ADELCHI.
Siam soli, alfin, diletto Anfrido; io posso
Questo superbo intollerabil giogo
Di finta gioja e di dolor compresso,
Da me cacciarlo alcun momento, e teco
Essere Adelchi. Da quel dì che il padre
Me fanciullo di nobili fanciulli
In lieto coro addusse, ed io ti scersi,
E ti presi per mano, e dalla folla
Senza dubbiar ti trassi, e con te solo
Divider volli il pueril trastullo
(Era l'età di cui sì rade e incerte
Vivono le memorie, eppur quel giorno,
Come l'estremo che passò, m'è sempre
Chiaro dinanzi), da quel dì tu fosti
Dei giuochi miei, dell'armi poi, dei rischi
Solo compagno, e dei piacer. Fratello
Della mia scelta, innanzi a te soltanto
L'anima mia torna sul volto, e tutto
Il suo dolor vi porta, onde tu il veggia,
E lo consoli, o lo compianga almeno.
ANFRIDO.
Dolce Signor, dunque è ben ver che intera
Gioja quaggiù non havvi! Oh! se ad eletta
D'ogni uom fosse il destin, qual è colui
Che or non chiedesse il tuo? Spenta una tanta
Guerra sul cominciar, respinta come
Cupa tempesta che dal monte appare
Tonando, e un vento la ricalca indietro
Pria che sul ciel si stenda; e tu sei quello
Che soffiasti sul Franco e lo sperdesti.
[130]
Tutto il campo il confessa, il tuo gran padre
D'esserlo esulta, ogni Fedel gioisce
Dell'alta gloria che con te divide.
Che più? quei vili, che dannar sè stessi
A non amarti, hanno a temerti appreso
Or più che mai.
ADELCHI.
La gloria, Anfrido! Il mio
Destino è d'agognarla, e di morire
Senza gustarla. Il nome mio del tutto
Non perirà, pur troppo: è questo il tristo
Privilegio dei re; nudo e confuso
Coi volgari vivrà: l'età venture
Di me sapranno ch'io fui re. No: questa
Non è ancor gloria, Anfrido. Or dì, che abbiamo
Fatto finor? Carlo ha levato il campo,
E fuggito, se vuoi; ma baldo ei parte,
Impunito, securo, ed io fremendo
Qui mi rimango: al nappo inebbriante
Della vittoria avvicinato ho il labbro,
E il ritrarlo m'è forza. Ei parte il vile
Offensor d'Ermengarda, ei che giurava
Di spegner la mia casa; ed io non posso
Spingergli addosso il mio destrier, tenerlo,
Dibattermi con esso, e riposarmi
Sull'armi sue! Quanti sarieno i fidi,
Pronti a morir, che seguirian l'insegna
Anco vittrice del lor re? Contarli
Possiamo Anfrido: oh prodi ei son; ma sono
Uno fra dieci traditor, venduti
Allo straniero, e a lui giurati, e in core
Suoi vassalli.
ANFRIDO.
Oh dolor!
ADELCHI.
Tu che al mio fianco
Pugnasti, il sai. L'alto valor dei pochi,
[131]
Che in ogni impresa io mi scegliea compagni,
Con queste mura, questa volta, in queste
Rocche della natura, alla salvezza
Potè bastar d'un regno; in campo aperto,
Solo coi pochi, abbandonato al Franco
M'avrieno i più.
ANFRIDO.
Ma il ciel nol volle; ed ora,
Or che svanito è il nostro rischio, e l'empia
Speranza loro, altro a costor non resta
Ch'esser fidi, o parerlo, e coi servigi
Scontare un van desio.
ADELCHI.
Tu li vedesti
Intorno a me spingersi a gara, in volto
Tutti letizia, e fedeltà. Qual sorte
Esser re di costor! Che faticoso
Cambio d'ossequio e di gradir mentito!
Torni la prova, e torneran festosi
Al tradimento. Entrato è il tradimento
Nell'alme lor per sempre. Altri, di Rachi
Fautori un tempo, nè amistà sincera,
Nè intero obblio speran dai re, che a loro
Malgrado il son. Senza misura ingordi
Di possa altri e d'onor, guardan fremendo
Ciò che ai migliori è dato; e ciò che ad essi
Con misura si dà, stimano offesa
E ricevono odiando: e l'odio ormai
È la lor vita. E correranno in braccio
A un re straniero, ad un nemico, a questo
Carlo astuto, ad ognun, purchè non sia
Desiderio nè Adelchi. I fidi allora
Non potran che morire. Ed ora il padre
Torna ai disegni antichi, e nella fuga
Troppo fidando del nemico, incontro
L'apostolico sire il campo ei vuole
Portar. Qual guerra, e qual nemico, Anfrido!
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A me il comando dell'impresa il padre
Affiderà. Poni che, al novo grido
Del conquiso Adrian, Carlo non torni,
E in altro campo non ci colga. Il poco
Sforzo di Toschi e di Campani, e gli altri
Miseri avanzi del poter Latino
Che il pontefice aduna, e a cui dal tempio,
Sedendo, orando, colla man comanda
Di ferro ignuda, svaniranno incontro
Tutta Longobardia, guidata, ardente,
Concorde, anche fedele, allor che a certa
E facil preda la conduci. Il voto
Di età tante fia pago, e Italia intera
Nostra sarà. Dì, non è questo il mio
Avvenir più ridente? Ebben ruine
Sopra ruine ammucchierem: l'antica
Nostr'arte è questa; nei palagi il foco
Porremo e nei tugurj: uccisi i primi,
I signori del suolo, e quanti a caso
Nell'asce nostre ad inciampar verranno,
Fia servo il resto, e fra costor diviso:
E ai più sleali e più temuti, il meglio
Toccherà della preda. - Oh mi parea,
Pur mi parea che ad altro io fossi nato,
Che ad esser capo di ladron; che il cielo
Su questa terra altro da me volesse
Che, senza rischio e senza onor, guastarla.
- Oh quante volte invidiai cotesto
Carlo che abborro! Ei sovra un popol regna
D'un sol pensier, saldo, gittato in uno
Siccome il ferro del suo brando, e in pugno
Come il brando lo tiensi: egli a difesa
Del debole e del santo almen venia!
Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda
Alte e nobili cose; e guardo, e nulla
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Veggio che al voto del mio cor sia pari,
E alla mia possa a un tempo. E strascinato
Vo per la via ch'io non mi scelsi, oscura,
Senza meta; e il mio cor s'inaridisce,
Siccome il germe in rio terren, che il vento
Balza di loco in loco.
ANFRIDO.
Alto infelice!
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In un altro abbozzo, codesta scena era tutt'altro. - Essa «è nella tenda d'Arderigo, un Longobardo, e vi hanno parte lui, Faraldo, Guntigi, Ildechi, Leuteri ed altri Duchi, sgomenti della partenza di Carlo con cui s'erano accordati. Ma la lor conversazione va poco oltre: il Manzoni la interrompe e la cancella, e ricomincia la scena, secondo è rimasta. In questa, non appare già in tutto sicura la partenza dei Franchi; ma preparasi; e se parecchie parti del primo getto son ritenute, Adelchi vi appare non diverso, ma più concreto». (Bonghi).