Libro decimo

Il Duca Roberto, che non facendo vedere a Bacelardo suo nipote il diritto della paterna successione, non già come Tutore del medesimo, ma come proprj amministrava i Ducati di Puglia e di Calabria, per maggiormente stendere i confini del suo dominio sopra l'altre province, e meglio assicurarsi degli acquisti fatti, proccurava con ogni sommessione, ammaestrato dall'esempio di Lione, tener soddisfatti i Pontefici romani; anzi reputava per questa via, avendogli per amici, di giustificare le sue imprese, e renderle al Mondo commendabili, e senza taccia d'usurpazione. All'incontro i Pontefici rendutisi ora per le scomuniche più tremendi a' Principi, non trascuravano le occasioni di profittare dell'opinione, che s'aveano presso tutti acquistata della loro superiorità e potenza. Perciò nel Ponteficato di Niccolò II si stabilirono fra noi con maggior fermezza le papali investiture; al che conferì molto una sollevazione accaduta in Puglia nel medesimo tempo, che il Duca Roberto trionfava in Calabria.

Bacelardo mal soddisfatto del suo zio Roberto sovente dolevasi essergli stata tolta la successione dei paterni Stati, e movendo perciò la compassione di molti, avea tirato al suo partito molti Pugliesi, i quali apertamente sollevandosi invasero alcune Piazze della Puglia. Ma la vigilanza di Roberto tosto ripresse i mal conceputi disegni, perchè precipitosamente essendovi accorso, ridusse i luoghi sollevati, e spense subito l'incendio; anzi con tal occasione scorrendo nella più remota parte di Capitanata, ove i Greci si mantenevano ancora in alcune Piazze, le sorprese, e conquistò infra l'altre la città di Troja, che i Greci alquanti anni prima aveano edificata, ed aveanla costituita capo di quella provincia.

L'acquisto della città di Troja diede su gli occhi al Pontefice; poichè i Pontefici romani aveano in questi tempi pretensione, che questa città, non altramente, che Benevento, loro si appartenesse per singolar diritto. Ma tutti gli Autori tacciono, onde mai questa particolar ragione sia lor venuta; poichè questa città, secondo quel che per l'autorità di Lione Ostiense fu da noi rapportato, era nel dominio dei Greci, avendola nell'anno 1022 da' fondamenti edificata sotto il Catapano Bagiano, alla quale, per memoria della famosa Troja nella Frigia minore, diedero nome di Troja, e riputaronla come una colonia di quella.

E quantunque quando Errico calò in Italia con quell'esercito formidabile, si fosse accampato sopra questa città, come narra l'istesso Lione, ed avesse costretti i Trojani a rendersi a lui; nulladimanco loro perdonò poi, ed abbandonando que' luoghi, fece in Germania ritorno; nè si legge, che n'avesse fatto dono alla Chiesa romana, come si legge di Benevento. Ma comunque ciò siasi, Niccolò II il qual, seguendo il costante tenore de' suoi predecessori, mal sofferiva questi vantaggi di Roberto, col pretesto, che appartenesse quella città alla Sede appostolica, gli fece intendere, che dovesse a lui restituirla. Molto eran lontani i Normanni di restituire vilmente ciò, ch'essi aveano acquistato sopra i Greci colle loro armi, e con tante fatiche e travagli; onde Roberto, poco curandosi delle dimande del Papa, ripigliò il suo cammino verso la Calabria.

Non era in istato il Pontefice Niccolò II seguitando l'esempio di Lione, di movergli contro un esercito; eran lontani gli ajuti che poteva sperare dagl'Imperadori d'Occidente; anzi questi cominciavano ad alienarsi da' Pontefici romani, ed avergli in avversione per cagione, che contrastavan loro l'elezione del Papa e l'investiture degli altri beneficj, delle quali erano insin allora stati in possesso. Nè era da sperar soccorso dagli altri Principi longobardi vicini, poich'essendo il Principato di Capua passato sotto la dominazione de' medesimi Normanni, eran molto deboli le forze di coloro di Salerno, e molto più degli altri di Benevento. Molto meno era da sperare da' Greci, inimici implacabili de' Pontefici romani, per lo scisma famoso, ch'avea fra queste due Chiese poste già profonde radici, e che avea alienati i Greci da' Latini.

Dunque non restava altro a Niccolò II che di ricorrere alle armi spirituali ed alle scomuniche. I Pontefici romani aveano già cominciate ad adoperarle contro i Principi, come s'è veduto ne' precedenti libri; nulladimanco s'erano mossi allora per cagioni ch'essi almeno credevano più oneste, e sovente per occasione di religione, e per le loro detestabili eresie; se ne valsero anche per rompere le confederazioni, che i Principi cristiani spesso facevano con i Saraceni infedeli, come fece Giovanni VIII co' Napoletani ed Amalfitani, ciò che riteneva uno spezioso pretesto di pietà e di religione. Ma da poi, come suole avvenire, che il buon uso degenera in abuso, cominciarono a valersene indifferentemente per mondani rispetti, o per gratificare qualche Principe, o sopra tutto per conservare i beni temporali della Chiesa, ovvero per ingrandirgli con nuovi acquisti. Così abbiam veduto, che perchè i Beneventani non vollero aprire le porte della loro città all'Imperador Errico, questi gli fece scomunicare da Clemente II, che come un suo corteggiano lo menava seco in Germania.

Le scomuniche nella primitiva Chiesa, siccome allora tutta la cura de' Prelati era sopra le cose spirituali, così non eran adoperate, se non contro gli Eretici, ovvero per la correzione de' pubblici peccatori: il principal uso era contro coloro, che non ben sentivano della nostra religione, i quali se dopo le tante ammonizioni non si ravvedevan de' loro errori, eran separati dalla Chiesa; ed in secondo luogo, per evitar gli scandali, eran adoperate contro i pubblici peccatori. Nè era altro il loro effetto, che di privargli di tutto ciò, che la Chiesa dava a' suoi Fedeli di Sacramenti, e d'altre cose spirituali. Ma da poi, e spezialmente a questi tempi, essendo diminuita ne' Prelati la cura spirituale, ed all'incontro cresciuta nell'Ordine ecclesiastico l'avidità de' beni temporali, siccome prima s'usavan solamente per la correzione dei pubblici peccatori, e per gli Eretici, così da poi eran più frequentate per li beni temporali, così per difesa di quelli, come per ricuperargli, se per caso la poco cura de' predecessori gli avesse lasciati perdere.

Ma inutilmente si sarebbero adoperate quest'armi, se insieme non si fosse fatto credere a' Popoli, che in qualunque maniera lanciate, se non si restituivano le robe, erano i possessori irremissibilmente dannati, imputando ciò ad effetto della censura, più che del peccato. E per renderle più formidabili aveano ancora proccurato introdurre una nuova dottrina, che i scomunicati non pur fossero indegni di ciò, che la Chiesa dava a' suoi Fedeli, qual era l'effetto della scomunica, ma ancora che la scomunica disumanava, infamava, gli rendeva abbominevoli, esosi, vitandi, quasi appestati ed orribili, togliendo loro anche l'uso della vita civile e del commercio, stabilendo perciò molte decretali, che non potessero far testamenti, contratti, istituire azione alcuna in giudizio, adottare e far altri atti legittimi, non potessero esercitar uffici nella Repubblica e mille altre cose, di che forse ci sarà data occasione altrove di più diffusamente ragionare.

Per queste cagioni non si può credere quanto fosse in questi tempi il terrore e spavento delle censure non pur nella plebe, ma ne' personaggi di conto e nei Principi stessi; ed era veramente cosa da stupire, che i Capitani ed i soldati, uomini per altro scelleratissimi e senz'alcun timor di Dio, e che senz'alcun riguardo d'offenderlo s'usurpano quello del prossimo, per timore poi delle scomuniche guardavano con gran rispetto le cose della Chiesa, nè vi era in questi tempi da poter usare maggiore difesa per conservar i beni temporali, se non di porgli sotto la custodia e protezione della Sede appostolica.

Da ciò ne nacque (come altrove fu avvertito) un'altra utilità grandissima per l'aumento de' beni temporali della Chiesa, poichè mossi da ciò molti di poco potere e di deboli forze, che per se stessi non erano bastanti di conservar il loro dall'altrui violenza, che per la corruttela del secolo eran cresciute, desiderosi d'assicurar le loro sostanze, ne facevano donazioni alla Chiesa con condizioni, che rimanendo appresso di loro la roba, ella glie le dasse in Feudo con una leggiera ricognizione; poich'erasi in questi tempi introdotto il costume, che i privati gli Alodj mutavano in Feudo, con farne donazioni a' Principi da chi ne erano investiti. E di questa sorte di Feudi chiamati Oblati pur ne abbiamo memoria ne' nostri libri feudali, e Cujacio ne tratta ben a lungo. Questo assicurava li beni, che da' Potenti non erano toccati, come quelli, la di cui protezione e diretto dominio era della Chiesa, la quale entrava perciò volentieri, nel caso d'invasione, alle censure per difendergli: e dall'altra parte il vantaggio della Chiesa era grandissimo, non tanto per la ricognizione che ne ricavava, ma perchè se ben vivente il possessore non ne ricavava altro, nulladimanco mancando poi la successione masculina de' Feudatari, come spesso accadeva in questi tempi per le frequenti guerre e sedizioni popolari, i beni cadevano alla Chiesa.

I Normanni non meno degli altri prendevano delle scomuniche spavento e terrore; poichè venuti di fresco alla religione cattolica, ed essendo di somma pietà e zelo verso la medesima, come lo dimostrano le frequenti loro peregrinazioni ne' più celebri Santuari di Occidente e d'Oriente ancora, e divotissimi della Sede appostolica più che ogni altra Nazione, come si vide da' trattamenti che fecero a Papa Lione; mal volentieri volevano esporsi a questi fulmini, di cui essi aveano il più gran terrore. Animato da ciò Niccolò II, volle provarvisi, e riputando in questa maniera, ciò che Lione non avea potuto con eserciti armati, di poter ottener egli colle censure, scomunicò solennemente Roberto co' suoi Normanni.

Furono però questi fulmini lanciati a voto; poichè i Normanni, non men ch'essi, si sapevano molto bene conservare ciò che co' loro sudori in mezzo a mille perigli aveansi acquistato, e lor pareva somma viltà cedere quel che acquistato con tanti travagli possedevano; e per riverenti che fossero de' Pontefici, e della Sede appostolica, nulladimanco quando si trattava di lasciar ciò che avean preso, seguendo gli esempi degli stessi Pontefici, non così volentieri si persuadevano a farlo; ed ancorchè delle censure scagliate contro di loro n'avessero sommo spavento e terrore, con tutto ciò non era tanto, che riputandole per questo fatto ingiuste, si dovessero disporre a lasciare niente di ciò che aveano preso.

Essendosi adunque portate le cose a questo stato, nel quale non vi poteva esser riposo e quiete tra l'una parte e l'altra: ciascuna venne seriamente a pensare, come potessero uscir da tanti sospetti ed inquietudini per mezzo d'un accordo, che fosse per ambedue vantaggioso.

Roberto fra se medesimo considerava, che se bene stesse sicuro di non potere colla forza da' Pontefici romani esser costretto lasciar le sue conquiste, nelle quali s'era per tante vie stabilito; nulladimanco che non bisognava avergli inimici, poichè quantunque secondo lo stato presente delle cose non potessero ricever aiuti dagl'Imperadori d'Occidente, nè da altri Principi convicini; nulladimanco erasi per lunga esperienza veduto, che non sarebbon loro mancate occasioni, quando l'opportunità d'altro tempo lo portava, di turbargli: che le maggiori inquietudini ed ostacoli la sua Nazione gli avea sofferti da' Papi, più che dai Greci stessi. Lo spaventavano le censure, e più gli eventi infelici, che aveano sovente portato agli altri Principi: che presso i Popoli, a cui eran in sommo orrore, non potesse nascere qualche sollevazione, e particolarmente appo i Pugliesi, che non ben s'erano rassodati: che i suoi acquisti eran recenti in paesi stranieri, ove bisognava più tosto farsi degli amici, che degl'inimici: che i tumulti nati per Bacelardo suo nipote potrebbero esser fomentati di nuovo, con porre in su quel partito, nel che i Papi solevano usare ogni accortezza, tanto maggiormente che si portava opinione essergli da lui stata usurpata la successione: finalmente che bisognava aver amico il Papa, non solo per ciò che s'era acquistato, ma molto più per quel che rimaneva a conquistare nell'altre province, affinchè per l'autorità che s'aveano i Papi presa, potesse confermarlo nella possessione di ciò che sperava di avere.

Dall'altra parte il Papa considerava, che co' Normanni erano inutili le scomuniche; ch'essi non erano gente da lasciare niente, se non s'adoperassero quei medesimi mezzi, che avean tenuto per conquistarle; che queste forze non eran da sperare dagli Stati della Chiesa, o dagli altri Principi vicini, e molto meno dagl'Imperadori d'Occidente, i quali essendosi da loro alienati per cagione dell'investiture e per l'elezione de' Pontefici, ancorchè Niccolò in un Concilio tenuto poc'anz'in Roma avesse proccurato soddisfare ad Errico; nulladimeno per l'avversione de' Romani erano vicine le cose a prorompere in aperte dissensioni e guerre crudeli: che per poter sostenere la causa del Clero, e del Popolo romano, e de' Sommi Pontefici contro gl'Imperadori, bisognava pensare da ora ad appoggiarsi ad un Principe forte e valoroso, perchè altrimenti sarebbe riuscita vana ogni loro impresa: ch'egli non poteva far miglior elezione di Roberto, il quale colle sue forze avrebbe potuto opporsi efficacemente, e restituire alla Chiesa romana quella prerogativa, che gl'Imperadori s'aveano usurpata: che finalmente vi poteva esser modo, col quale la Sede appostolica accordandosi con Roberto più tosto ne ritrarrebbe vantaggio, che nocumento.

Erano per queste considerazioni gli animi ben disposti per mezzo d'un accordo di far terminare ogni contesa, e far nascere la pace in mezzo a tanti sconvolgimenti. Roberto volle prevenire il Papa, ed essendosi ritirato in Calabria, inviogli un Ambasciadore con offerte generose di voler egli soddisfarlo in tutto ciò che desiderava, e che per tal effetto lo invitava ad un congresso, di cui gli prometteva, che avrebbe gran soggetto d'essere soddisfatto.

Il Papa, che non desiderava altro, e che avea ancora i suoi disegni, ne fu contentissimo, e ricevuta quest'offerta, coll'occasione di dover tenere un Concilio per riformare in qualche parte i detestabili costumi degli Ecclesiastici, gli mandò a dire, ch'egli quel Concilio l'avrebbe intimato in Melfi, dove sarebbesi portato in persona, ed ove uniti insieme avrebbero con soddisfazione comune composta ogni contesa.

La corruttela de' costumi ch'era nell'Ordine ecclesiastico in questi tempi, era in eccesso: e sopra tutto, tolta ogni vergogna, non aveano nè tampoco difficoltà tener le concubine pubblicamente nelle proprie case, ed i figliuoli nati da quelle, come con dolore narra Pier Damiani. Niccolò nel Concilio romano diede contro tali Concubinari, qualche provvidenza; ma in queste nostre province avea questo vizio poste sì profonde radici, che non v'era nè Vescovo, nè Prete, nè Diacono, nè minimo Cherico, che non se ne provedesse: Niccolò perciò in quest'anno 1059 nella città di Melfi tenne Concilio, ove condannò e detestò l'abuso, ponendo molte pene contro i concubinari, e depose ancora il Vescovo di Trani. Ma non perciò potè svellersi la mala radice; pareva quasi che impossibile, che i Preti potessero distaccarsene, e quindi è che ne' Concili tenuti da poi, non si vide inculcar altro, che di toglierle a' Preti, ma sempre invano; anzi in queste nostre province era così pubblico questo uso delle concubine, ed il numero fu tale, che arrivarono sino a pretendere l'esenzione dal Foro secolare, e di non star sottoposte alle pene, che i Principi secolari contro i concubinari avean stabilite, dicendo, ch'essendo della famiglia de' Preti, doveano non meno che questi godere del privilegio del Foro. Ed è cosa maravigliosa il sentire, che Carlo II d'Angiò ordinasse ne' suoi tempi, che le concubine de' Preti non stassero sottoposte alla pena della perdita del quarto, come l'altre de' secolari, ancorchè non gli piacesse esentarle dal Foro, come i Preti pretendevano.

Essendo adunque il Papa al Concilio in Melfi, sopraggiunse ivi il famoso Roberto, che portò seco il Principe Riccardo con tutta la Nobiltà normanna; le allegrezze e l'accoglienze furono grandi; ma si venne da poi a quel che più importava.

I Normanni per assicurar meglio i loro Stati, proccuravano impegnare i Papi nella loro difesa, particolarmente contro gl'Imperadori, i quali avean ragione di ricuperargli, poichè ad essi si toglievano: la Puglia e la Calabria era cosa fuori di controversia, che agli Imperadori d'Oriente si toglievano, non già a' Pontefici romani, i quali non v'aveano alcun diritto. Dall'altra parte gl'Imperadori d'Occidente pretendevano, che ciò che I Normanni possedevano in queste nostre province, lo tenessero da loro in Feudo, avendogli investito Errico II, e che come vassalli dell'Imperio dovessero riconoscergli per Sovrani: Riccardo che avea involato il Principato di Capua a Landolfo, dovesse riputarsi come lor vassallo, non altramente che vi furono gli altri Principi di Capua longobardi suoi predecessori, essendo quel Principato sottoposto agl'Imperadori d'Occidente come Re d'Italia; pretendevano queste istesse ragioni sopra i Principati di Benevento e di Salerno, che Roberto intendeva d'invadere. Doveano adunque impegnarsi i Papi contro questi due potenti nemici, sopra i cui Stati finalmente si raggirava l'accordo.

Si pensò per tanto un modo, nel quale ciascheduno trovava il suo vantaggio. Era già, come s'è detto, introdotto costume, che ciascuno per conservar meglio i suoi beni gli sottoponeva alla Chiesa romana, alla quale, obbligandosi i possessori con una leggiera ricognizione, si dichiaravano ligi, giurandole fedeltà. I Pontefici romani in questi rincontri sempre v'aveano i loro vantaggi, poich'essi niente davano del loro, ed all'incontro, oltre della fedeltà giurata, ed il censo, nel caso di mancanza di prole legittima e maschile, i Stati si devolvevano alla Chiesa, ed era in loro arbitrio d'investirne da poi altri. I Popoli ed i Principi poco curavano d'esaminare se potessero farlo, o no, e donde venisse questo lor dritto d'investire, farsi giurare fedeltà, e di conceder anche titoli di Conti e di Duchi: bastava ad essi che fossero difesi colle scomuniche, delle quali si aveva tanto spavento, osservando, che i loro nemici sovente s'astenevano di mover loro guerra per non esporsi a' fulmini della Chiesa. S'aggiungeva ancora il vedere la potenza de' Pontefici romani essere in sì sublime grado ridotta, che s'arrogavano la potestà d'assolvere i loro vassalli da' giuramenti, e di poter ancora deponere gl'Imperadori ed i più grandi Monarchi della terra; onde molto meno recava loro maraviglia se potessero dar titoli di Conte e di Duca, quando presumevano di far essi gl'Imperadori stessi d'Occidente, e trasferire l'Imperio da una Nazione in un'altra.

Ma quello, che veramente portava stupore era il vedere, che s'erano persuasi, che non solo potessero i romani Pontefici investire e farsi dar giuramenti di fedeltà di quelle terre, che erano a loro offerte a questo fine; ma anche di province e Regni, che doveano ancora conquistarsi. E presso coloro che s'accingevano alla conquista, trovava ciò facile credenza, perch'era cosa per loro molto acconcia, di poter in cotal guisa essere non pur animati all'impresa, ma assicurarsi delle future conquiste, perchè volendosi opporre i possessori, che erano spogliati, doveano ancora esporsi agli fulmini della Chiesa, che loro si opponeva.

Fu dunque cosa molto facile venire a capo di quest'accordo, come quello che finalmente si raggirava, come meglio sopra gli Stati altrui potesse ciascuno profittare. Niente importava che sopra le spoglie dei Greci e de' Longobardi si pattuisse. Niente ancora si badò al Principe Bacelardo, che si teneva dal zio spogliato. Niente al Principe Landolfo discacciato da Capua; ma ciascuno rimirando a' suoi propri comodi e disegni, conchiusero di buon accordo il tutto in cotale guisa. Che Roberto co' suoi Normanni fossero assoluti da tutte le censure. Che a Roberto si confermasse il Ducato di Puglia e di Calabria, ed oltre a ciò, che cacciando i Greci ed i Saraceni, che in gran parte tenevano occupata la Sicilia, dovesse il Papa investirlo anche di quell'isola con titolo di Duca; ed in fine, che a Riccardo Principe di Capua si confermasse il Principato, che a Landolfo avea usurpato.

All'incontro fu convenuto, che Roberto e Riccardo ed i loro successori si mettessero sotto la protezione del Papa, il quale confermava loro la possessione di tutti i Stati che aveano in Italia, e della Sicilia quando essi l'avessero conquistata sopra i Saraceni: che gli prestassero perciò il giuramento di fedeltà come Feudatari della Santa Sede, alla quale dovesse Roberto per ciascun anno pagare il censo di dodici denari di Pavia per ogni paio di buoi; siccome narra Lione Ostiense; e Fr. Tolomeo di Lucca aggiunge, che Roberto non s'obbligò a quest'annuo censo, o costretto, o ricercato dal Papa, ma di sua spontanea e libera volontà.

Questo fu stabilito in Melfi in quest'anno 1059 ed ancorchè alcuni scrivano, che ciò anche fu confermato nel Concilio dal Papa ivi tenuto; nulladimeno non essendo quest'affare appartenente al medesimo, che erasi sol ragunato per riformare i costumi degli Ecclesiastici, altri non ardiscono di dirlo, ma solamente che mentre il Papa coll'occasione del Concilio si trovava in Melfi, avesse ricevuto da' Normanni il giuramento della fedeltà, e data l'investitura. Che che ne sia, egli è certo, che si eseguì il trattato fedelissimamente da una parte e dall'altra; e Roberto prestò il giuramento di fedeltà, che il Baronio dice aver egli trovato nel Codice del Vaticano detto Liber censuum, ove vien riferita la formola, colla quale il Duca Roberto giurò al Papa fedeltà, che comincia: Ego Robertus Dei gratia, et S. Petri Dux Apuliae, et Calabriae, atque utroque subveniente futurus Siciliae. Nota il Sigonio, che il Papa non il confermò Duca colla cerimonia francese usata da' Duchi di Normannia, e di sopra rapportata, cioè con dargli l'anello nel dito, il berrettino in testa, e col cingergli la spada al fianco: ma colla cerimonia italiana, dandogli lo Stendardo nella destra, e facendolo Gonfaloniero di S. Chiesa; onde Guiscardo da quest'anno cominciò a valersi di questo titolo Ducale: Dux Apuliae, Calabriae, et futurus Siciliae.

Alcuni anche rapportano, che Roberto allora avesse restituita a Papa Niccolò la città di Benevento, e la città di Troja; ma lo dicono senz'alcun fondamento di verità; poichè in questi tempi la città di Benevento era in potere di Landolfo Principe di Benevento, e di suo figliuolo Pandolfo, i quali erano stati già restituiti nel loro Principato, come rapporta l'Autore contemporaneo della Cronaca de' Duchi e Principi di Benevento; nè se non molto tempo da poi fu alla Chiesa romana, per le ragioni, che vi pretendeva, da Roberto restituita, quando, vinti ch'ebbe i Principi longobardi, che tennero quel Principato, gli cacciò da' loro Stati, come diremo più innanzi. Nè della città di Troja presso gravi e vecchi Scrittori si ha memoria alcuna, che si fosse al Papa restituita, non costando come mai v'avessero potuto avere diritto alcuno, quando poc'anni da poi, che fu da' Greci edificata, fu a' medesimi tolta dai Normanni; e par che i successi, e quel che anche oggi giorno veggiamo, confermino quanto si dice, poichè solamente Benevento si vede essere della Chiesa romana, ma di Troja non si legge, che fosse stata in alcun tempo sotto il di lei dominio.

Ecco il fondamento del diritto, che pretendono i Pontefici romani sopra i Reami di Napoli e di Sicilia: fondamento ancorchè a questi tempi debole e vacillante, nulladimanco in progresso di tempo renduto più fermo e stabile, potè per l'accortezza de' successori di Niccolò II sostenere fabbriche sì grandi ed eccelse, che arrivarono a disporre di questi Regni a lor piacere ed arbitrio, ed a trasferirgli di gente in gente, come s'osserverà nel corso di quest'Istoria.

Essi deono questo benefizio e questa parte sì considerabile della loro grandezza temporale a' Normanni, i quali per impegnarli nella loro difesa, o particolarmente contro gl'Imperadori d'Oriente, i quali potevano pretendere, che una gran parte di ciò di che questi conquistatori s'erano impadroniti, loro s'appartenesse; ovvero che la tenessero da quei d'Occidente in Feudo, da chi n'aveano prima ricevute l'investiture: essi non fecero punto di difficoltà di dichiararsi ligi de' Pontefici romani, a fin che loro non si potesse far guerra senz'esporsi a' fulmini della Chiesa.

Questi furono i primi semi, che coltivati da poi da esperte mani, posero col correre degli anni radici così profonde, ed inalzarono piante così eccelse, che finalmente fu riputato il Regno di Sicilia essere spezial patrimonio di S. Pietro, e Feudo della Sede Appostolica romana. Quindi nacque, che presso i nostri Scrittori fosse stato creduto, che la Chiesa romana come suo patrimonio n'avesse investito i Normanni, chi allegando perciò la donazione di Costantino M., e chi quella di Pipino e di Carlo M., e chi le donazioni degli altri Imperadori d'Occidente. Vissero costoro in queste tenebre per l'ignoranza dell'istoria, infino che Marino Freccia non cominciò fra' nostri ad aprir gli occhi, ed a ricever lume dall'istoria, con iscoprire l'inganno, e ad avvertire che queste investiture non possono fondarsi in altro che nella consuetudine, in vigor della quale la Chiesa romana è stata solita investire. E parlando di quest'investitura di Niccolò II e dell'altre seguite in appresso, non ebbe difficoltà di dire: Ecclesia non dedit, sed accepit: non transtulit, sed ab alio occupatum recepit; compassionando il suo affine Matteo d'Afflitto, che scrisse aver Costantino M. donato questo regno alla Chiesa, con dire, affinis meus hìstoricus non est, auditu percepit, etc.

Questa prima investitura, perciò che riguarda la persona di Roberto, non abbracciava altro che il Ducato di Puglia e di Calabria, come cantò il nostro Guglielmo Pugliese:

/* Robertum donat Nicolaus honore Ducali, Unde sibi Calaber concessus, et Appulus omnis. */

E per Riccardo abbracciava solamente il Principato di Capua. Ma v'erano semi tali, che ben poteva comprendersi, che il medesimo si sarebbe fatto per tutte le altre province, che insino a questo tempo non erano ancora passate sotto la dominazione de' Normanni: fu investito Roberto anche della Sicilia, che dovea ancora togliersi a' Greci ed a' Saraceni che la tenevano invasa. L'istesso certamente dovea credersi del Principato di Salerno, dell'altro di Benevento, d'Amalfi, di Napoli, di Bari, di Gaeta, e di tutto ciò che oggi compone il Regno, siccome l'esito lo comprovò; perchè conquistati che furono da' Normanni, e discacciati interamente i Greci ed i Principi longobardi, vollero anche da' Pontefici esserne investiti, i quali di buon gusto lo facevano, niente a lor costando, anzi il vantaggio era per essi assai maggiore, che di coloro che lo desideravano.

I Normanni all'incontro non molto si curavano di farlo, perchè oltre que' vantaggi, che si sono poc'anzi notati, essi per allora niente di danno ne sentivano; poichè toltane quella piccola ricognizione del censo, appresso loro rimanevano le supreme regalie, governando i loro Stati con assoluto e libero imperio, come supremi ed indipendenti, e si riputavano piuttosto tributarj della Sede Appostolica, che veri Feudatarj; poichè in questi tempi l'essere uomo ligio, non era preso in quel senso, che ora si prende presso i nostri Feudisti, ma denotava una sorta di confederazione, e lega che l'inferiore con astringersi a giurargli fedeltà, prometteva al superiore di soccorrerlo in guerra, ovvero pagargli ogni anno certo tributo o censo. Ciò che tra' Principi istessi era solito praticarsi, siccome fece Roberto Conte di Namur con Odoardo III Re d'Inghilterra, il Duca Gueldrio con Carlo Re di Francia, ed in fra di loro Filippo di Valois Re di Francia, ed Alfonso Re di Castiglia.

Co' Pontefici romani per le cagioni di sopra rapportate era più frequente il costume. I Re d'Inghilterra s'obbligarono alla Sede appostolica pagare il tributo, il quale sopra quel Regno sino a' tempi d'Errico VIII fu esatto, chiamato il denaro di S. Pietro; anzi non vi fu quasi Principe d'Europa, che non sottoponessero a tributo i loro Regni alla Chiesa romana; tanto che Cujacio parlando di questo costume renduto a questi tempi frequentissimo, ebbe a dire, et qui non Reges olim? I Pontefici romani in questi principj si contentavano del solo censo per render soave il giogo, ma tanto bastò, che in decorso di tempo potessero per la loro accortezza aprirsi il campo a pretensioni maggiori, come lo seppero ben fare nell'opportunità, che si noteranno più innanzi nel decorso di questa Istoria.

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