CAPITOLO XI.

Leggi longobarde e feudali ritenute da' Normanni. Le discipline risorgono nel Regno loro per gli Monaci Cassinensi; e per gli Arabi in Salerno.

I Normanni, ancorchè secondo le leggi della vittoria, conquistate che ebbero queste nostre province, avessero potuto impor quelle leggi a' vinti, ed introdurre ne' luoghi conquistati quella forma di governo, che lor fosse stato più a grado; nulladimanco lasciarono vivere i Provinciali con quelle stesse leggi ed istituti che aveano; anzi insino ad ora, nuove leggi da loro non furono introdotte, siccome fecero i Longobardi, ma ben paghi delle leggi longobarde e romane, a loro imitazione non solo lasciarono vivere i loro sudditi nelle proprie leggi, ma essi medesimi si adattarono a quelle. Il primo, che nuove leggi v'introdusse, fu Ruggiero I Re, come nel seguente libro diremo.

Portò ciò in conseguenza, che niente ancora mutossi intorno a' Feudi, le cui Consuetudini procedenti per la maggior parte dalle leggi longobarde, restarono così intatte com'erano, e le leggi degl'Imperadori sino ora su di quelli stabilite, furono da essi con non minor rispetto ricevute e fatte osservare. Anzi avendo discacciati dalla Puglia, dalla Calabria e dalla Sicilia i Greci ed i Saraceni, che Feudi non conobbero: furono essi, che in queste province ed in quell'isola li introdussero, ad esempio dell'altre, che erano più lungamente durate sotto la dominazione de' Longobardi. Quindi multiplicossi il numero de' Baroni, ed oltre di coloro ch'erano ne' Principati di Benevento, di Salerno e di Capua, si sentirono anche da poi nella Puglia i Conti di Conversano, di Trani, di Lecce, di Monopoli, di Andria e moltissimi altri; e nella Calabria que' di Catanzaro, di Sinopoli, di Squillace e di Cosenza, di Tarsia, di Bisignano, di Girace, di Melito, di Policastro, e molti altri.

E se bene queste due province ritolte a' Longobardi da' Greci, avessero sperimentato per lungo tempo la loro dominazione, nulladimanco conquistate da' Normanni, furono ben tosto le leggi longobarde in esse introdotte, e tutte le città delle medesime secondo i lor dettami si reggevano; anzi Bari che fu la principal sede, prima degli Straticò, e da poi de' Catapani, più di tutte le altre, alle leggi longobarde s'attenne, e le consuetudini di questa città, non altronde derivano, se non dalle leggi longobarde; per la qual cosa Ruggiero I Re di Sicilia, dopo aver presa ed espugnata quella città, volendo riordinarla di buone leggi, fu da' Baresi richiesto, che lasciassegli vivere con le proprie loro consuetudini e particolari costituzioni, che tenevano, tratte dalle leggi longobarde, essendo stata lungo tempo la lor città sotto i Longobardi, come sotto Ajone, Melo, Meraldizo, Grimoaldo ed altri Principi di sangue longobardo: e Ruggiero avendole lette e commendate, ordinò che quelle s'osservassero, siccome lungamente da poi ebbero vigore, ed insino a' nostri tempi s'osservano.

L'avere i Normanni per lo spazio poco men d'un secolo, da che conquistarono la Puglia insino a Ruggiero I Re, tenuto tanto conto delle leggi longobarde, e l'averle preposte a tutte le altre, fece sì che passassero in queste province per legge comune; ed i nostri Professori non indrizzavano ad altro il loro studio, che a queste per appararle, come quelle, che poste in maggior uso ne' Tribunali aveano tutta autorità e vigore, e per quelle solamente le liti erano decise.

Le leggi romane erano, come più volte si è notato, solamente ritenute come una tradizione: e presso la plebe, ch'è l'ultima a deporre gli antichi istituti erano rimase come antica usanza, non già come legge scritta. La romana giurisprudenza, ed i libri di Giustiniano, ne' quali era contenuta (siccome tutte l'altre discipline) erano andati in dimenticanza, e d'essi rara era la notizia in questi tempi, ed in queste nostre parti, e molto meno lo studio e l'applicazione.

Ma non dobbiamo fraudar qui della meritata lode i Monaci Cassinensi, i quali furono i primi che cominciarono in mezzo di tanta oscurità a recar qualche lume a tutte le professioni in queste nostre province. La diligenza del famoso Desiderio Abate Cassinense, che innalzato al Ponteficato Vittore III fu detto, fece che si cominciasse ad aver notizia di qualche libro di quelli di Giustiniano, siccome degli altri d'altre facoltà. Questo celebre Abate dopo aver ingrandito quel monastero d'eccelse fabbriche, diedesi a ricercare molti libri per fornirlo d'una numerosa Biblioteca; e non essendo ancora in Italia introdotto l'uso della stampa, con grandissimo studio e molta spesa, avuti che gli ebbe, fecegli trascrivere in buona forma. Fra gli altri Codici furono le Istituzioni di Giustiniano e le sue Novelle. Ma questi libri come cose rare si reputavano allora, nè giravano attorno per le mani d'ogni uno, come ora; ma si custodivano, come cosa di molto pregio in qualche illustre Biblioteca. Solo nella Chiesa romana era più frequente l'uso di quelli, ed anche presso alcuni Imperadori d'Occidente, i quali alle volte stabilendo qualche loro costituzione si riportavano a quelli. Del Codice di quest'Imperadore, ancor che in questi tempi per la Francia (come è chiaro dall'epistole d'Ivone Carnotense) e per l'Italia ancora (com'è manifesto da alcune leggi degl'Imperadori d'Occidente, particolarmente d'Errico II e dalle decretali di alcuni Papi, che allegano alcune leggi del medesimo) ne girasse qualch'esemplare; nulladimanco a pochi era in uso, eziandio agli stessi Professori, i quali lo trascuravano per non aver quella forza e vigore nel Foro, che acquistò da poi.

Le Pandette non s'erano ancora scoverte in Amalfi, in modo che i nostri Professori n'avessero potuto aver notizia. Ve n'era bensì qualch'esemplare in Francia, siccome dimostrano l'epistole d'Ivone, nelle quali sovente s'allegano alcune leggi de' Digesti, poichè in quella provincia, per le famose sue Biblioteche, non vi era cotanta ignoranza di questi libri; e del Codice Teodosiano, e del suo Breviario ne girava attorno ancora più d'un esemplare.

Presso di noi nella sola Biblioteca Cassinense potevan vedersi le Istituzioni e le Novelle di Giustiniano, tanto è lontano che l'uso delle medesime a questi tempi fosse così frequente ne' Tribunali delle città di queste nostre province, come ora.

Solo le leggi longobarde eran le dominanti, e ciascun Tribunale secondo quelle diffiniva le sue cause, e secondo le medesime si regolavano le successioni, i testamenti, i contratti, la punizion de' delitti, le confiscazioni e tutti i giudicj. Sono fra monumenti delle nostre antichità ancor'a noi rimasi alcuni vestigi, che i Giudici appoggiavano le loro sentenze sopra queste leggi; e Lione Ostiense, il litigio insorto intorno l'anno 1017 tra il monastero di Monte Cassino con i Duchi di Gaeta, e' Conti di Trajetto, narra che fu deciso non meno per le leggi romane, che per le longobarde. Camillo Pellegrino rapporta un diploma di Riccardo II Principe di Capua, per cui fu fatta donazione alla chiesa di S. Michele Arcangelo in Formiis di molti beni, e fra gli altri d'alcuni, che a Riccardo suo avo erano pervenuti per alcune confiscazioni seguite secundum Longobardorum legem. E questo medesimo Scrittore rapporta due sentenze profferite anche dopo questi tempi, una dell'anno 1149 sotto il Re Ruggiero, e l'altra nell'anno 1171 sotto il Re Guglielmo, nelle quali si vede per le leggi longobarde essere le cause decise.

Nè in questi tempi, nel decider le cause, ricercavano i Giudici tanto apparato e tanta pompa, come osserviamo a' tempi nostri. Essi credevano che quelle sole potessero bastare, e ciò anche procedeva perchè non si dava luogo a tante lunghezze, a tanti raggiri e sottigliezze. Ogni città teneva il suo Tribunale, ed i suoi Giudici: e le liti senza molto apparato presto eran terminate; quando accaddevano controversie intorno a' confini, o che in altra maniera vi si richiedesse l'ispezion oculare, si portavano sulla faccia del luogo, ed ivi presto la causa si finiva; nè eran dispendiati i litiganti di ricorrere a' Tribunali remoti, ma nella loro città avanti i loro Giudici le controversie eran tosto terminate.

§. I. Prime raccolte delle leggi longobarde; e loro Chiosatori.

Avendo dunque, particolarmente in questi tempi, acquistata tanta forza in queste province le leggi longobarde, i nostri Professori tutti s'applicavano allo studio delle medesime; nè essendo stato fin qui, chi l'avesse in un sol volume raccolte, nel quale e le leggi de' Re longobardi, e quelle che dagl'Imperadori di Occidente, come Re d'Italia, erano state sinora promulgate, fossero state unite insieme per uso del Foro, e per maggior agio e comodità degli Avvocati e dei Giudici: finalmente intorno a questi tempi ne fu fatta la compilazione, per la quale in un sol volume furono tutte queste leggi raccolte.

La prima raccolta che noi possiamo mostrare di queste leggi, è quella che ancor si conserva nell'Archivio del monastero della Trinità della Cava, ove in un volume membranaceo scritto in lettere longobarde, si vedono inseriti tutti gli editti de' Re d'Italia, incominciando da Rotari, che fu il primo a dar leggi scritte a' Longobardi. Dopo l'editto di Rotari, siegue l'altro di Grimoaldo: indi sieguono le leggi di Luitprando: poi quelle di Rachi, e finalmente quelle d'Astolfo, che fu l'ultimo Re longobardo, che avesse stabilite leggi; poichè, come si disse, Desiderio suo successore ed ultimo de' Re longobardi, intricato in continue guerre, non potè pensare alle leggi. Ma poichè, non ostante che Carlo M. avesse discacciato Desiderio, ed il Regno d'Italia da' Longobardi fosse trasferito a' Franzesi, non cessò la dominazione de' Longobardi in queste nostre province sotto i Principi di Benevento, i quali ad esempio de' Re longobardi, stabilirono molte leggi, le quali lungamente nel Principato di Benevento, che in que' tempi abbracciava quasi tutto ciò che ora è Regno di Napoli, s'osservarono: perciò il Compilatore suddetto, che intraprese questa fatica per comodità de' nostri, in quel suo volume inserì ancora i Capitolari d'Arechi primo Principe di Benevento, e quel d'Adelchi suo successore; e dopo avere framezzate in quello alcune sue operette, fa una breve sposizione d'alquante leggi per uso de' Beneventani, e molto più per gli Capuani, per li quali mostra aver fatta quella fatica; tanto che per ciò, e per alcune altre conghietture, suspica Camillo Pellegrino, che l'Autore fosse stato capuano. In questa raccolta aggiunse egli ancora alcune sue operette legali sotto questi sconci e goffi titoli. Quantas caussas debet esse judicata sine Sacramentum. Item quantas caussas fieri debet per pugna judicata. Memoratorium pro quibus caussis filii ab haereditate patris exeredati fieri debet. Chiudono in fine il libro i Capitolari di Carlo Magno, di Pipino, di Lodovico, e degli altri Imperadori, i quali discacciati i Longobardi per Carlo Magno furono Re d'Italia.

Questa è la più antica raccolta, che noi abbiamo delle leggi longobarde fatta da un Capuano, il cui nome è a noi ignoto, la quale non mai impressa, si conserva nell'Archivio cavense. Il tempo nel quale fu fatta, suspica il Pellegrino essere nel principio di questo undecimo secolo intorno all'anno 1001 o poco da poi; poichè l'Autore v'inserisce un Catalogo dei Duchi e Principi di Benevento, e de' Conti di Capua, e lo tira sino al detto anno, sino al Principe di Capua Adimaro. Mostra divantaggio aver conosciuto Pandolfo Capodiferro Principe di Capua, il quale morì nell'anno 981. E questo è ancora il primo ed il più antico Autore, che noi possiamo mostrare avere scritte opere legali adattate a questi tempi, ne quali tutta la cura ed applicazione de' nostri Professori era intorno alle leggi longobarde.

Chi fosse l'Autore di quell'altra vulgata compilazione divisa in tre libri, e distinta in più titoli che ora si legge inserita nel volume dell'autentico, non è di tutti conforme il sentimento. Che fosse ella antica, si dimostra da' libri feudali, dove si allegano molte leggi longobarde, che ella racchiude. Alcuni credono, che fosse fatta ne' tempi di Lotario III ovvero II Imperadore da Pietro Diacono Monaco Cassinense, ancorchè per privato studio, ma con impulso però dello stesso Imperador Lotario, non potendosi dubitare, che Pietro fosse stato suo Logoteta in Italia, e costituito da lui Cartulario e Cappellano nell'Imperio. Lo argomentano dal vedersi, che dopo Lotario non si leggono in questa compilazione altre Costituzioni d'Imperadori posteriori; poichè se bene nelle ultime edizioni di Lindenbrogio e nelle vulgate si legga una costituzione di Carlo IV si vede chiaro, che quella vi fu aggiunta da poi, non leggendosi nella raccolta di Melchior Goldasto, ch'è più antica dell'edizione di Lindenbrogio; nè quella si appartiene punto al Regno d'Italia. Struvio aggiunge un'altra conghiettura dal vedersi, che alcuni esemplari portano anche il nome di Pietro Diacono.

Altri per contrarj argomenti di ciò non s'assicurano, ed il suo Autore dicono esser incerto. Dubitano esserne stato Pietro Diacono, poichè questi nella Cronaca Cassinense noverando minutamente tutte le sue opere che compilò dopo essersi fatto Monaco, e facendo di esse minuto catalogo, sino a porvi i proemj che fece ad alcuni libri non suoi, ed a riferire due inni che compose a Santa Giusta, ed alcuni sermoni, ed altre minuzzerie: di questa compilazione non ne favella affatto; quando, se egli ne fosse stato Autore, non avrebbe mancato di farne pompa, parlando egli delle sue cose, ancorchè di picciolo rilievo, con estraordinario compiacimento. Si aggiunge, che Carlo di Tocco, antichissimo nostro Giureconsulto, nel proemio delle Chiose che fece a questi libri, parlando dei Compilatori, dice che per la loro antichità, non avea potuto saperne i nomi; e pure Carlo di Tocco fu molto vicino a' tempi di Lotario, poichè visse nel Regno di Guglielmo Re di Sicilia, ed avrebbe potuto sapere se ne fosse stato Autore Pietro Diacono.

Che che ne sia, egli è certo che questa seconda Raccolta divisa in tre libri, ancorchè mal fatta, senza ordine di tempo, e con grande confusione, ebbe miglior fortuna, che la prima più metodica, e dove secondo l'ordine de' tempi furono raccolti tutti gli editti de' Re longobardi, ed i capitolari degli altri Imperadori Re d'Italia. Questa non mai impressa giace ancor sepolta nell'Archivio della Cava; all'incontro quella, di cui fassene Autore Pietro Diacono, ebbe molte edizioni, alcune separate, altre unite al volume dell'Autentico; e Basilio Giovanni Eriold colle leggi Saliche, Alemanne, Sassone, Brittanne, e d'altre Nazioni, fecela ristampare in Basilea nell'anno 1557. Melchior Goldasto ne fece fare un'altra edizione, e Federico Lindenbrogio la fece di nuovo ristampare, e l'unì al Codice delle leggi antiche.

L'uso ed autorità, che diedero i nostri maggiori a questi libri fu tale, che secondo quelli eran decise le liti ne' Tribunali; perciò i più antichi nostri Professori v'impiegarono le loro fatiche in commentarli, e farvi delle note. Il primo che impiegasse i suoi talenti sopra questi libri, e che con ben lunghe chiose gl'illustrasse fu Carlo di Tocco. Questi nacque nella Terra di Tocco posta su'l Beneventano, donde, come era l'uso di que' tempi, prese il cognome; e seguendo l'esempio de' suoi maggiori, per esser nato, com'egli dice, di padre similmente Dottor di leggi, si portò giovanetto in Bologna per apprendervi ragion civile; ed ebbe la sorte d'avere per maestri Placentino, Giovanni, Ottone Papiense, e Bagarotto, discepoli che furono del famoso Irnerio. Ritornato poi nel Regno fu fatto Giudice in Salerno; ed essendo ancor giovane, fu sotto il Re Guglielmo I, nell'anno 1162, creato Giudice della Gran Corte. Fu riputato uno de' più insigni Giureconsulti de' suoi tempi, e fra noi estese la sua fama anche presso coloro, che gli successero.

L'occasione che fu data a questo Giureconsulto di impiegare i suoi talenti sopra le leggi longobarde, non fu altra se non quella, ch'ebbero Ermogeniano e Gregorio a compilare i loro Codici. Questi due Giureconsulti, vedendo che per le nuove leggi de' Principi cristiani, l'antica giurisprudenza de' Gentili romani ruinava, vollero per mezzo de' loro Codici, quanto più fosse possibile ripararla, perchè almeno si conservasse in quelli. Così ne' tempi di Guglielmo, essendosi già ritrovate le Pandette in Amalfi, ed essendosi cominciate ad insegnare nell'Accademie d'Italia, i Giureconsulti di que' tempi eran tratti dalla loro eleganza e gravità ad apprenderle, e con ciò cominciando a riputar barbare ed incolte quelle de' Longobardi, lo studio delle medesime era tralasciato. Era stato a suoi dì da Irnerio, Bulgaro, Martino, Giacomo, Ugone, Pileo, Ruggieri, e da altri chiosato tutto il corpo della ragion civile; ed al costoro esempio tutti gli altri abbandonavano lo studio delle longobarde, donde potea ricavarsi maggior utile nel Foro. A questo fine Carlo di Tocco per finire di toglierne il disprezzo, come già erasi cominciato, e per invogliarli ad apprenderle, avendo fatto sommo studio sulle Pandette, proccurò illustrar le longobarde, confermando, o illustrando ciò che disponevano colle leggi romane, come fece per mezzo delle sue Chiose, le quali per la maggior parte non contengono altro, che spesse citazioni delle leggi romane, acciò che per questo mezzo s'invogliassero i Professori a studiarle, perchè con più utilità potessero servirsene per uso del Foro, appo a quale le Pandette non facevano ne' suoi tempi alcuna autorità, come diremo a più opportuno luogo. Fu questa sua fatica cotanto utile e commendata dai posteri, che acquistò forza e vigore poco meno delle leggi stesse; ed Andrea d'Isernia parlando di questa Chiosa del Tocco fatta alle longobarde, dice che plurimum in Regno approbatur . Colla medesima lode ne parlano Luca di Penna, Matteo d'Afflitto, ed altri nostri antichi Autori.

Per quest'istessa cagione ne' tempi dell'Imperador Federico II innalzandosi assai più lo studio delle leggi romane, che traeva a se tutti i Professori, i quali scordatisi con poca loro utilità delle leggi longobarde, ch'erano quelle, per le quali potevano vincer le cause ne' Tribunali, erano tutti intesi alle romane, fu data occasione ad Andrea Bonello da Barletta di far alcuni Commentarj sopra le longobarde, per li quali notò tutte le differenze, che v'erano tra l'une e l'altre leggi, affinchè nell'avvenire, com'egli dice, non si dasse occasione d'errare agli Avvocati, i quali mentre erano tutti intesi ad apparare le leggi romane, trascuravano le longobarde; onde sovente nelle cause era forza di soggiacere, e d'esser vinti da' Professori d'inferior grado e dottrina. Così egli narra esser accaduto una volta ad un grande Avvocato, il quale con ben grandi apparati difendendo una causa, avendo allegate a pro del suo Clientolo molte leggi romane: surse all'incontro certo Avvocatello suo oppositore, il quale portando nascosto sotto il mantello il libro delle leggi longobarde, dopo averlo fatto arringare a sua posta, cacciò fuori il libro, dal quale recitate alcune leggi, che decidevano a suo favore il caso, riportò la vittoria con grande scorno del suo Avversario, il quale pien di rossore vinto andò via.

Fu Andrea Avvocato fiscale sotto l'Imperador Federico II, ed avuto in molta stima da questo Principe, il quale per suo consiglio istituì la Curia Capuana. Fu un Giureconsulto molto rinomato nella sua età, e presso i suoi successori avuto in molta riputazione. Andrea d'Isernia lo chiama valente Dottore, Matteo d'Afflitto gran Giurista; ed altri non lo nominano, se non con grandi elogi. Compose, oltre a quest'opera utilissima, e necessaria per sapersi le differenze dell'une e dell'altre leggi, altri Commentarj sopra le leggi romane, sovente allegati da Napodano e da Afflitto; e poichè, oltre di questi Autori, non si ha riscontro che fossero allegati da altri, si crede che fossero da poi dispersi; siccome le sue Chiose sopra le nostre Costituzioni, furono per poca diligenza de' Copisti confuse con quelle di Marino di Caramanico, tal che ora mal si possono discernere.

Biase da Marcone, che visse a' tempi del Re Roberto, e fu suo Consigliere e familiare, pure sopra le leggi longobarde impiegò i suoi talenti, commentandole. Ne compilò un grosso volume, che manuscritto si conservava appresso Marino Freccia, come egli dice nel libro de' Suffeudi. Francesco Vivio lo chiama uomo di grand'autorità nel Regno, e specialmente pel suo trattato delle differenze del diritto dei Romani, e quello de' Longobardi: fu egli coetaneo ed amico di Luca di Penna, e discepolo di Benvenuto di Milo Vescovo di Caserta, cui professava grandi obblighi per averlo da niente ridotto a quello stato. Niccolò Boerio pure impiegò le sue fatiche sopra queste leggi. E negli ultimi tempi sotto l'Imperador Carlo V, Giambattista Nenna di Bari famoso Giureconsulto della sua età, compose un libro sopra queste leggi, con una spiega per alfabeto delle parole astruse de' Longobardi, che fece stampare in Venezia nell'anno 1537. Ma in decorso di tempo scemandosi sempre più la forza e l'autorità presso noi di queste leggi, ed andate finalmente in disuso, finirono i nostri Professori d'impiegarvi più i loro studj, e rimangono ora affatto oscure ed abbandonate.

§ II. Le discipline risorgono fra noi per opera de' Monaci Cassinensi.

Nel principio di questo secolo risvegliati gl'ingegni dal sonno, in cui erano stati nel precedente, si applicarono alle discipline; ed i contrasti che vi furono non meno fra gl'Imperadori d'Occidente ed i romani Pontefici, che fra i Greci ed i Latini, eccitarono gli animi a' studj, e diedero occasione a coloro, che si erano attaccati ad un de' partiti, che aveano qualche capacità, d'esercitare le penne, e di far comparire il lor sapere. Lo scisma, che in questi tempi teneva divisa la Chiesa greca dalla latina, e particolarmente la contenzione sopra il dogma della processione dello Spirito Santo, teneva ancora esercitati gl'ingegni, perchè più del solito s'applicassero a studj sacri e della teologia. Alcuni imitarono assai bene gli antichi, o nello stile, o nella maniera di scrivere, ma per la maggior parte essendo senza cognizione di lingue e d'istoria, sentirono della barbarie e della rozzezza del secolo precedente; ed alcuni cadettero nella maniera di scrivere secca e sterile de' Dialettici. Lo studio della teologia e delle altre scienze, che nel secolo precedente era stato posto in dimenticanza, fu tra di noi rinovato per opera de' Monaci, ma sopra ogni altro per quelli di Monte Cassino. Nel principio ognuno contentavasi di seguire l'antico metodo, e di riferire l'esplicazione de' Padri sopra la Scrittura Sacra; nè trattavano de' dogmi che di passaggio e per accidente. Ma sul fine di questo secolo si cominciarono a fare delle lezioni di teologia sopra i dogmi della religione, a proponere varie questioni sopra i nostri misterj, e a risolverle per via di ragionamenti, e secondo il metodo della dialettica. I libri d'Aristotele cominciavano a farsi sentire per gli Arabi che a noi li portarono; e credettero i nostri Teologi averne bisogno per le dispute contro gli Arabi stessi, onde l'accomodarono alla nostra religione, i cui dogmi e morale spiegarono secondo i principj di questo Filosofo, e trattarono la dottrina della Scrittura e de' Padri coll'ordine e con gli organi della dialettica, e della metafisica tratta da' suoi scritti. Questa fu l'origine della teologia Scolastica, che divenne poco da poi la principale, e quasi l'unica applicazione de' nostri Monaci e delle nostre Scuole.

I Monaci Cassinensi si distinsero fra noi in questo secolo sopra tutti gli altri: essi s'applicarono a questi studj; e mantennero presso di noi le Scuole sacre con molta cura, e dove il Catechismo era con molta diligenza spiegato da valenti Teologi, de' quali era in questi tempi il numero grande. Oltre il celebre Abate Desiderio cotanto noto nell'istoria, fuvvi Alfano, che da Monaco Cassinense passò poi alla Cattedra di Salerno, e compose molte opere delle quali Pietro Diacono e Giovanni Battista Maro tesserono lunghi Cataloghi. Fuvvi Albarico di Settefrati Terra posta nel Ducato d'Alvito, Monaco Cassinense, che parimente si segnalò e per la sua pietà, e per le molte opere, che scrisse. Oderisio de' Conti de Marsi, di cui Pietro Diacono e Maro rapportano le opere che compose. Pandulfo Capuano, che fiorì in Cassino sotto l'Abate Desiderio nell'anno 1060, e che si distinse sopra gli altri per la letteratura non meno sacra che profana, come si vede dal Catalogo delle sue opere, che ci lasciò Pietro Diacono. Il Monaco Amato, Giovanni Abate di Capua, di cui il Diacono e 'l Marco lungamente ragionano. L'istesso Pietro Diacono, e tanti altri, che ci lasciarono per le loro opere, di loro non oscura memoria.

Ma non pure in questi studj, che per altro dovean essere loro proprj, i Monaci Cassinensi si segnalarono, ma si distinsero ancora per le buone lettere e varia erudizione; e quel poco che si sapeva presso di noi a questi tempi, in loro era ristretto, e qualche cognizione, che se n'avea, ad essi la doveano le nostre province. Così osserviamo nella Cronaca di quel monastero, che Alberico compilò un libro de Musica, ed un altro de Dialectica. Pandulfo Capuano scrisse de Calculatione, e de Luna; altri sopra consimili soggetti, come può vedersi presso Pietro Diacono, dai Cataloghi delle loro opere, che tessè; ed altri impiegarono la loro industria a ricercar libri di varie erudizioni e scienze, e farli trascrivere, come fece Desiderio, che oltre i libri appartenenti alle cose sacre ed ecclesiastiche, fece trascrivere l'Istoria di Giornande de' Romani e de' Goti: l'Istoria de' Longobardi, Goti e Vandali: l'Istoria di Gregorio Turonense: quella di Giuseppe Ebreo de Bello Judaico: l'altra di Cornelio Tacito con Omero: l'Istoria d'Erchemperto: Cresconio de Bellis Libicis: Cicerone de Natura Deorum: Terenzio ed Orazio: i Fasti d'Ovidio: Seneca: Virgilio con l'Egloghe di Teocrito: Donato ed altri Autori. Nè minore poco da poi fu la cura e la diligenza di Pietro Diacono, il quale oltre alle sue opera raccolse l'astronomia da più antichi libri. Ci diede Vitruvio abbreviato de Architectura: un libro de Generibus lapidum pretiosorum, ed altri moltissimi, dei quali egli ne tessè un lungo catalogo.

§ III. Della Scuola di Salerno famosa a questi tempi per lo studio della filosofia e della medicina introdotte quivi dagli Arabi.

Gli Arabi, non già perch'eran Maomettani, è da dire, che abbiano fatta sempre professione d'ignoranza, come comunemente si crede: fuvvi tra loro un gran numero d'uomini insigni pel loro sapere, gli scritti de' quali riempirebbero grandissime librerie. Prima di questo undecimo secolo, erano più di trecento anni, che studiavano con applicazione; ed i loro studj non furono mai tanto forti, quanto allora, che presso di noi furono più deboli, cioè nel nono e decimo secolo. In qualunque paese dove per tante conquiste si stabilivano, essi coltivavano due sorte di studio: l'una lor propria riguardante la lor religione, ch'è quanto dire l'Alcoirano, e le tradizioni che attribuivano a Maometto, ed a' primi suoi discepoli ed espositori, onde ne uscirono le quattro Sette da noi nel libro sesto rammentate; l'altra riguardava gli studj, ch'essi avean presi dai Greci, e questi eran più nuovi, rispetto a quelli dei Musulmani, i quali erano tanto antichi, quanto era la lor religione.

Questi Popoli, come altrove fu narrato, avendo soggiogate molte regioni del romano Imperio, e depredate molte province dell'Asia, infra le prede ed i bottini fatti in Grecia, avendovi per avventura trovati alcuni libri, si diedero con fervore non ordinario agli studj delle lettere; e se ne invogliarono in guisa, che verso l'anno 820 fecero da Califo Almanon dimandare all'Imperadore di Costantinopoli i migliori libri greci, ed avuti, gli fecero tradurre tutti in Arabico. Ma di questi libri, di quelli della poesia non facevano alcun uso, perchè oltre d'essere dettati in una lingua straniera, e d'un gusto tutto differente dal loro, vi era ancora il rispetto della propria religione, la qual facevagli abborrire l'Idolatria, onde giudicavano non esser loro permesso di leggerli, e contaminarsi per tanti nomi di falsi Dei, e per tante favole, onde erano ripieni. La medesima superstizione gli fece ancora abborrire i libri dell'Istorie, sprezzandosi da loro ciò ch'era più antico del loro Profeta Maometto. Dei libri politici non potevan certamente averne uso, perchè la forma del loro governo era tutta altra delle Repubbliche più libere: essi viveano sotto un Imperio assolutamente dispotico, ove non bisognava aprir bocca se non per adulare il lor Principe; e di non ricercare altri mezzi, che d'ubbidire al volere del lor Sovrano.

Non trovarono adunque altri libri accomodati al loro uso, che quelli de' Matematici e de' Medici e de' Filosofi. Ma come non cercavano nè politica, nè eloquenza: così la lezione di Platone non era lor convenevole; tanto più, che per bene intenderlo era necessaria la cognizione de' Poeti, che trattano la religione e l'Istoria de' Greci. Abbattutisi perciò nell'opere di Aristotele, d'Ippocrate e di Galeno, si diedero con fervore a studiarle. Piacque lor molto più Aristotele colla sua dialettica e colla metafisica, studiandolo con tutto il fervore, e con incredibile assiduità. Si applicarono anche alla sua fisica, principalmente agli otto libri, che non contengono quella se non in generale; imperciocchè la fisica particolare, che ha bisogno d'esperienze e di osservazioni, non la riputavano tanto necessaria.

La medicina fu sopra ogni altro da essi tenuta in pregio, e la studiavano sopra i libri d'Ippocrate e di Galeno; ma la fondavano principalmente sopra generali discorsi delle quattro qualità del temperamento de' quattro umori, e sopra le tradizioni de' rimedi, senza farne alcun esame, ma mischiandoli con infinite superstizioni; e perciò non coltivavano l'anotomia ricevuta da' Greci molto imperfetta. Ma non così fecero della chimica, la quale se non è stata da essi inventata, ricevette al certo da essi molto ingrandimento; ma vi frammischiarono anche tanti vizj che sino ad oggi è sommamente difficile di separarli: tante vanità di promesse, tanta stranezza di discorsi, tanta superstizione di operazioni, e tutto ciò che poscia generò i ciarlatani e gl'impostori. Passavano quindi agevolmente dagli studj della chimica a quelli della magia, e di ogni sorta di divinazione, alli quali gli uomini naturalmente s'arrendono, quando non sanno la fisica, la storia e la religione. Ciò che lor diede molto aiuto in queste illusioni, fu l'astrologia, ch'era il fine principale de' loro studj di matematica. Infatti coltivarono questa pretesa scienza sotto l'Imperio de' Musulmani con tanto fervore, ch'ella era ormai divenuta la delizia de' Principi, regolando su tal fondamento le imprese loro più grandi. Lo stesso Califo Almanon prese a calcolare le tavole astronomiche, che furono tanto celebri; e bisogna confessare, che hanno molto servito per le sue osservazioni, e per le altre utili parti della matematica, come per la geometria e l'aritmetica. Lor deesi l'algebra e lo zero per moltiplicare per dieci; il che poi rendette le operazioni degli Aritmetici tanto facili. Quanto all'astronomia aveano il vantaggio medesimo, che avea stimolato gli antichi Egizj e Caldei a bene applicarvisi, perchè abitavano i medesimi paesi, ed avevano di più tutte le osservazioni degli antichi, e tutte quelle aggiunte da' Greci.

Questi Popoli adunque inondando le province di Europa ne' tempi più barbari ed incolti, e nel colmo dell'ignoranza e stupidezza: ne' paesi ove arrivavano si conciliavano, o col nome de' loro famosi Maestri, sotto i quali aveano studiato, o per li gran viaggi da essi fatti, o per la singolarità delle loro opinioni una stima ed un credito grande. Si sforzavano di rendersi distinti con qualche nuova sottigliezza di logica o di metafisica, e non s'applicavano, che al più maraviglioso, al più raro, al più malagevole a spese del gradimento, del comodo e dell'utile ancora. Furono perciò in Europa ammirati, ed i loro savi tenuti in gran pregio. I libri di Mesue, d'Avicenna, d'Averroe (che il Commento fece, del famoso Rasi) e di tanti altri, furono avuti appo noi in somma stima e riputazione. E Carlo M. fece i loro libri Arabici tradurre in latino insieme con alcuni Autori greci, ch'erano stati da essi in Arabico tradotti, affinchè la loro dottrina si diffondesse per tutte le province del suo Imperio. Quindi avvenne, che i Francesi e gli altri Cristiani latini appresero degli Arabi quello, che gli Arabi stessi aveano appreso da' Greci, cioè la filosofia d'Aristotile, la medicina, e le matematiche, sprezzando la lor lingua, la loro istoria e poesia, siccome gli Arabi sprezzate aveano quelle de' Greci. E siccome gli Arabi aveano contaminate quelle discipline, così da noi furon ricevute tutte imbrattate: la filosofia tutta vana ed inutile, perchè lontana dalla fisica particolare che avea bisogno di sperienze e di osservazioni; l'astrologia piena d'illusioni e di vane divinazioni; ma sopra tutto la medicina piena di spropositi e di superstizioni.

I primi libri adunque, che sopra queste facoltà si cominciarono a studiare, furono quelli degli Arabi, e per la medicina fra gli altri quelli di Mesue, e di Avicenna; ed i primi che gli studiassero furono i Chierici ed i Monaci, perchè la letteratura fra questi era ristretta; perciò a questi tempi essi soli erano i Filosofi, essi soli i Medici. Quindi leggiamo, che in Francia Fulberto Vescovo di Chartres, ed il Maestro delle sentenze, erano Medici: Obize Religioso di San Vittore era Medico di Luigi il Grosso: Riccardo Monaco di S. Dionigi, che scrisse la vita di Filippo Augusto, lo era parimente. Ed in queste nostre Province i migliori Medici erano i maggiori Prelati, ed i più celebri Monaci Cassinensi, come vedremo; ed erasi nell'Ordine ecclesiastico cotanto radicata questa professione, che un Concilio di Laterano tenuto sotto Innocenzo II nell'anno 1139 considera come un abuso di già invecchiato, che i Monaci ed i Canonici Regolari, per procacciarsi ricchezze facessero professione d'Avvocati e di Medici: e perchè il Concilio non parlava che di Religiosi professi, la medicina non lasciò d'esser esercitata da' Chierici per lo spazio ancora di trecento altri anni.

Quante occasioni si fossero date a' nostri provinciali di comunicare con questi Arabi, donde poterono apprendere queste scienze, ben si è veduto ne' precedenti libri di questa Istoria, e dalle varie abitazioni, che ebbero i Saraceni in queste nostre regioni, nel Garigliano, nella Puglia, nel Monte Gargano, in Bari, in Salerno, in Pozzuoli, ed in tanti altri luoghi; in guisa che ancora oggi a noi nella comune favella ci rimangono molti loro vocaboli, come altrove fu notato; ed in Pozzuoli si serbano ancora quattro marmi con iscrizioni in rilievo di caratteri orientali saracineschi. Si aggiunse ancora a questi tempi maggior comunicazione con gli Arabi per la vicinanza della Spagna, di cui aveano essi più d'una metà; ed il continuo commercio per li viaggi in questi tempi frequentissimi in Oriente, per cagion delle Crociate.

Ma come presso di noi nella città di Salerno la loro dottrina, e specialmente la medicina, fossesi così ben radicata, sì che questa città, sopra tutte le altre delle nostre province, n'andasse altiera per la famosa Scuola quivi fondata, non è stato, per quanto io mi sappia, fra tanti nostri Scrittori fin qui investigato. Coloro, che credettero la Scuola salernitana essersi da Carlo M. istituita insieme colla Scuola di Parigi e di Bologna, vanno di gran lunga errati, essendosi altrove in quest'Istoria mostrato, non aver potuto Carlo in questa città fondare Accademie, come quella che non fu mai sotto la sua dominazione; anzi in que' tempi, che si narra la fondazione delle Scuole di Parigi e di Bologna, tra Carlo M. ed il Principe Arechi furono guerre cotanto ostinate, che non fu possibile ridurlo; ed Arechi avea così ben fortificato Salerno, che fu riputato il più sicuro asilo de' Principi longobardi contro gli sforzi di Carlo e de' suoi figliuoli.

In tempi adunque meno lontani bisogna riportar l'origine di questa Scuola, la quale ne' suoi principj non fu istituita per legge di qualche Principe, e perciò non acquistò nome d'Accademia, o di Collegio, ovvero d'Università, ma di semplice Scuola. Cominciò a stabilirsi in Salerno, perchè in questa città, come marittima, vi erano spesse occasioni di sbarco di gente Orientali ed Affricani. I Saraceni in tempo degli ultimi Principi longobardi la visitavano spesso, onde gli Arabi ebbero occasione di farvi lunghe e spesse dimore. Si è veduto nel precedente libro, che i Saraceni ora dall'Affrica, e spesso dalla vicina Sicilia sopra navi giungendo alla spiaggia di quella città mettevano terrore a' Salernitani, i quali per liberarsi da' saccheggiamenti e da' danni, che inferivano ne' loro campi e castelli vicini, non avendo forze bastanti per poterli discacciare, pattuivan con essi tregua, ed accordavano la somma per comperarsi la quiete: per unire il denaro vi voleva tempo, onde i Saraceni calavano dalle navi in terra, e nella città, ed aspettavano, sin che dagli Ufficiali destinati dal Principe a far contribuire da' suoi vassalli le somme richieste, non si fosse unito il riscatto. Queste invasioni erano molto spesse, tanto che i Salernitani vi si ci erano accomodati; nè se non a' tempi di Guaimaro il Maggiore ne furono, come si disse, da' valorosi Normanni liberati. Or con queste occasioni conversando spesso i Salernitani con gli Arabi, appresero da essi la filosofia, ma sopra ogni altro si diedero agli studj della medicina, nella quale riuscirono eminenti.

Ma infra gli altri, che resero illustre la Scuola salernitana, fu Costantino affricano. Questi oriondo di Cartagine, per le sue peregrinazioni in molte parti dell'Asia e dell'Affrica avea appreso da quelle Nazioni varie scienze; ma sopra tutto si diede alla medicina ed alla filosofia. Egli navigò in Babilonia ove apprese la grammatica, la dialettica, la geometria, l'aritmetica, la matematica, l'astronomia e la fisica de' Caldei, degli Arabi, de' Persi, de' Saraceni, degli Egizj e degl'Indi; e dopo aver nel corso di 39 anni quivi finiti questi studj, tornossene in Affrica. Ma gli Affricani che mal soffrivano d'esser da lui oscurati per l'eccesso di tanta dottrina, pensarono d'ammazzarlo. Il che avendo penetrato Costantino, imbarcatosi di notte tempo su d'una nave, in Salerno si portò: ove per qualche tempo in forma di mendico stette nascosto.

Era, come altre volte si è detto nel corso di quest'Istoria, la città di Salerno frequentata da' Popoli di queste Nazioni, onde non passò guari che vi capitasse il fratello del Re di Babilonia, tirato forse dalla curiosità di veder questa città, la quale da Roberto Guiscardo era stata innalzata a metropoli, ed ove avea trasferita la sua residenza, e la quale pel continuo traffico e commercio d'infinite Nazioni a quel Porto, erasi resa l'emporio d'Occidente. Da questo Principe fu Costantino scoverto, e celebrando al Duca Roberto le sue eccelse prerogative, fece sì che Guiscardo lo accogliesse con somma cortesia, e gli rendesse tutto quell'onore, che ad uomo di quella qualità si conveniva. Si trattenne perciò egli in Salerno, ove ebbe campo di maggiormente promovere gli studj di filosofia, e sopra tutto di medicina, nella quale sopra tutte le altre facoltà era eminente; dopo essersi per molti anni trattenuto in Salerno, ritirossi a Monte Cassino, ed ivi si fece Monaco; ed in tutto il tempo che dimorò in quel monastero, non attese ad altro, che a tradurre varj libri di diverse lingue, ed a comporre molti trattati di medicina, de' quali Pietro Diacono tessè un lungo catalogo.

Crebbe perciò la fama della Scuola salernitana, la quale in gran parte la deve a' Monaci Cassinensi, i quali la promossero per gli studj assidui, che facevano sopra la medicina. Sin da' tempi di Papa Giovanni VIII questi Monaci eransi dati a tali studj; e Bassacio loro Abate, di medicina espertissimo, ne compose anche alcuni libri, dove dell'utilità ed uso di molti medicamenti trattava, non riputandosi a que' tempi, come si è detto, cosa disdicevole, che i Cherici ed i Monaci professassero medicina. Quindi presso di noi nella città di Salerno, ed altrove non si sdegnavano di professarla i più insigni e nobili personaggi. Alfano Arcivescovo di Salerno, narra Lione Ostiense, ch'era espertissimo in medicina, e che la sua maggior applicazione era di curare gl'infermi. Romualdo Guarna pur Arcivescovo di quella città, non isdegnava di professarla, siccome tutti i Nobili salernitani riputavano sommo lor pregio d'esserne instrutti, e di praticarla; e questo costume durò in Salerno per molti anni appresso: ond'è che alcuni non ben intesi di questa usanza, adattando i costumi presenti agli antichi, riputarono esser altri quel Giovanni di Procida, che fu celebre Medico, da quel famoso Giovanni Nobile salernitano autore della celebre congiura del vespro Siciliano, quasi che mal si convenisse ad un Nobile professar medicina.

Rilusse perciò la Scuola di Salerno assai più per tanti insigni personaggi che professavano quivi la medicina, e riputossi a questi tempi la più dotta e la più culta di quante mai ne fiorissero in Europa. Quindi avvenne, che da Salerno si chiamavano i Medici, e che i più grandi personaggi caduti in gravi infermità si portavano ivi per curarsi, siccome fece il celebre Abate Desiderio, il quale come narra Lione, per guarirsi d'una sua malattia, alla quale le molte vigilie ed astinenze l'avean condotto, portossi in Salerno. E ne' tempi che seguirono, pur si narra, che Guglielmo il Malo, ammalatosi in Palermo, e crescendo tuttavia il male, fece venire Romualdo Guarna Arcivescovo di Salerno assai dotto in Medicina per curarsi, il quale benchè gli ordinasse molti rimedi valevoli al suo male, egli nondimeno non poneva in opera, se non quelli che a lui parevano, per la qual cosa s'accelerò la morte. Quindi ancora si legge, che i migliori farmaci erano in Salerno fabbricati; onde si narra, che Sigelgaita da Salerno facesse venire i veleni per attossicare il figliastro ed il suo marito Roberto.

Ma quello, che diede maggior nome a questa Scuola fu l'opera, che compilò Giovanni di Milano, famoso Medico in Salerno, la quale ebbe l'approvazione di tutta la Scuola salernitana, e che sotto il nome della medesima al Re d'Inghilterra fu dedicata. Ciò che intorno a questi medesimi tempi, ne' quali siamo, accadde per un'occasione, che bisogna rapportare, affinchè non paja strano come i Medici salernitani per un Re cotanto lontano, e col quale essi non aveano alcun attacco, avessero voluto pigliarsi tanta pena d'unire in quel libro, dettato in versi lionini, i precetti donde potesse conservarsi in salute, ed a lui dedicarlo.

Ma cesserà ogni maraviglia se si terrà conto di quanto nel precedente libro di quest'Istoria fu narrato intorno alla venuta de' Normanni, e de' figliuoli di Tancredi in queste nostre parti: rampolli tutti di Roberto Duca di Normannia; e se riguarderassi, che negl'istessi tempi, che i nostri Normanni conquistarono la Puglia e la Calabria, ed indi il Principato di Salerno, gli altri Normanni che rimasero nella Neustria, sotto Guglielmo Duca di Normannia invasero l'Inghilterra, e dopo innumerabili vittorie finalmente intorno l'anno 1070 ridussero quel Regno sotto la dominazione del famoso Guglielmo, che perciò fu soprannomato il Conquistatore. Così regnando in Salerno, ed in Inghilterra Principi d'un istesso sangue, e tutti della razza di Rollone primo Duca della Neustria, fu cosa molto connaturale, che fra di loro, e' loro sudditi vi fosse amicizia e buon'alleanza.

Ma a qual Re d'Inghilterra i Medici di Salerno dedicassero in questi tempi quel libro, e con qual occasione è bene che si narri. Guglielmo Duca di Normannia dopo aver conquistato il Regno d'Inghilterra, lasciò di se tre figliuoli, Guglielmo Ruffo, Roberto, ed Errico. A Guglielmo primogenito fu ceduto il Regno d'Inghilterra: ma questi morì senza figliuoli nell'istesso tempo, che Goffredo Buglione insieme con Roberto si trovava nell'espedizione di Gerusalemme. Avea Roberto, cui il padre avea costituito Duca di Normannia, dopo aver ceduto il Regno d'Inghilterra a Guglielmo Ruffo, voluto seguitar, ad esempio degli altri Principi, Goffredo in quella spedizione, e dovendo passare in Palestina venne in Puglia per imbarcarsi con tutti gli altri; ma essendo quivi giunto nel rigor dell'inverno, passò tutta l'invernata dell'anno 1096 presso i Principi normanni della Puglia e di Calabria suoi parenti, da' quali con tutti i segni d'affetto fu ricevuto e accarezzato. Soppraggiunta da poi la primavera tragittò il mare, ed in Palestina col famoso Goffredo all'impresa di Gerusalemme s'accinse. Fu quella finalmente presa, ma nell'istesso tempo fu amareggiata a Roberto tal vittoria per la funesta novella della morte di Guglielmo suo fratello senza figliuoli, al quale egli dovea succedere. Gli fu offerto il Regno di Gerusalemme, ma egli rifiutollo, dovendo ritornare in Inghilterra a prender possesso di quel Reame, di cui egli era più vicino erede. Nel ritorno ebbe a passar di nuovo per queste parti, onde in Salerno fu da quel Principe suo congiunto con ogni stima ed onore accolto. E poichè nell'assedio di Gerusalemme avea ricevuta una ferita nel braccio destro, la quale essendosi mal curata era degenerata in fistola, consultò quivi i Medici di Salerno che dovesse fare per guarirsela. Que' Medici osservando, che quella ferita era proceduta da una freccia avvelenata, gli dissero che non vi era altro modo per guarirsene, se non si facesse succhiare da quella il veleno, che v'era. Non volle a ciò consentire il pietoso Principe per non porre in rischio colui che dovea succhiarla; ma la Principessa sua moglie con raro esempio d'amore, non curò ella esporsi al periglio, e mentre Roberto dormiva, senza che potesse accorgersene fece tanto, e sì spesse volte replicò il succhiare, che tutto trasse il veleno della ferita, e reselo sano.

(Alcuni stimano favoloso questo racconto del succhiamento del veleno. Ed intorno alla successione dei figliuoli di Guglielmo conquistatore del Regno d'Inghilterra, devono vedersi gli accurati Storici inglesi, a' quali dee in ciò prestarsi più fede, che a qualunque altro Scrittore straniere).

Volle da poi Roberto, che que' Medici gli prescrivessero una norma e ragion di vitto, perchè potesse conservarsi in quella salute, nella quale l'aveano restituito. Fu per ciò con tal occasione composto il libro, il quale se bene fosse stato composto da uno di que' Medici, porta però in fronte il nome di tutta la Scuola, non altrimente di ciò, che veggiamo essersi fatto dalla Scuola conimbricense in quella sua opera filosofica. Fu dedicato a Roberto, chiamandolo Re d'Inghilterra: non perchè questo Principe fosse stato da poi in realtà Re di quel Regno, ma perchè tornando dalla Palestina per prenderne il possesso, come a lui dovuto, non potevano aver difficoltà di chiamarlo Re di quel Regno a lui appartenente. Ma il suo fratello Errico, trovandosi egli in Inghilterra quando accadde la morte di Guglielmo Ruffo, valendosi dell'occasione per l'assenza di Roberto, invase il Regno, e per se occupollo, e se ben Roberto fosse giunto ivi con numeroso esercito per ricuperarlo, fu però da Errico disfatto e superato, onde restò escluso di quel Reame. Perchè fosse a quel Principe l'opera più gradita, e potesser meglio que' precetti ridursi a memoria, la composero in versi leonini, nella cui composizione in questa età consisteva tutto il pregio ed eccellenza de' Poeti; e perchè la dedicarono ad un Principe normanno, presso i quali questo genere di versi era il più giocondo e gradito; nè appresso di essi si faceva cosa memorabile, che non fosse dettata in questo metro. Tutti gli elogi, i marmi, e gli epitafi de' loro Principi, si componevano in questi versi; così fu dettato l'epitafio del loro primo Duca Rollone; e così ancora tutti gli altri de' nostri Principi normanni. Fu pubblicata quest'insigne opera nell'anno 1100 la quale divulgata per tutta Europa, è incredibile quanta gloria e fama apportasse a' Medici salernitani. Ebbe molti Chiosatori, e il più antico fu Arnoldo di Villanova famoso Medico di Carlo II d'Angiò. I due Giacomi Curio, e Crellio v'impiegarono pure le loro fatiche, ed ultimamente Renato Moreau, e Zaccaria Silvio la illustrarono colle loro osservazioni. Quindi per molti secoli avvenne, che la Scuola di Salerno per l'eccellenza della medicina fu sopra tutte l'altre chiara e luminosa nell'Occidente.

Così la prima Scuola, che dopo la decadenza dell'Imperio romano, e lo scadimento dell'Accademia di Roma, fosse stata istituita in queste nostre province fu quella di Salerno: ma con tal differenza, che siccome in quella della medicina non si tenne molto conto, così in questa, trascurate l'altre professioni per l'ignoranza del secolo, la medicina che non potè andar disgiunta dalla filosofia fu il principal scopo e soggetto; poichè coloro che ve l'introdussero non d'altre scienze erano vaghi, nè altre professavano con maggior studio e fervore, che la medicina e la filosofia. E perchè dagli Arabi l'appresero, presso i quali solo i libri di Ippocrate, d'Aristotele e di Galeno erano tenuti in sommo pregio, quindi avvenne, che nelle scuole per la medicina Galeno, sopra tutti gli altri, era preposto per maestro, e per la filosofia Aristotele, il quale con fortunati successi ebbe fra noi per molti secoli il pregio d'essere riputato il principe di tutti gli altri Filosofi.

Ma in questi tempi non era questo studio, che semplice scuola, poichè non fu fondato da' Principi, nè per molto tempo ricevè leggi, o regolamenti da' medesimi, perchè potesse dirsi Collegio ed Accademia, ovvero Università. Da poi che l'ebbe, prese anche questi nomi, ed il primo fu Roggiero I Re di Sicilia, il quale essendo stato anche il primo tra' Normanni a darci molte leggi, infra l'altre che promulgò, fu quella, per la quale proibì che niuno potesse esercitar medicina, se prima da' Magistrati e da Giudici non sarà stato esaminato ed approvato. Ma più favore ricevè questa Scuola da Federico II, il quale ordinò che niun s'arrogasse titolo di Medico, o ardisse di professar medicina, se non fosse stato prima approvato da' Medici di Salerno o di Napoli, e non avesse da questi ottenuta la licenza di medicare. E ne' tempi meno a noi lontani, avendo gli altri nostri Re successori di Federico, e particolarmente il Re Roberto, la Regina Giovanna I, il Re Ladislao, Giovanna II ed il Re Ferdinando I conceduto a questa Scuola altri onori e privilegi, fu finalmente eretta in Accademia, ed innalzata a dar gradi di Dottore particolarmente per lo studio della medicina, nel quale fioriva, ancorchè si fosse poi in quella introdotto d'insegnarsi altre facoltà.

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