III.

Del pessimismo, della rassegnazione manzoniana, specialmente ne’ Promessi Sposi, si è molto scritto e disputato; e il più spesso servendo ad animosità di polemica, sia che si volesse ridurre quel romanzo a una glorificazione di preti e di frati, o attribuirgli una grande efficacia patriottica.

Inteso come depressione e remissione dello spirito che rinunzia alle lotte feconde della vita per rifugiarsi in Dio e in un alto ideale religioso, fuori di cui nulla v’ha tra gli uomini di bello e di grande, il pessimismo è certo la tendenza costante espressa in tutta l’opera letteraria del Manzoni: tendenza che si accordava al movimento generale di reazione determinatosi, dopo le forti agitazioni del secolo scorso, su’ primordii del nostro. Appunto, di questa reazione, col suo più equilibrato temperamento il Manzoni intese a rendere quanto di più vero e profondo rispondeva al bisogno di spiriti affaticati e desiderosi di quiete, di elevazione; e la fede parla alla sua anima con l’accento più ispirato, con l’emozione più intensa e raccolta. La contemplazione della vita ha per lui qualche cosa di triste, di tragico anche; ma la speranza solleva l’anima sul dolore del presente, la rassegnazione aiuta a soffrirlo.

Negli Inni Sacri il Cristianesimo si rivela in ciò che ha di più umano e patetico: esso è spogliato dall’involucro ascetico, mistico, formale, ed è còlto, invece, nel profumo, per così dire, del sentimento, nelle meste e riposate meditazioni che ispira, sopratutto negli affetti casti che benedice.

Nel Cinque Maggio, un mondo tempestoso, e l’uomo che lo percorreva signore della procella, son rievocati e rappresentali, non in quanto potevan sedurre o sgominare la fantasia; ma in quanto tutto questo mare agitato, fremente, finisce per acquetarsi, per metter capo nell’oceano placidissimo della fede. Oggi noi non possiamo risentir pienamente l’impressione profonda che il Cinque Maggio destò al suo primo apparire, fra que’ contemporanei, caldi di tante brusche emozioni; ma certo anche noi si è scossi al vedere là sullo scoglio di Sant’Elena Napoleone pensoso – e, accanto alla deserta sua coltrice, posarsi bella, consolatrice la fede: sullo scoglio del Prometeo moderno visitarlo il martire deriso del Golgota. – Il Cinque Maggio del Manzoni ha per questa sola novità d’intonazione, più che per assoluto valore artistico, una parte a sè in tutta la letteratura della «leggenda napoleonica.» – Nel Cinque Maggio, ad esempio di Beranger, che ricorda l’autore de’ Souvenirs du peuple, v’è il sentimento rozzo e vivo del soldato che piange il suo duce glorioso, v’è l’orgoglio delle memorie espresso con caratteristica energia militare, il disprezzo per la Santa Alleanza che tremava d’un prigioniero, il convincimento che questi, vivendo ancora, avrebbe potuto ridimandare il mondo. Questa gloria è invece per il Manzoni assai dubbia, e si domanda se fu vera, mosso tuttavia da un sentimento ben diverso da quello per cui V. Hugo esclamava:

Peuples, qui poursuivez d’hommages
Les victimes et les bourreaux
Laissez-le fuir seul dans les âges:
Ce ne sont point là les héros!

Manzoni non impreca contro questa gloria che gronda di sangue e di lagrime e china la fronte a Dio, che volle stampata nel fatale più vasta orma del suo spirito creatore. Perchè maledire? – L’imprecazione generosa, nel coro del Carmagnola, all’oppressore che infrange il patto della fraternità umana, che s’inalza sul fianco piangente, finisce nell’Adelchi in «una ammonizione disperata» all’oppresso. In un coro stupendo si conforta l’ambascia della morente Ermengarda, dicendole d’esser grata alla provvida natura che lei discesa dalla rea progenie de’ carnefici volle collocata tra le vittime.

Ebbene, i Promessi Sposi, in proporzioni più vaste, si colorano senz’altro a questa deprimente concezione della vita che ha il Manzoni. Egli ha creato un mondo poetico vivente, un organismo storico perfetto; ma nel primo si ravvisa sempre la stessa tendenza pessimista, l’altro è compenetrato da un solo ideale: tendenza e ideale che si traducono nella rinunzia alla lotta, nella mortificazione cristiana, nell’apoteosi della religione, che sola ci fa buoni, che sola ci dà conforto ed aiuto.

Fin dal principio, quando giustamente indignato Renzo alza la mano minacciante a Don Rodrigo, voi vedete P. Cristoforo che la rattiene, e che rompe in severe parole di biasimo. Rassegnarsi, sperare in Dio, dev’esser la vita de’ soffrenti; perchè ribellarsi? perchè pagar odio per odio – respinger la forza con la forza? L’impeto d’un momento P. Cristoforo lo sconta con una vita di espiazione.

E Manzoni ci rappresenta a meraviglia quel secolo sciagurato, in cui era intero l’annientamento della coscienza nazionale; questa completa prostrazione domina in tutto il poema – per contrasto non s’intravede nemmen una di quelle alte personalità, che pagano con la vita le generose indignazioni, le rivolte magnanime. La società è divisa in oppressori ed oppressi; in alto l’Innominato, Don Rodrigo – abbasso, Renzo, Lucia, Agnese, Don Abbondio. Nel corso degli avvenimenti, subordinato alla Provvidenza, voi assistete alla conversione dell’Innominato, e vedete allora che – dove vien meno il diritto, e la legge non fa altro che proclamare solennemente la sua impotenza con pazze esorbitanze stampate, o si fa complice con l’Azzeccagarbugli, o umilissima serva col Podestà – sola la religione può francare la distanza fra oppressori ed oppressi; assistete all’agonia di Don Rodrigo e perdonate con Renzo. Tanti odii, tante ferocie umane son tolte dalla religione.

Delle nostre passioni si può dire che il Manzoni consideri solo gli estremi: passioni scomposte e colpevoli; e sentimenti ingenui, semplici fino all’insipidezza. All’amore violento, al capriccio brutale di Don Rodrigo si oppone l’amore semplice dei due promessi – l’amore, poesia de’ sensi, dolce e penetrante calore dell’anima, passione tormentosa, è sconosciuto. Lucia, per uno scrupolo religioso, rinunzia al suo Renzo; è vero che, malgrado tutto, le balena sempre davanti l’immagine dell’uomo, che si era scelto, ma pure il sacrificio sarebbe deciso, senza reticenze, se P. Cristoforo – con un po’ di casistica – non mostrasse che nella vita può darsi pure qualche cosa di buono, oltre lo stato di verginità.

Per quello che riguardi l’ intelligenza, la scienza, noi la vediamo soltanto nel lato negativo, o almeno comico, in Don Ferrante. – Abbondano i tipi di persone semplici e beate nella ignoranza e nel timore di Dio.

Di grande insomma nulla, fuor che nella religione – sia pure sentita e compresa nella sua più alta idealità. V’è proprio ne’ Promessi Sposi «lo scetticismo della vecchia società che rifugiasi in chiesa.»

Quando il Settembrini, nell’ultimo volume delle sue Lezioni di lett. it., pronunciò il conosciuto giudizio su’ Promessi sposi, si gridò da ogni parte: – e don Abbondio, la Monaca, il Padre Provinciale? Volete caratteri più riprovevoli? – La questione era stata malamente posta: con l’istinto suo battagliero, e con quell’intuito che compensa spesso il difetto di preparazione, il Settembrini aveva avvertito ne’ Promessi Sposi «il nemico»; v’era lì qualche cosa che doveva urtar lui, caldo ancora della lotta, e recante uno stigma ben doloroso dell’oppressione, per non acquetarsi alla calma manzoniana. Un’impressione giustissima s’era però fuorviata e impiccolita in una questione esterna e gretta di preti e di frati: e su questo terreno gli avversari avevano troppo buon gioco – senza bisogno di spiegare, come fecero, un’intemperanza indegna del loro maestro. – Noi ameremmo invece si osservasse, per porre la questione nella sua vera luce, che in Don Abbondio, nel Padre Provinciale, nella Monaca è condannato l’individuo non l’istituzione, è condannato il secolo non la religione. Perchè Don Abbondio è codardo, il Padre Provinciale senza dignità, la Monaca colpevole? Perchè essi nello stato che hanno abbracciato han portato le passioni, le debolezze, i rispetti umani del secolo; perchè Don Abbondio ha visto nel sacerdozio null’altro che un mestiere commodo, e il più sicuro all’infermità sua; il Padre Provinciale è un frate diplomatico; la Monaca è stata violentata. Ha forse colpa l’istituzione de’ traviamenti o del poco zelo dell’individuo? Se questi non è nelle condizioni necessarie per intenderne lo spirito, per adempierne i doveri, non si può pretendere una trasformazione miracolosa.

Quanto possano l’istituzione, l’idea religiosa, lo provano il Padre Cristoforo e il Cardinal Borromeo, co’ quali, sull’ala poderosa del poeta, salite le cime più alte dell’ideale religioso. Fra le miserie e le brutture del mondo voi per essi posate lo sguardo su quell’ideale che le redime e le cancella. La religione non soltanto consola, ma fa difender gli oppressi: per un Don Abbondio che diserta vilmente il suo posto, avete Padre Cristoforo, il Cardinal Borromeo che succedono a campioni senza paura e senza macchia. – Dove l’uomo della legge si rincantuccia codardamente, s’avanza animoso il frate: attorno al tirannello stanno, come in Corte, parassiti, adulatori, servi; ed egli entra là, e sfida e minaccia il signorotto in sua casa stessa, nella pienezza della sua potenza. – L’Innominato, un uomo di bronzo, consumato di rimorsi, quasi sul punto d’uccidersi, come Faust, trattiene il colpo al sentire lo squillo delle campane; e, alle parole del Cardinale, piange, si converte....

Tra gli orrori e la desolazione della peste, a riscontro de’ laidi e ferocemente grotteschi monatti, che gavazzano sulla pubblica miseria, vedete i frati che si consacrano agli infelici con devozione eroica; e il silenzio sepolcrale della città appestata è rotto soltanto da’ gridi strazianti della processione. Padre Cristoforo, benedetti e ricongiunti i suoi figli spirituali, i due promessi, non abbandona il suo posto, e addita ad essi il cielo, dove solo potranno ormai più rivedersi. – Quale maggiore apoteosi di questa potrebbe darsi?

Scrive il D’Ovidio: «.... E il monastero femminile di Monza? i fini interessati e le arti subdole onde la badessa e le altre monache più faccendiere trascinano la giovane Signora a rendersi monaca, i turpi amori di questa con Egidio, l’assassinio che insieme fanno di quella povera conversa che aveva minacciato di svelarli, il tradimento verso la povera Lucia, non sono, a quanto pare, la glorificazione dei monasteri; e certo niente di più turpe e di più truce ci han raccontato certi Misteri del chiostro ed altri simili libri scritti con le intenzioni più ostili al monachismo. Ma il male è che il Manzoni racconta in modo sereno ed obbiettivo, e non fa prediche; le condanne non le pronunzia, le fa scaturire dai fatti e risultar da sè stesse; i suoi giudizi non li stempera e non li strombazza, bensì li fa lampeggiare da lievi accenni, da motti maliziosi, da ironie finissime. E «le finezze non son fatte per tutti, ecc.» – Tutto bene: noi per altro ci lusinghiamo di aver messo abbastanza sott’occhio che il Manzoni, raccogliendo un fatto storico, ne scevrò, ne avvolse cautamente, la parte più scabrosa e scandalosa; limitò ad una sola, ad un’infelice, la colpa, tuttochè troppe circostanze facessero emergere gravi rivelazioni sulla vita de’ conventi; e i fini interessati e le arti subdole delle monache ridusse a una complicità non necessaria, dove invece la violenza è tutta imputata allo spirito mondano calcolatore e profanatore. Nulla, assolutamente nulla, poi, contro l’istituzione; comunque divenuta, Gertrude poteva essere una monaca santa e contenta; non stava che a lei di render dolce e soave il giogo, che volle scuotere. – Quando, del resto, dopo gli inizî della colpa, Manzoni abbandona la Monaca, non si può non deplorare che egli, cedendo alle pressioni del suo confessore, siasi risoluto a sopprimere un’altra stupenda pagina. Dagli appunti soli del Ripamonti, con la sua analisi potente, Manzoni avrebbe certo saputo divinare, ricreare in gran parte, ciò che il processo ci ha rivelato: solo che avesse voluto misurare tutto l’abisso della caduta, e toglier dall’ombra le non poche circostanze più gravi e significanti.

«Un giorno osò rivolgerle il discorso. La sciagurata rispose.» Ecco quanto il Manzoni, così diffuso e diligente nel processo analitico delle passioni, dice per spiegare come cominciasse la tresca. In Gertrude non abbiamo neanche traccia d’una forte lotta interiore: non ci si mostra lo sconvolgimento profondo della sua anima, della sua vita.

Manzoni sfiora infatti superficialmente la nuova situazione creatasi in Gertrude che avrebbe meritato non men della prima tutta la profondità della sua analisi: accenna solo alla prima acre contentezza che veniva a riempiere il vuoto di quell’anima, alle novità e ineguaglianze esteriori della sua condotta, tra la maraviglia generale delle monache, che non capiscono nulla in que’ repentini mutamenti; dove s’è visto dal Ripamonti stesso quale invece fosse il disordine e lo scandalo gettato nel convento. E le complici e gli altri delitti?

L’uccisione della conversa è appena misteriosamente adombrata in que’ pochi tocchi, magistrali è vero, ond’egli parla del fantasma pauroso che veniva insistente a picchiare alla fantasia della colpevole.

La Monaca ebbe de’ figli (liberique suscepti): quale più drammatica situazione; ma se ne tace affatto: non uno di quegli accenni potenti nella loro sobrietà, che illuminano, come lampi sinistri, l’immaginazione del lettore.

Eppure, era solo con lo svelare questi terribili legami, che poteva darsi una adeguata giustificazione del delitto, che si fa compiere su Lucia da Gertrude: e il brusco troncamento che scrupoli malaugurati imposero al Manzoni è tutto a scapito della verità artistica. Per giustificare quel voluto tradimento, bisognava analizzare profondamente l’antecedente più prossimo – dello stato di colpa cioè della Monaca, anzichè rimontare ad un passato così remoto, che dopo tutto fa molto perdonare alla sciagurata.

Ma si voleva condannare il secolo, lasciare intatta l’istituzione: e questa sarebbe stata un po’ troppa lesa dalla narrazione piena de’ traviamenti della Monaca, durata per aliquot annos, conjugali licentia, con delle complici, con tre omicidii! Minori difficoltà presentava la prima parte: ed è questa che svolse il Manzoni: appunto perchè meno scabrosa, perchè non faceva che aggiungere un’altra trista nota ad un secolo condannato, e gli offriva campo di ripigliare con altri intenti il motivo svolto ostilmente dal Diderot.

Che, dopo ciò, l’episodio manzoniano possa produrre più forte impressione di certi misteri del chiostro, noi consentiamo facilmente al D’Ovidio; ma siffatti libri, ispirati da turpe speculazione, o da incauto odio partigiano, sono fuori dell’arte e della morale. Non potrà però dirsi altrettanto pel romanzo del Diderot – questa formidabile carica a fondo contro il monachismo; in cui l’intento ostile non ha scemato una straordinaria potenza d’obbiettività artistica.

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