Atto III, sc. 1.ª

ADELCHI.

Siam soli, alfin, diletto Anfrido; io posso

Questo superbo intollerabil giogo

Di finta gioja e di dolor compresso,

Da me cacciarlo alcun momento, e teco

Essere Adelchi. Da quel dì che il padre

Me fanciullo di nobili fanciulli

In lieto coro addusse, ed io ti scersi,

E ti presi per mano, e dalla folla

Senza dubbiar ti trassi, e con te solo

Divider volli il pueril trastullo

(Era l'età di cui sì rade e incerte

Vivono le memorie, eppur quel giorno,

Come l'estremo che passò, m'è sempre

Chiaro dinanzi), da quel dì tu fosti

Dei giuochi miei, dell'armi poi, dei rischi

Solo compagno, e dei piacer. Fratello

Della mia scelta, innanzi a te soltanto

L'anima mia torna sul volto, e tutto

Il suo dolor vi porta, onde tu il veggia,

E lo consoli, o lo compianga almeno.

ANFRIDO.

Dolce Signor, dunque è ben ver che intera

Gioja quaggiù non havvi! Oh! se ad eletta

D'ogni uom fosse il destin, qual è colui

Che or non chiedesse il tuo? Spenta una tanta

Guerra sul cominciar, respinta come

Cupa tempesta che dal monte appare

Tonando, e un vento la ricalca indietro

Pria che sul ciel si stenda; e tu sei quello

Che soffiasti sul Franco e lo sperdesti.

[130]

Tutto il campo il confessa, il tuo gran padre

D'esserlo esulta, ogni Fedel gioisce

Dell'alta gloria che con te divide.

Che più? quei vili, che dannar sè stessi

A non amarti, hanno a temerti appreso

Or più che mai.

ADELCHI.

La gloria, Anfrido! Il mio

Destino è d'agognarla, e di morire

Senza gustarla. Il nome mio del tutto

Non perirà, pur troppo: è questo il tristo

Privilegio dei re; nudo e confuso

Coi volgari vivrà: l'età venture

Di me sapranno ch'io fui re. No: questa

Non è ancor gloria, Anfrido. Or dì, che abbiamo

Fatto finor? Carlo ha levato il campo,

E fuggito, se vuoi; ma baldo ei parte,

Impunito, securo, ed io fremendo

Qui mi rimango: al nappo inebbriante

Della vittoria avvicinato ho il labbro,

E il ritrarlo m'è forza. Ei parte il vile

Offensor d'Ermengarda, ei che giurava

Di spegner la mia casa; ed io non posso

Spingergli addosso il mio destrier, tenerlo,

Dibattermi con esso, e riposarmi

Sull'armi sue! Quanti sarieno i fidi,

Pronti a morir, che seguirian l'insegna

Anco vittrice del lor re? Contarli

Possiamo Anfrido: oh prodi ei son; ma sono

Uno fra dieci traditor, venduti

Allo straniero, e a lui giurati, e in core

Suoi vassalli.

ANFRIDO.

Oh dolor!

ADELCHI.

Tu che al mio fianco

Pugnasti, il sai. L'alto valor dei pochi,

[131]

Che in ogni impresa io mi scegliea compagni,

Con queste mura, questa volta, in queste

Rocche della natura, alla salvezza

Potè bastar d'un regno; in campo aperto,

Solo coi pochi, abbandonato al Franco

M'avrieno i più.

ANFRIDO.

Ma il ciel nol volle; ed ora,

Or che svanito è il nostro rischio, e l'empia

Speranza loro, altro a costor non resta

Ch'esser fidi, o parerlo, e coi servigi

Scontare un van desio.

ADELCHI.

Tu li vedesti

Intorno a me spingersi a gara, in volto

Tutti letizia, e fedeltà. Qual sorte

Esser re di costor! Che faticoso

Cambio d'ossequio e di gradir mentito!

Torni la prova, e torneran festosi

Al tradimento. Entrato è il tradimento

Nell'alme lor per sempre. Altri, di Rachi

Fautori un tempo, nè amistà sincera,

Nè intero obblio speran dai re, che a loro

Malgrado il son. Senza misura ingordi

Di possa altri e d'onor, guardan fremendo

Ciò che ai migliori è dato; e ciò che ad essi

Con misura si dà, stimano offesa

E ricevono odiando: e l'odio ormai

È la lor vita. E correranno in braccio

A un re straniero, ad un nemico, a questo

Carlo astuto, ad ognun, purchè non sia

Desiderio nè Adelchi. I fidi allora

Non potran che morire. Ed ora il padre

Torna ai disegni antichi, e nella fuga

Troppo fidando del nemico, incontro

L'apostolico sire il campo ei vuole

Portar. Qual guerra, e qual nemico, Anfrido!

[132]

A me il comando dell'impresa il padre

Affiderà. Poni che, al novo grido

Del conquiso Adrian, Carlo non torni,

E in altro campo non ci colga. Il poco

Sforzo di Toschi e di Campani, e gli altri

Miseri avanzi del poter Latino

Che il pontefice aduna, e a cui dal tempio,

Sedendo, orando, colla man comanda

Di ferro ignuda, svaniranno incontro

Tutta Longobardia, guidata, ardente,

Concorde, anche fedele, allor che a certa

E facil preda la conduci. Il voto

Di età tante fia pago, e Italia intera

Nostra sarà. Dì, non è questo il mio

Avvenir più ridente? Ebben ruine

Sopra ruine ammucchierem: l'antica

Nostr'arte è questa; nei palagi il foco

Porremo e nei tugurj: uccisi i primi,

I signori del suolo, e quanti a caso

Nell'asce nostre ad inciampar verranno,

Fia servo il resto, e fra costor diviso:

E ai più sleali e più temuti, il meglio

Toccherà della preda. - Oh mi parea,

Pur mi parea che ad altro io fossi nato,

Che ad esser capo di ladron; che il cielo

Su questa terra altro da me volesse

Che, senza rischio e senza onor, guastarla.

- Oh quante volte invidiai cotesto

Carlo che abborro! Ei sovra un popol regna

D'un sol pensier, saldo, gittato in uno

Siccome il ferro del suo brando, e in pugno

Come il brando lo tiensi: egli a difesa

Del debole e del santo almen venia!

Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda

Alte e nobili cose; e guardo, e nulla

[133]

Veggio che al voto del mio cor sia pari,

E alla mia possa a un tempo. E strascinato

Vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura,

Senza meta; e il mio cor s'inaridisce,

Siccome il germe in rio terren, che il vento

Balza di loco in loco.

ANFRIDO.

Alto infelice!

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In un altro abbozzo, codesta scena era tutt'altro. - Essa «è nella tenda d'Arderigo, un Longobardo, e vi hanno parte lui, Faraldo, Guntigi, Ildechi, Leuteri ed altri Duchi, sgomenti della partenza di Carlo con cui s'erano accordati. Ma la lor conversazione va poco oltre: il Manzoni la interrompe e la cancella, e ricomincia la scena, secondo è rimasta. In questa, non appare già in tutto sicura la partenza dei Franchi; ma preparasi; e se parecchie parti del primo getto son ritenute, Adelchi vi appare non diverso, ma più concreto». (Bonghi).

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