IV.

Vicino al Voltaire, al «Proteo multiforme» come lo chiamò il Panni, vediamo grandeggiare la rude, esuberante personalità del Diderot. Voltaire rappresenta la rivoluzione filosofica nel suo primo stadio; Diderot, nel secondo, e la rappresenta nelle ultime conseguenze, negli ultimi eccessi. Egli apre la seconda epoca del secolo XVIII, quando si passa dal deismo all’ateismo; dalla licenza aristocratica al cinismo plebeo; dall’amore della libertà, dall’insofferenza di gioghi all’odio di qualunque potere; dal libero esame all’abolizione d’ogni principio. «Diderot è uno spirito vasto, ma inconseguente, in contraddizione continua con sè stesso; entusiasta e scettico; uomo di miti costumi ed erompente spesso in gridi selvaggi; capace di virtù, e distruttore d’ogni morale.» Diderot non è meno un generale, che un soldato valoroso; si potrebbe anzi chiamarlo il Briareo dell’Enciclopedia. L’universalità, l’agilità del suo ingegno è senza confronti; ed egli si moltiplicava, profondendo anche per gli amici i tesori della sua penna. Secondo una felice espressione del Taine, il Diderot rassomiglia davvero a un vulcano in eruzione. Per più di quarant’anni egli getta fuori idee d’ogni ordine e d’ogni specie, metalli preziosi e scorie; il torrente della lava riversa a caso, secondo le accidentalità del terreno. Diderot non possiede le sue idee, ma queste possiedono lui; da ciò una violenza irresistibile, una rabbia quasi di logica e di paradossi.

Lo stridente realismo de’ suoi romanzi, la crudezza de’ colori, le oscenità ci rivelano l’uomo uscito dal volgo, che s’abbandona a tutta l’impetuosità della sensazione grossa; a cui non basta d’accennar sorvolando, sorridere del sorriso fine, aristocraticamente licenzioso di Voltaire, ma che vuole addirittura rivoltolarsi nel sudiciume, pur esprimendone il disgusto. Ma per ciò appunto, che abbiam detto esser Diderot posseduto dalle sue idee; per la sua calda sincerità di sentimento, dobbiam riconoscergli adesso una grande superiorità, come artista, sia pure improvvisatore e qualche volta declamatore. Egli si dimentica completamente ne’ personaggi che produce; tra le mani di lui, questi si muovono, vivono, fremono, quando, per esempio, Voltaire dei suoi personaggi fa spesso delle marionette, che tira a piacere e che presenta alla pubblica ilarità. Diderot è un narratore appassionato, che sa trasfonder la sua passione: e alcuni de’ suoi racconti son delle pagine più ardenti della letteratura francese. Le sue critiche d’arte sono impareggiabili spesso, perchè analizza con passione; perchè ridice e comunica tutte le sue impressioni ed emozioni; perchè vi mette tutta la forte impronta della sua personalità.

Ma è dell’autore della Religieuse, che c’incombe parlare. Vedremo or ora le curiose circostanze, a cui si deve questo romanzo; si comprende però già di leggieri che, qualunque l’impulso esteriore, occasionale, entrava troppo bene nello spirito dell’opera filosofica del Diderot, e nel suo temperamento, una «carica a fondo» contro il monachismo – e quindi la prima occasione lo trovava tutto disposto ed armato a battagliare. La filosofia scettica e irreligiosa del secolo XVIII s’era specialmente scagliata contro il monachismo, che proseguiva dell’odio più indomabile, del ridicolo più acre e implacato. Non era più la grassa risata del jongleur, del novelliere: era una deliberata, cosciente demolizione; poichè non si mirava tanto a smascherare l’ipocrisia, la corruzione monastica, a combattere l’ignoranza, l’intolleranza fanatica, quanto a condannare uno stato antinaturale, da cui era inevitabile procedessero tanti vizi e brutture. Per quella formidabile critica negativa, il monachismo appariva solo nella sua ultima degenerazione: disconoscendo ogni importanza storica del sentimento religioso, i filosofi non potevano render giustizia a’ principî della più caratteristica istituzione dell’ascetismo. Essi erano troppo dominati dal presente, per riportarsi con imparzialità nel passato, e giudicarlo senza rovesciarvi le passioni attuali. Non erano, nè potevano esser come noi, che, per rispetto all’obbiettività storica, pur dividendo molti principî di quella critica negativa, constatiamo spassionatamente quanto negli inizi d’ogni istituzione vi fu di vero e di grande e ne spiega lo svolgimento, le fasi; quanto nel fenomeno, tale è tutto per noi, s’includeva di manifestazione ed esplicamento d’un bisogno morale. In ciò s’è nel nostro secolo la critica negativa del secolo scorso sostanzialmente rettificata; e lo spirito scientifico, obbiettivo ha rettificato del pari le apoteosi partigiane della reazione cattolica, che, dopo aver ribattezzato in nome del Nazzareno le conquiste del filosofismo, le teorie umanitarie e democratiche, ripose in venerazione e il detestato medioevo, e il monachismo, infondendovi la parte più sana, più vitale del Cristianesimo.

È in questa ultima corrente d’idee e di sentimenti, che si trovò il Manzoni, più calmo per altro, come abbiam detto, più equanime di tutti gli zelanti restauratori e discopritori del passato; donde maggiore la distanza da lui a Diderot, il più ardente ed acre nella demolizione.

La Religieuse ne è una prova luminosa: vi troviamo infatti abilissimamente condensato tutto lo spirito più ostile ad un’istituzione, di cui il Manzoni ci offre invece un ideale altissimo, malgrado l’eccezione d’un caso puro e semplice, come quello della Monaca.

Una giovane è forzata da’ suoi parenti a rendersi religiosa. Questo fondo è communissimo; ma, lasciando stare il motivo che determina la madre a sacrificare la figlia, ciò che v’ha di originale è l’energia del carattere di questa, è il genere di persecuzioni che subisce, è sopratutto l’idea nuova e filosofica d’aver fondato l’avversione invincibile della monaca per il suo stato, non sull’amore, nè sull’incredulità, nè sulle tendenze a una vita dissipata. Se essa odia il convento, non è perchè una passione glielo rende odioso, è perchè ripugna alla sua ragione; non è perchè sia senza fede, ma perchè va scevra di superstizione; non perchè voglia abbandonarsi a un viver licenzioso, ma perchè non vuol morire nella schiavitù.

Perchè il quadro della vita monastica le si presentasse co’ più foschi colori, la sventurata passa successivamente sotto il dispotismo di cinque badesse: la prima, astuta (che abbiam visto) e raggiratrice; la seconda, entusiasta; la terza, feroce; la quarta, dissoluta; e l’ultima, superstiziosa. Questi ritratti son fatti da vero maestro; e tre specialmente richiamano il nostro sguardo.

Vedete la badessa, a cui la devozione ha intenerito il cuore ed esaltato il cervello. La sua parola è ardente, ispirata; le sue preghiere son atti d’amore. Le suore che ella giudica degne d’una communicazione intima son penetrate dello stesso fervore; essa sa far loro provare il bisogno delle consolazioni interiori e, gustarne le dolcezze; ella le infiamma, piange con loro, trasmette tutte le celesti emozioni onde ha l’anima innebriata. Qualche volta il suo spirito cade affralito, langue, è arido; ella non ha più il dono di commuovere, comprende allora che Dio l’abbandona, Dio recede. Contro questo stato penoso non ha forza di lottare; un turbamento secreto la consuma, la vita le incresce; scongiura l’Essere che adora o di ravvicinarsi a lei nuovamente, o richiamarla con sè. – Chi ha letto qualche pagina di Santa Teresa, di San Francesco di Sales, avrà già notato i diversi tratti che Diderot ha qui riuniti per formare un tipo di mistica esaltata.

Voi fremete poscia al vedere a quali orrori vien sottoposta la monaca per comando d’una badessa, di cui l’anima è feroce, il potere senza limiti, l’immaginazione infernale. Costei vuol punire l’infelice che ha osato ribellarsi, invocando giustizia contro un giuramento strappato dalla violenza. Ebbene, il cilicio dilacera le carni alla vittima; la disciplina ne fa scorrere il sangue; le sue vesti sono de’ miseri cenci; ha il nutrimento del più vile animale, per letto un gelido speco; il sonno le è interrotto da gridi sinistri. È accusata come infame, rigettata dalla Chiesa come sacrilega, esorcizzata come indemoniata. Le compagne le passano sul corpo; si cerca spingerla alla disperazione, al suicidio.

A questa pittura spaventevole succede il ritratto d’una badessa abbandonata alla licenza. Costei ha gettato il disordine nella communità, s’è imposta con tirannia alle vecchie recluse, ha pervertito le giovani; adopera astuzie, forza, lacrime per perdere un’innocente. Il principio, lo svolgimento, le conseguenze della seduzione, l’impetuosità del desiderio, il dolore de’ rifiuti, i furori della gelosia, tutto ciò che uno spirito depravato può aggiungere alla nefandità de’ costumi, è reso con così vivi colori, che davvero una donna non potrebbe gettar gli occhi su questa parte del libro di Diderot. Non è già che vi si ritrovi l’autore grossolanamente osceno de’ Bijoux indiscrets; ma certo, Diderot non ha usato quell’arte squisita, con cui nell’Enciclopedia è riuscito a descrivere, nello stile più smagliante, tutte le delizie della voluttà (art. Jouissance) senza offendere il pudore più ombroso. Si capisce però che nell’odissea della monaca non poteva Diderot, pel fine propostosi, lasciare questa parte scabrosa; per aggravare una mortale condanna sull’istituzione antinaturale, doveva crudamente rappresentare questi pervertimenti patologici. E ne’ tre tipi ora esaminati abbiamo tre casi d’isterismo: che in una si risolve nell’espressione più immediata di sensualità viziata e viziosa; nell’altra si volta in estasi mistica; nell’ultima, in ferocia inquisitoriale – un Torquemada in gonnella. Non contiamo poi la decisa follia, di cui pure occorre l’esempio in una reclusa della Religieuse.

L’eroina di Diderot passa miracolosamente attraverso tutti questi scogli, del vizio, sopratutto, e dell’ascetismo. Questo riesce per poco a far presa sulla sua anima, predisposta da’ tormenti fisici e morali; ma è un momento, è una fugace vibrazione: appena le ali che l’han sollevata tant’alto si ripiegano nella realtà, la povera fanciulla sente tutta la vanità dell’illusione ed allucinazione mistica nella miseria che la riprende. Dopo di che si dovrà, crediamo, convenire che Diderot non si è abbandonato a un cieco odio partigiano, quanto forse può supporsi; ma che invece, con lucidezza mirabile, ha suffragato l’ispirazione tendenziosa del libro con un’idea scientifica e la più viva rappresentazione artistica. Nè si deve creder tutto di fantasia il fosco quadro della vita monastica fatto da Diderot: per quanto vivace, feconda, la sua potenza immaginativa, per quanto lo trascinasse la foga dell’improvvisazione, ci doveva pur essere avanti a lui una realtà che riviveva, animava, trascolorava. Una pittura così minuziosa della vita de’ conventi non poteva non avere un riscontro, un addentellato nella realtà, se non un modello addirittura: e noi sappiam bene che la corruzione generale del secolo XVIII aveva invaso anche i chiostri; con gli inconvenienti in più della reclusione. Lo spirito filosofico poteva ben gettare il discredito sul monachismo, ma bisognava tuttavia che ci fosse una grande giustificazione ne’ fatti. Diamo pur larga parte all’intenzione ostile d’uno scrittore, ma non togliamo quello che spetta al secolo, all’ambiente storico. I Ragionamenti dell’Aretino, così celebri per fama infame da esser divenuti ormai quasi un mito bibliografico, non esprimono solamente la depravazione d’un uomo, ma rispecchiano quella d’un’epoca, E nella prima parte de’ Ragionamenti, dove si racconta la vita delle monache si incontra qualche particolare che ritorna sotto la penna di Diderot.

Checchè sia di tutto ciò, nella Religieuse Diderot, come artista, ha superato sè stesso. La rapidità, con cui sappiamo aver scritto questo romanzo, ce lo spiega. Diderot aveva le qualità de’ suoi difetti: improvvisatore, riusciva a rasentare la perfezione nel darsi completamente all’ala dell’estro. Nulla allora turbava la nettezza delle sue idee, i fantasmi gli si disegnavano chiari e luminosi davanti; ed egli fermava le une e gli altri con tocchi arditi, rapidi. In quel trasalimento d’ogni nervo, d’ogni fibra, in quella vibrazione di tutto il suo essere, Diderot si ascoltava – come direbbe il Musset. – Cioè egli ascoltava piuttosto la monaca, che ha prodotto a fare il racconto delle patite sciagure. È, così, un lungo monologo, ma efficacissimo perchè chi parla lagrima insieme, perchè l’eroina stessa ci fa assistere alla fuga vertiginosa di scene, vedute da lei co’ suoi occhi, ripete a noi e a sè le impressioni ed emozioni provate; e reca ne’ dialoghi, nelle descrizioni tanta verità, ricchezza di particolari, da produrre la più completa illusione. Il Manzoni non si dipartì, nell’episodio della monaca, dalla sua obbiettività di narratore: quindi la disparità enorme, oltrechè intenzionale, artistica tra’ due racconti. Nell’uno l’incandescenza bruciante dello stile, l’onda della passione, la luce cruda diffusa, la simpatia irresistibile; nell’altro, un’incisione anatomica, chiaroscuri ed ombre, una compassione severa.

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