oggi il nome di S. Pietro e S. Sebastiano .

Non meno in Napoli, che in tutto il Regno multiplicaronsi i Frati Predicatori in questo secolo per lo favore, che tenevano non meno de' Re angioini, che de' romani Pontefici. Innocenzio IV dirizzò nel 1245 un diploma agli Arcivescovi di Napoli, di Salerno e di Bari, col quale loro si dava facoltà, che in nome della Sede Appostolica, strettamente ordinassero a tutti gli Arcivescovi, Abati, Priori ed a tutti i Prelati delle Chiese de' Regni di Sicilia, che non inferissero a' Frati Predicatori gravame alcuno, e proibissero ai loro sudditi di dar loro molestia; e che proccurassero di fare ai medesimi mantenere tutte l'esenzioni ed immunità concedutegli dalla Sede Appostolica. Crebbero perciò col favore de' Pontefici e de' nostri Principi della casa d'Angiò in maggior numero di quello, che avean fatto nel Regno di Federico e degli altri Svevi suoi successori; e molto splendore recò loro Tommaso d'Aquino, soprannomato il Dottor Angelico, uscito dalla famiglia de' Conti d'Aquino, il quale mal grado di sua madre entrò nell'Ordine de' Frati Predicatori nell'anno 1243, ed avendo in Parigi presa la laurea dottorale di teologia l'anno 1257, ritornò in Italia l'anno 1263 e dopo avervi insegnata la Scolastica nella maggior parte delle Università, si fermò in fine in Napoli a legger teologia, ricusando l'Arcivescovado di questa città, offertogli da Clemente IV.

Non disugual successo ebbero in questo Regno i Frati Minori. Essi riconoscono per loro istitutore San Francesco d'Assisi, e sursero ne' medesimi tempi, che i Valdesi; ma ebbero disuguale fortuna. Pietro Valdo Mercatante ricco di Lione prese anch'egli risoluzione di menar una vita tutta appostolica; ed avendo distribuite tutte le sue facoltà a' poveri, fece professione d'una povertà volontaria. Molti seguirono il di lui esempio, onde verso l'anno 1160 si formò una setta d'uomini, che si denominavano i Poveri di Lione, a cagion della povertà da essi professata. Si dissero ancora Lionisti, dal nome della città di Lione; ed anche Insabbatati, a cagione di certa sorta di scarpe, ovvero sandali da essi portati, tagliati per far apparire i loro piedi ignudi ad imitazion degli Appostoli. Ma avean da poi preteso, senza missione del Vescovo e della Sede Appostolica, di poter eziandio predicare la lor riforma, ed insegnare la lor dottrina per se soli, ancorchè laici. Ebbero per ciò opposizione dal Clero di Lione; onde cominciarono per queste contese a biasimar la vita rilasciata degli Ecclesiastici, e declamare contro gli abusi, che vedevano introdotti nella Chiesa. Fu loro imposto silenzio; ma persistendo, Lucio III gli scomunicò, e gli condennò insieme con gli altri Eretici. Le scomuniche maggiormente l'irritarono e gli confermarono nella loro ostinazione, tanto che scossero il giogo dell'ubbidienza e caddero in molti errori. La loro setta si sparse in più luoghi onde obbligarono Pietro Re d'Aragona nell'anno 1197 di esiliargli dai suoi Stati, e Berengario Arcivescovo di Narbona di condennargli. Essi non potendo resistere a tanto impeto, risolvettero di ricorrere a Roma, e dimandare dalla Sede Appostolica la conferma del loro istituto.

Dall'altra parte Francesco pur egli mercatante d'Assisi, lasciato Pietro Bernardone suo padre a mercatantare, abbandonò ogni cura mondana, ed applicatosi ad una vita tutta appostolica fece anch'egli professione d'una povertà volontaria, e coll'esemplarità de' suoi innocenti costumi, avendo tirati molti compagni a vivere in mendicità, e ad impiegarsi ad opere di carità, accresceva il numero più con gli esempii d'una vita innocente ed austera, che colle prediche e sermoni: non molto impacciandosi perciò, nè declamando contro i corrotti costumi degli Ecclesiastici, nè entrandogli in pensiero senza missione d'andar predicando ed insegnando la sua riforma; ma fu tutto ubbidiente alla Sede Appostolica; onde avendo distesa nell'anno 1208 una nuova Regola per li suoi Frati, la volle presentare al Papa per riceverne l'approvazione e la conferma. Papa Innocenzio III siccome rigettò l'Istituto de' Valdesi, avendolo conosciuto pieno di superstizioni e d'errori, così nell'anno 1210 approvò la Regola di Francesco e l'Ordine de' Frati Minori, i quali ancorchè non lasciassero di andare a piedi ignudi, e di far voto d'una povertà, non aveano quelle tante superstizioni de' Valdesi. Si stabilirono perciò in più luoghi d'Italia, ed in Francia, sin da questo tempo ebbero ancora nell'anno 1216 ricetto in Parigi. Onorio III nell'anno 1223 confermò il loro Istituto, e di molte prerogative e privilegii decorò questo nascente Ordine.

Nel nostro Reame, ancorchè sotto Federico II e gli altri Re Svevi suoi successori (per essersene valsi i romani Pontefici, nelle contese che ebbero con que' Principi, per messi e portatori di lettere) avessero sovente patiti disagi, prigionie e morti; nulladimanco non lasciarono i nostri Regnicoli di ricevergli in questi medesimi tempi che sursero: e narrasi, che San Francesco istesso, loro Istitutore, avesse in molti luoghi del Regno fondati egli di sue proprie mani alcuni piccoli Conventi, come in Bari, in Montella, in Terra d'Agropoli ed altrove. Napoli ancora vanta d'aver avuto un Convento fondato dall'istesso Istitutore Francesco nel luogo ov'è ora il Castel Nuovo, che lasciò sotto la cura d'Agostino d'Assisi suo discepolo, il qual da poi da Carlo I d'Angiò fu trasferito in S. Maria la Nuova. In breve siccome non vi è quasi città, che non vanti aver avuto S. Pietro per fondatore della sua Chiesa, così non vi è luogo, dove si vegga qualche Convento antico di quest'Ordine, che non vanti esserne stato egli il fondatore. Che che ne sia, non può mettersi in dubbio, che nella città di Napoli, fin dal suo nascimento, ebbe quest'Ordine ricevimento; poichè Giovanni Vescovo d'Aversa, possedendo in Napoli la Chiesa di S. Lorenzo con alcune case e giardini, appartenenti alla Cattedral Chiesa d'Aversa, col consenso del suo Capitolo nell'anno 1234 la concedè a Fr. Niccolò di Terracina Frate Minore di S. Francesco provinciale della provincia di Napoli, in nome di sua Religione, con condizione di dovervi quivi dimorare i Frati del suo Ordine, la qual concessione fu da poi nell'anno 1230 confermata da Papa Gregorio IX.

Ma nel Regno degli Angioini fu quest'Ordine non meno dai romani Pontefici, che da' Principi di questa casa molto più favorito e careggiato. Carlo I allargò l'antica Chiesa di San Lorenzo col palagio ivi congiunto, dove solevansi unire la Nobiltà ed il Popolo e vi fabbricò una magnifica Chiesa, la quale fu ridotta a perfezione da Carlo II suo figliuolo, il quale nell'anno 1302 fra l'altre rendite, che le assegnò, le diede la terza parte della gabella del ferro. L'esempio del Principe trasse gli altri ad arricchirla: il nostro famoso Giureconsulto Bartolommeo di Capua G. Protonotario del Regno a sue spese fecevi fare tutta la facciata della porta maggiore, ed Aurelio Pignone del Seggio di Montagna la piccola porta. L'istesso Re Carlo I volendo in Napoli fabbricar Castel Nuovo nel luogo ov'era quel convento de' Frati Minori poco anzi rammentato, trasferì da quivi i Frati, e loro costrusse nell'anno 1268 una nuova Chiesa e Convento nella piazza chiamata Alvina dov'era l'antico palagio e Fortezza della città, la quale anticamente fu detta S. Maria de Palatio, e poi prese il nome di S. Maria la Nuova, il qual oggi ancor ritiene.

Il Re Roberto gli favorì non meno che il padre e l'avo, e non pur careggiò i Frati, che le Suore di quest'Ordine. Siccome le Suore Benedettine ebbero per Fondatrice Scolastica sorella di S. Benedetto, così le Suore Francescane ebbero per Institutrice Chiara d'Assisi discepola di S. Francesco. Costei ricevendo con ardore gl'insegnamenti del suo maestro, si rese Monaca e si chiuse in Assisi nel Monastero di San Damiano, dove stese una Regola del suo Ordine, perchè dovesse servire per le donne. Mentr'era gravemente inferma, convenendo al Pontefice Innocenzio IV d'uscir da Perugia, e portarsi in Assisi, fu visitata dal Papa, il quale le confermò la Regola del suo Ordine; e poco da poi trapassata, per la fama de' suoi incorrotti costumi, fu dal successor d'Innocenzio Alessandro IV ascritta al numero de' Beati. Furono perciò edificati in memoria di lei molti Monasteri di donne del suo Ordine in Italia; ma in Napoli il Re Roberto a' conforti della Regina Sancia sua moglie nel 1310 ne costrusse uno, che più magnifico ed ampio non si vide allora in tutta Italia, dove la Regina v'introdusse le Monache della Regola di S. Chiara, da cui prese il nome, che ancor oggi ritiene. Fu d'immense rendite e possessioni dotato, e vi edificò a canto un Convento de' Frati del medesimo Ordine, perchè le servissero ne' sacri uffizi. La Chiesa fu costrutta con tal magnificenza, che fu reputata non inferiore a tutti gli altri superbi e ricchi tempj d'Italia; e di vantaggio la dichiarò Roberto sua Cappella Regia . Presso di questa Chiesa lo stesso Re nel 1320 collocò in una casa alcune Monache dispensiere delle limosine regie; ma venuta in Napoli nell'anno 1325 dalla città d'Assisi una Monaca del Terzo Ordine di S. Francesco, infiammò di maniera le dispensiere, che di comun volere fabbricarono di quella casa una Chiesa con monastero, che si vide subito pieno di nobili donne napoletane tirate dallo spirito ad ivi rinserrarsi, e fra l'altre fuvvi Maddalena di Costanzo, la quale benchè avesse preso l'abito nel Monastero di S. Chiara, il Re Roberto aveala quivi mandata a presiedere alla distribuzione delle limosine regie. Dura ancora nella sua floridezza questo monastero, ed è nominato dal nome del lor Santo Francesco . Un altro monastero, fu eretto e dotato dalla Regina Sancia in Napoli nel 1324 per le donne di mondo convertite, le quali vissero sotto la Regola di S. Francesco, e presero di lor cura i Frati Minori; la lor Chiesa perciò prese il nome della Maddalena, che ancor oggi il ritiene, ma non già il medesimo istituto; perchè ora si ricevono donne nobili e vergini, e portano l'abito di S. Agostino, e militano sotto la Regola di quel Santo, se ben ritengano ancora la corda di S. Francesco.

Non meno in Napoli, che in tutte le province del Regno si videro multiplicati i monasteri de' Frati Minori e delle Suore Francescane; e col correr degli anni il di lor numero arrivò a tale, che non vi è città o castello ancorchè picciolo, che non abbia i suoi.

Surse in questo secolo un altro Ordine di Mendicanti, detto de' Romiti di S. Agostino. Innocenzio IV fu il primo che formò il disegno di unire diversi Ordini di Romiti in un solo; ma questo disegno fu poi eseguito dal suo successore Alessandro IV, il quale trattigli da' lor Romitaggi per istabilirgli nelle città, e per impiegargli nelle funzioni dell'ecclesiastica Gerarchia, ne fece una sola Congregazione sotto un sol Generale, e lor diede il nome de' Romiti di S. Agostino.

Non al pari de' due precedenti Ordini si multiplicarono presso di noi gli Agostiniani. Napoli in tempo degli Angioini ne noverava alcuni, come quello di S. Agostino, che secondo l'opinion più fondata, si crede aver avuti i suoi principii non prima di Carlo I d'Angiò ampliato poi, e con maggiori rendite arricchito da Carlo II suo figliuolo e dagli altri Principi di quella Casa: l'altro di S. Giovanni a Carbonara fu fondato da Frate Giovanni d'Alessandria e Dionigi del Borgo per munificenza di Gualtieri Galeota, il quale negli anni 1339 e 1343 donò a' medesimi per la costruzione di quella Chiesa e Monastero tutte le sue case e giardini, che e' possedeva in quel luogo; cotanto poi ingrandito e ristorato dal Re Ladislao. Ve ne furono altri, ma nelle province del Regno se ne stabilirono moltissimi.

Parimente l'Ordine de' Carmelitani non fece a questi tempi fra noi grandi progressi. Era stato istituito intorno l'anno 1121 da alcuni Romiti del Monte Carmelo, adunati dal Patriarca d'Antiochia per mettergli in comunità. Da poi ricevette nell'anno 1209 una Regola da Alberto Patriarca di Gerusalemme, che fu approvata in questo secolo da Onorio III. Cotesti Religiosi passarono in Occidente l'anno 1238 e si stabilirono in Congregazione e vi si diffusero; essendo stata poi la lor Regola spiegata e mitigata da Innocenzio IV l'anno 1245. Diffusi per Italia pervennero in Napoli; ove presso la porta del Mercato vi fabbricarono una piccola Chiesa con Convento. Venuta poscia la dolente Regina Margherita madre del Re Corradino a Napoli con molta quantità di gioje e di moneta per ricuperar dalle mani del Re Carlo il suo unico figliuolo, trovatolo morto e seppellito nella piccola Cappella della Croce, lo fece quindi torre; e fattogli celebrare convenienti esequie, diede per l'anima di colui a questa Chiesa tutto il tesoro, che avea seco portato. Re Carlo per mostrar di concorrere alla pietà della Regina, nell'anno 1260 loro concedè per ampliazion della Chiesa un luogo del suo demanio, che era quivi vicino, chiamato Morricino, e crebbe di poi in quella grandezza, che ora si vede. Altri ne furon da poi fondati in Napoli e nel Regno ma non tanti, finchè potessero uguagliare il numero de' Predicatori e de' Frati Minori.

Oltre di queste quattro Religioni di Mendicanti, sursero in questo secolo molte altre Congregazioni religiose, che tratto tratto furono anche introdotte nel nostro Regno. L'Ordine della Trinità della Redenzion degli Schiavi, fondato nell'anno 1198 da Giovanni di Mata di Provenza, Dottore di Parigi, e da Felice Anacoreta di Valois ed approvato due anni da poi da Innocenzio III. L'ordine de' Silvestrini, i quali seguitavano la Regola di S. Benedetto, fondato l'anno 1231 in Monte Fano da Silvestro Guzolino, che di Canonico si fece Romito, e trasse nella sua Comunità non poche persone. L'ordine di S. Maria della Mercede, fondato da S. Pietro Nolasco in Barcellona l'anno 1223 sotto l'autorità di Jacopo I Re d'Aragona, per consiglio di Raimondo di Pennaforte, ed approvato da Gregorio IX l'anno 1235. L'Ordine de' Serviti, il quale cominciò in Firenze l'anno 1234 approvato da Alessandro IV e da Benedetto XI. L'Ordine de' Cruciferi, ch'era quasi spento, fu restituito da Innocenzio IV tal che in Italia si rifecero alcuni Monasterj di nuovo; ed in Napoli da poi nel 1334 dalla famiglia Carmignana e Vespola fu conceduta a Fr. Marino di S. Severino in nome d'essi Cruciferi la Chiesa di S. Maria delle Vergini collo Spedale che ivi eravi, fuor della porta di S. Gennaro, perchè quivi dimorassero, e servissero gl'infermi di quello Spedale. Ebbe ancora in questo secolo origine l'Ordine de' Celestini, istituito nel nostro Regno da Pietro di Morrone d'Isernia, che menando una vita tutta austera e solitaria alle falde della Majella, diè fuori la sua Regola, e fu tanto caro al Re Carlo I d'Angiò, che prese sotto la sua protezione tutti i suoi Monasterj; e la sua santità rilusse tanto, che dall'Eremo ascese al Pontificato sotto il nome di Celestino V. Pose il suo Ordine sotto la Regola di S. Benedetto, e l'approvò fatto Papa con una sua Bolla l'anno 1294, che fu poi nel 1297 confermato da Bonifacio VIII e da Benedetto XI nell'anno 1304. Non pur in Abruzzo, ma anche in Napoli ebbero i Celestini ricetto nell'istesso tempo del loro nascimento. Fu loro data una Chiesa vicino la porta chiamata anticamente di Donn'Orso, edificata, e di ricchi poderi dotata da Giovanni Pipino da Barletta M. Razionale della G. Corte e Conte di Minervino, e da Carlo II tenuto in sommo pregio, per aver col suo valore discacciati i Saraceni di Lucera di Puglia; e di lui in questa Chiesa se ne addita ancora il sepolcro. Fu chiamata perciò di S. Pietro a Majella; la quale ruinata dal tempo, fu nell'anno 1508 rifatta ed ampliata da Colanello Imperato M. Portolano di Barletta.

Molti altri Ordini sursero in questo secolo, il numero de' quali era divenuto sì grande, che Gregorio X fu costretto nel Concilio general di Lione tenuto l'anno 1274 sospendere lo stabilirne de' nuovi, e vietare tutti quelli, ch'erano stati stabiliti dopo il quarto Concilio generale Lateranense, senz'essere stati approvati dalla Sede Appostolica. E d'un medesimo Ordine, ed in una stessa città se ne andavan costruendo tanti Conventi, che fu uopo a più Pontefici per varie loro Bolle stabilire una convenevol distanza di passi, perchè l'uno non togliesse il concorso all'altro, di cui eran tanto gelosi.

Ma di tanti Ordini i più distinti furono i Mendicanti, e fra questi i più favoriti da' romani Pontefici, furono i Frati Predicatori, ed i Frati Minori. Essi s'erano sopra gli altri segnalati per le spedizioni contro gli Eretici di questi tempi, ed aveano fatti altri importanti servigi alla Chiesa di Roma; perciò furono sopra gli altri innalzati ed arricchiti di molti privilegi e prerogative. Innocenzio III ed Onorio III concedè loro esenzione dagli Ordinarii, e vollero che fossero sottoposti immediatamente alla Sede Appostolica. Così essi come gli altri Religiosi Mendicanti, appoggiati sopra i privilegi lor conceduti da' Pontefici pretesero aver diritto di confessare e di dar l'assoluzione a' Fedeli senza dimandarne la permissione, non solo a' Curati, ma nè pure a Vescovi: di che nacquero tanti ostinati litigi col Clero secolare, che per comporgli s'affaticarono più Papi.

Ma se mai meritarono questi novelli Religiosi il favore de' Pontefici romani, per niun'altra cagione era loro certamente più ben dovuto, quanto che per essi fu stabilita la nuova teologia Scolastica, la quale avendo fatto andare in disuso la Dogmatica, e posto in dimenticanza lo studio dell'antichità e dell'istoria ecclesiastica, tenne occupati gl'ingegni a quistioni astratte ed inutili, e a dispute piene di tanta oscurità, di tanti contrasti e di tanti raggiri, che non vi furono se non coloro, ch'erano versati in quell'arte, che potessero comprenderne qualche cosa.

Questa sorta di studj, allontanandogli dall'antichità e dall'istoria, piacquero a Roma, e tanto più, quanto che la potestà de' Pontefici romani era innalzata in infinito, non prescrivendo loro nè termine, nè confine: e ciò anche bisognava farlo per proprio interesse; perchè avendo essi ottenute da Roma ampissime esenzioni e grandi privilegi, perchè loro valessero e potessero contro i Vescovi e Curati sostenergli, bisognava ingrandire la potestà del concedente. Quindi i Decretisti da una parte, e gli Scolastici dall'altra cospirarono insieme a stabilir meglio la Monarchia romana, e far riputare il Papa supremo Principe non meno dello spirituale, che del temporale.

Ma parrà cosa stupenda come queste Religioni fondate nella mendicità, onde presero il nome di Mendicanti, e che nacquero per lo rilasciamento della disciplina ed osservanza regolare, cagionato dalle tante ricchezze, avessero potuto in progresso di tempo far tanti acquisti, sicchè per quest'istesso bisognasse pensare ad altra Riforma, la quale nemmeno ha bastato. Ma a chi considererà la condizione degli uomini sempre appassionati alle novità ed a' modi tenuti da Roma, a cui ha importato sempre stendere i di loro acquisti, perchè finalmente a lei veniva a ricadere la maggior parte, non parrà cosa strana o maravigliosa. I Monaci vecchi avendo già perduto il credito di santità, ed il fervore della milizia sacra essendosi intepidito: li Frati Mendicanti, per quest'istesso che professavano povertà, essendosi accreditati, invogliavano maggiormente i Fedeli ad arricchirgli; imperocchè essi s'erano spogliati affatto della facoltà d'acquistar stabili, e fatto voto di vivere di sole oblazioni ed elemosine; ed ancorchè trovassero molte persone loro divote, ch'erano prontissime di dar loro stabili e poderi, contuttociò per lo loro istituto non potendo ricevergli, rifiutavano l'offerte. A ciò fu subito da Roma trovata una buona via: perchè fu conceduto dalla Sede Appostolica privilegio a' Frati Mendicanti di poter acquistare stabili, con tutto che per voto ed istituzione loro era proibito. Per cotal ritrovamento, subito i Monasteri de' Mendicanti d'Italia e di Spagna e d'altri Regni fecero in breve tempo grandi acquisti di stabili. In Francia solo i Franzesi s'opposero a tal novità, dicendo, che siccome erano entrati nel loro Regno con quell'istituto di povertà, così conveniva, che con quella perseverassero.

Ma nel nostro Regno, particolarmente a tempo degli Angioini ligi de' romani Pontefici, i loro acquisti furono notabili, massimamente ne' tempi dello scisma, quando tutto il rimanente dell'Ordine Chericale era in poco credito, ed all'incontro tutto il credito era dei Monaci. Assaggiate ch'essi ebbero le comodità ed agi, che lor recavan le ricchezze, non trovaron poi nè modo nè misura, siccome è difficile trovarlo quando si oltrepassano i confini del giusto per estraricchire. Per vie più accrescerle e tirar la divozione de' Popoli inventarono molte particolari divozioni. I Domenicani istituirono quella del Rosario. I Francescani l'altra del Cordone. Gli Agostiniani quella della Coreggia; e gli Carmelitani l'altra degli Abitini; e poi al di loro esempio non mancarono l'altre Religioni d'inventar anch'esse le proprie insegne, chi Scapularii, e chi altre particolari divozioni; e per lo profitto che se ne traeva, diedero in eccessi, ciascuno innalzando l'efficacia ed il valore della propria insegna, con depressione dell'altre. I Domenicani esageravano il valor del Rosario. I Francescani a' loro Cordonati quello del Cordone. Gli Agostiniani a' suoi Coreggiati il proprio della Coreggia; ed i Carmelitani il loro degli Abitini; e con questo trassero non men gli uomini, che le donne a rosariarsi, a cordonarsi, a coreggiarsi, e ad abitiniarsi, e ad ergere proprie Cappelle, Congregazioni, favorite sempre da' romani Pontefici con indulgenze plenarie, e remissione di tutti i peccati ed altre prerogative.

(Non dee alcun credere, che questi vocaboli di Coreggiati, Rosariati, Cordonati, ec. siansi posti per derisione; poichè così si nominano nelle Bolle stesse Papali, da' Canonisti e da' Curiali stessi di Roma. Il Cardinal de Luca, ch'essendo Avvocato in Roma, ebbe sovente a difender liti istituite in quella Curia o dagli uni o dagli altri in più suoi discorsi, non si vale di altri termini. Leggasi il Tamburino, ove rapporta più Bolle di sommi Pontefici, che così gli chiamano, con darne di più la derivazione, scrivendo, che le donne si chiamano Corrigiatae ec. quatenus Corrigiam S. Augustini cingunt. E lo stesso ripete nella disp. 7 qu. 10 n. 4. Il Cardin. de Luca fa un Catalogo di questi nomi, li quali non altronde derivano, che da simiglianti cagioni: Quae appellari solent (ei dice) Conversae, Tertiariae, Biguinae, Corrigariae, Mantellatae, Pinzoncheriae, Canonissae, Jesuitissae ec., ciochè sovente questo medesimo Scrittore rapporta in altri suoi discorsi, particolarmente de Jurisdictione, part. 1 disc. 45 n. 3 ed altrove).

E fu tanta sopra ciò la loro emulazione, che ciascuno guardava l'altro perchè non si valesse della sua insegna per tirar a se la gente, ovvero s'ingegnasse d'introdurne un'altra simile a quella: e sovente vennero a contrasti, e ad istituirne liti in Roma, insino se un Francescano tentava all'immagine di nostra Signora farvi dal dipintore aggiungerci un Rosario denotante nuova istituzione, sicchè per quella si scemasse il concorso a' Domenicani, e s'accrescesse agli emoli Francescani. Frat'Ambrogio Salvio da Bagnuolo dell'Ordine de' Predicatori famoso Oratore e poi Vescovo di Nardò, cotanto per le sue prediche grato all'Imperador Carlo V ed al Pontefice Pio V, ed a cui i Napoletani eressero una statua di marmo nella Chiesa dello Spirito Santo, che fu zio del Dottor Alessandro Salvio, celebre ancor egli per lettere e per lo famoso trattato, che compilò del Giuoco degli Scacchi; perchè il rosariare fosse solo de' Domenicani, e non potessero altri arrogarsi tal facoltà, ebbe nell'anno 1569 ricorso al Pontefice Pio V da cui ottenne Bolla, per la quale fu interdetto e vietato a tutti gli altri d'ergere Cappelle e Confraterie del Rosario; e che tal facoltà fosse solamente del Generale dell'Ordine di S. Domenico, o suoi Deputati, concedendola ancora per ispezial favore al medesimo Frat'Ambrogio.

Per l'occasione di queste particolari divozioni per maggiormente infiammar i devoti, s'inventavano molti finti miracoli, ed oltre di predicargli a voce, se ne compilavano libri, tantochè, siccome avvertì Bacon di Verulamio per questa parte resero l'istoria ecclesiastica così impura, che vi bisogna ora molta critica, e gran travaglio per separare i finti miracoli dalli veri. Cotali furono i principj di questi nuovi acquisti in questo decimoterzo secolo, i quali ricevettero molto maggiore augumento per tutto il tempo, che fra noi regnarono gli Angioini, gli avvenimenti de' quali bisognerà riportare ne' seguenti libri di quest'Istoria.

FINE DEL LIBRO DECIMONONO

STORIA CIVILE

DEL

REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMO

I Franzesi al tempo della declinazione dell'Imperio romano abitarono quel paese volto al Settentrione che tra la Baviera e la Sassonia, si distende lungo le rive del Reno, e che sino al presente Franconia dal nome di questa Nazione vien nominato. Indebolito l'Imperio, e cessato lo spavento della potenza romana, invitati dall'esempio degli altri Popoli vicini, deliberarono colla forza dell'armi procacciarsi più comodo vivere, e più larga e fertile abitazione; ed avendo eletto in loro Re Faramondo, uno de' figliuoli di Marcomiro, sotto la di lui condotta, passato il Reno, si volsero alla conquista delle Gallie intorno l'anno 419 lasciando il dominio della Franconia al vecchio Principe Marcomiro. Clodione figliuolo di Faramondo distese le conquiste, e cominciò a signoreggiar quella parte delle Gallie, che più propinqua alle rive del Reno, Belgica vien nomata. Successe a costui Meroveo, non si sa di certo, se fratello, o se figliuolo di lui, ma prossimo al sicuro e congiunto di sangue, il quale con valorosi progressi, dilatandosi nelle parti della Gallia Celtica propagò l'imperio de' suoi Franzesi sino alla città di Parigi, e giudicando aver acquistato tanto, che bastasse a mantenere i suoi Popoli, ed a formare un giusto, e moderato governo fermò il corso delle sue conquiste, e rivoltato l'animo a' pensieri di pace, abbracciò ambedue le Nazioni sotto al medesimo nome, e con leggi moderate e con pacifico governo, fondò e stabilì nel possesso delle Gallie il Regno de' Franzesi.

Continuò con ordinata successione la discendenza Reale in questa prima stirpe de' Merovingi, insino all'ultimo Re Chilperico. Pipino la trasferì poi nella famiglia de' Carolini; ma essendo questa seconda stirpe mancata, Ugo Capeto diede principio alla terza, detta perciò de' Capeti: di cui nacquero i Filippi ed i Luigi per cui la Francia fu gran tempo governata; ed essendosi continuata per molti secoli la successione in questa stirpe, pervenne a questi tempi alla possessione del Regno il Re Lodovico IX di questo nome, quegli il quale per l'innocenza della vita e per l'integrità de' costumi, meritò dopo la morte d'essere ascritto tra' Santi. Fratello di questo Re fu Carlo Conte di Provenza e d'Angiò, il quale per le cagioni nel precedente libro esposte, essendo stato invitato alla conquista del Regno, con prosperi avvenimenti ridusse l'impresa a compiuto fine, e stabilì in Puglia ed in Sicilia il Regno degli Angioini.

Nel narrare i successi ed i cambiamenti del governo civile accaduti nel Regno loro, serbarò, contro il costume degli altri Scrittori, maggior brevità di quel che sinora abbiam fatto. La dovizia istessa e copia grande delle loro memorie lasciateci, e 'l veder la maggior parte d'esse notate in molti volumi di nostri Autori, e d'essersene tessute più istorie, mi fa sperare, che rese ormai note e divulgate, di non mi si dovere imputare a difetto l'averle in parte taciute. De' fatti degli Angioini, e degli altri seguenti Re, molto da' nostri si trova scritto: de' predecessori nostri Principi molto poco, e tutto intrigato. Ciò nacque da più cagioni: principalmente per non avere i Principi normanni e gli svevi fermata la loro Sede regia in Napoli, o in altra città di queste nostre province, e d'esserci perciò mancati delle loro memorie pubblici Archivii. Le tante guerre poi, e revoluzioni accadute; gl'incendi, e' saccheggiamenti di quelle città, che avrebbero potuto conservargli, come di Capua, Benevento, Salerno e Melfi; e finalmente la barbarie e l'ignoranza de' Scrittori mal disposti a tesserne istoria, ne cancellarono quasi ogni memoria. Molto perciò dobbiamo a' monasterj della Regola di S. Benedetto, e sopra tutto a quello di Monte Cassino, in cui serbansi le memorie più vetuste anche de' Goti, essendo il più antico Archivio che abbiamo nel Regno; ed a' due altri della Trinità della Cava, e di Monte Vergine, dove sta raccolto quanto mai de' Normanni è a noi rimaso. Molto ancora dobbiamo a' loro Monaci; poichè qualche antica Cronaca, e qualche mal composta Istoria ad essi la dobbiamo. De' Re della illustre Casa di Svevia, per aver avuti costoro nemici i Pontefici romani, gli Scrittori italiani, che per lo più furono Guelfi, ne scrissero con molto strapazzo, con gran pregiudizio della verità; e se qualche straniero, o qualche Cronaca novellamente trovata, non vi rimediava, si sarebbe nella medesima ignoranza e pregiudicj.

Non così avvenne ne' tempi di questi Re della Casa d'Angiò; poichè avendo Carlo principiato adornar Napoli con magnifici tempj ed edifici, e dopo la separazione del Reame di Sicilia, avendola renduta regia sede, e capo e metropoli del Regno: quindi avvenne, che tennesi maggior conto de' regali diplomi, e delle altre lor memorie, e si diede miglior forma in Napoli a' regi Archivii. Carlo fu il primo, che ordinò in Napoli l'Archivio della Zecca, che prima era in potere de' Maestri Razionali, ed in miglior forma lo ridusse; ond'ebbe lunga durata, e ancor dura, ed è il più antico, che oggi abbiamo in questa città. Si conservano in quello 436 registri, cominciando dal Re Carlo I dall'anno 1267 che fu il secondo anno del suo Regno, insino alla Regina Giovanna II ove molte scritture, anche nella lor lingua franzese, sono dettate. Di Carlo I si trovano cinquantacinque registri, e più di Carlo II suo figliuolo, ch'ebbe più anni di Regno, insino al numero di 153. Di Roberto, 117. Di Carlo suo figliuolo, Vicario che fu del Regno, 62. Della Regina Giovanna I, 32. Di Carlo III della seconda razza d'Angiò non più che tre. Di Ladislao, diece, e della Regina Giovanna II sua sorella, quattro. Per questo oggi giorno vediamo, che le scritture, che si conservano in quello Archivio non hanno maggior antichità, se non di quella de' tempi di Carlo I d'Angiò. Solamente quasi per miracolo vi è rimaso un registro dell'Imperador Federico II d'un solo anno, cioè del 1239. Ed è da credersi, che a ciò vi cooperasse Carlo per estinguere affatto la memoria de' Re svevi, a' quali egli era succeduto, non già per ragion ereditaria, ma per ragion di guerra, e di papali inviti. Quindi avvenne, che i nostri Scrittori furono più copiosi ed abbondanti in registrar la memoria degli Angioini, che degli altri Re predecessori.

S'aggiunse ancora, che costoro regnarono in tempi, ne' quali la barbarie non era cotanta, e cominciavano pian piano in Italia, e presso di noi a risorgere le buone lettere, e ad aversi buon gusto dell'istoria. Aveva Fiorenza Giovanni, e Matteo Villani, che coetanei de' due Carli e di Roberto, non mancarono di mandar alla memoria de' posteri le loro gesta.

Successero poi uomini più illustri, come il Petrarca, e Giovan Boccaccio, i quali nelle loro opere de' Re angioini ci lasciaron non poche memorie, come da coloro ben careggiati, e tenuti in sommo pregio: e tra' nostri non mancarono ancora chi i fatti di questi Re notasse, come Matteo di Giovenazzo, che scrisse dalla morte di Federico II sin a' tempi di Carlo II ne' quali visse: l'Autore de' giornali chiamati del Duca di Montelione, ne' quali furono annotate dì per dì le cose fatte dal tempo della Regina Giovanna I fin alla morte di Re Alfonso I e Pietro degli Umili di Gaeta, che scrisse a pieno delle cose del Re Ladislao, il qual visse a quel tempo, e fu Ufficiale della Tesoreria di quel Re. Dalle memorie de' quali e da altri gravi Autori, confortato da quei due grandi uomini Giacomo Sannazaro e Francesco Poderico, compilò poi Angelo di Costanzo quella sua grave e giudiziosa Istoria del Regno di Napoli, che siccome oscurò tutto ciò, che insin allora erasi scritto, così ancora per la sua gravità, prudenza civile ed eleganza, si lasciò indietro tutte le altre che furono compilate dopo lui dalla turba d'infiniti altri Scrittori. Per questa cagione l'Istoria di questo insigne Scrittore sarà da noi più di qualunque altra seguitata, nè ci terremo a vergogna se alle volte colle sue medesime parole, come che assai gravi e proprie, saranno narrati i loro avvenimenti.

Carlo adunque, dopo essersi con que' mezzi di sopra narrati stabilito ne' due Reami di Puglia e di Sicilia, dopo aversi reso benevoli molti Baroni del suo partito con profuse donazioni, e dopo, per maggiore sua sicurezza fatti fermare nel Regno molti Signori franzesi, a cui diede molti feudi, onde nuove famiglie in esso ci vennero, erasi reso formidabile per tutta Italia e riputato uno de' maggiori Re d'Europa; e stendendo le sue forze oltre i confini di questi Reami, aveasi ancora reso tributario il Regno di Tunisi, e come uomo ambiziosissimo ed avido di Signoria, aspirava all'Imperio di Costantinopoli, e tutto il suo studio era di cacciar da quella Sede Paleologo, che allora imperava in Oriente. E forse gli sarebbe riuscito, se in Gregorio successore di Clemente avesse trovato quelle medesime inclinazioni ed affetti, che in costui furono.

Era stata la Sede Appostolica, per le discordie dei Cardinali, vacante poco men di tre anni dopo la morte di Clemente; nè vi bisognò meno, che la presenza del Re Filippo di Francia, e d'Errico, e d'Odoardo l'uno nipote e l'altro figlio del Re d'Inghilterra, per ridurre i Cardinali a rifar il successore; poichè questi Principi, che ritornavano d'Affrica, passati per Sicilia e Napoli, ritornando a' loro Stati, andarono a Viterbo per sollecitare i Cardinali per l'elezione, i quali finalmente mossi dalla presenza di que' Signori, non convenendo in niun di loro, finalmente nel dì 1 di settembre di quest'anno 1271 elessero persona fuor del Collegio, che fu Teobaldo di Piacenza della famiglia de' Visconti Arcidiacono di Liegi, che a quel tempo si trovava in Asia Legato appostolico nell'esercito cristiano contro Infedeli; che fattosi nel seguente anno coronare a Viterbo, fu chiamato Gregorio X, il quale ammaestrato da' precedenti disordini, fu il primo che fece la legge di chiudere dopo la morte del Papa i Cardinali in Conclave, e di tenervigli finchè avessero eletto il successore.

Fatta l'elezione del nuovo Pontefice, Re Filippo se n'andò in Francia, e Re Carlo ritornò in Napoli: questi considerando, che Filippo suo figliuolo secondogenito era morto, un altro chiamato Roberto terzogenito era pur morto sin nel 1265 e che Carlo suo primogenito (investito da lui del Principato di Salerno colla corona o cerchio d'oro, del Contado di Lesina con lo stendardo, e dell'Onore di Monte S. Angelo coll'anello) non avea ancor figliuoli maschi, egli nel nuovo anno 1272 tolse la seconda moglie, figliuola (secondo il Costanzo) di Balduino di Fiandra, ultimo Imperador di Costantinopoli, per via della quale sperava acquistar parte dell'Imperio di Oriente: ancorchè il Sigonio dica, che fu figliuola non già di Balduino, ma del Duca di Borgogna. Furono perciò in Napoli fatte gran feste e giostre, ed armati da lui molti gentiluomini con cingolo militare e fatti Cavalieri. Fu anche quest'anno assai lieto al Re, perchè nella fine del medesimo al Principe di Salerno successore del Regno, che non avea altro che figliuole femmine, nacque un figliuolo chiamato Carlo Martello, che fu poi Re d'Ungheria, del che si fece festa non solo in Napoli, ma in tutte l'altre città del Regno.

Ma poi che Carlo ebbe novella, che tornava da Soria il nuovo eletto Pontefice, e veniva a dismontare in Puglia, cavalcò, ed andò subito in Manfredonia ad aspettarlo e lo ricevè con molta stima ed onore, e volle accompagnarlo per Capitanata e per Abbruzzo fin a Campagna di Roma, lusingandosi con queste carezze tirar Gregorio a dar mano all'impresa, ch'ei meditava di Costantinopoli; ma il novello Pontefice, che stato lungamente in Soria, teneva grande affezione a quella guerra, coronato che fu, nel primo Concistoro fece nota a tutto il Collegio l'intenzion sua, che era d'impiegare tutte le forze del Ponteficato all'impresa di Soria contra Infedeli; la qual cosa, subito che fu scritta al Re Carlo, s'accorse quanto avea perduto con la morte dell'altro Papa suo predecessore.

Era a quel tempo venuto di Grecia Filippo figliuolo dell'ultimo Balduino, genero e cognato di Re Carlo, per sollecitarlo che venisse all'impresa di Costantinopoli, e 'l Re gli consigliò che andasse al Papa: e mandò con lui per Ambasciador suo il Vescovo d'Avignone, i quali trattando insieme col Papa, che volesse contribuire al soccorso, come si conveniva, per far unire la Chiesa greca colla latina, lo ritrovarono molto alieno da tal pensiero; perchè il Paleologo, che avea occupato l'Imperio, in quel medesimo tempo avea mandati Ambasciadori al Papa, offerendogli di ridurre la Chiesa greca all'ubbidienza della romana; onde Gregorio, che stimava più il bene universale de' Cristiani che il particolare dell'Imperador Balduino, e che voleva più tosto l'amicizia di colui, che possedeva l'Imperio e poteva sovvenire all'esercito cristiano nel riacquisto di Terra Santa, che divertirsi dall'aiuto dei Cristiani per rimettere nello Stato Balduino; si mosse da Orvieto, escludendolo da questa speranza, e se ne andò in Francia a celebrare il Concilio in Lione, per invitare il Re di Francia e d'Inghilterra, e gli altri Principi oltramontani alla medesima impresa. Il Paleologo, ch'avea inteso, che Balduino era andato in persona al Papa, per gelosia ch'ebbe, che non fosse di più efficacia la presenza di lui, che l'intelligenza degli Ambasciadori suoi, si mosse da Costantinopoli e condusse seco il Patriarca e gli altri Prelati del suo dominio a dare ubbidienza al Papa, dal quale fu accolto con grandissimo onore, ed ottenne quanto volle, e se ne tornò subito in Grecia, confermato Imperadore dalla Sede Appostolica. Si adoperò ancora Gregorio, che Ridolfo Conte d'Ausburg fosse eletto Imperador d'Occidente, essendo vacato l'Imperio molti anni, affine d'unire questi Principi al riacquisto di Terra Santa.

Tutte queste cose molto dispiacquero al Re Carlo; e avendo Gregorio nel 1274 aperto già il Concilio in Lione, ed invitato Fra Bonaventura, soprannomato il Dottor Serafico, che era stato creato Cardinale, e Fra Tommaso d'Aquino, il Dottor Angelico, perchè dovendosi trattare dell'unione della Chiesa greca e latina, potessero questi due insigni Teologi confutar gli errori de' Greci; Carlo temendo che Tommaso, il qual partiva di Napoli, dove in quest'università leggeva teologia, ed al quale erano note le sue crudeltà, nel Concilio non maggiormente esacerbasse l'animo del Pontefice, passando egli per Fossanova, luogo non molto lontano da Terracina, lo fece avvelenare, onde ivi nel monastero de' Monaci Cisterciensi trapassò nel dì 7 marzo dello stesso anno, in età di 50 anni. Ciò che Dante noverò tra le altre fierezze e crudeltà di questo Principe, dicendo:

Carlo venne in Italia, e per ammenda

Vittima fè di Corradino; e poi

Ripinse al Ciel Tommaso per ammenda.

Scorgendo per tanto Re Carlo l'animo del Pontefice non esser niente disposto a secondare i suoi desiderj, differì i suoi disegni; e mentre Gregorio visse, non si travagliò molto per le cose d'Italia, nè fuori di quella: ma fermato in Napoli, attese a magnificarla, ed a dar nuovo sistema alle cose di questo Regno, cominciando da lui queste nostre province a riconoscer Napoli per loro capo e metropoli.

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