Atto V, sc. 1.ª

La scena è la sala del Palazzo Reale in Pavia; e le persone: Desiderio, Adelchi, Guntigi. - Il Manzoni cancellò poi tutto, e scrisse in calce all'ultima pagina: «Scartar tutto, e rifar l'atto in modo più conforme alla storia».

ADELCHI.

No, mio Guntigi; senza te non debbe

Deliberarsi questo affar: rimani.

GUNTIGI.

O re, concedi che al mio posto io torni.

Tutto che fia qui statuito, io tosto,

Presente o assente, eseguirò.

[134]

ADELCHI.

Guntigi,

Caro io t'ebbi mai sempre; ed or tel dico

Perchè nei giorni di splendor tel dissi,

Nè vo' che nuovi affetti, o più cortese

Parlar, m'insegni la sventura. Io t'ebbi

Caro mai sempre; ma dal dì che tutto,

Noi seguendo, perdesti, o, come spero,

Tutto per un momento, in preda a quello

Ch'io dir non voglio vincitor, lasciasti,

Tu mi sei sacro da quel dì. Supremo

È il momento, o Guntigi: in sull'angusto

Limite, che la morte dalla vita

Parte, la somma delle cose è posta.

Ed il consiglio, che a salvarla io reco,

Importa a te non men che ai regi: e cessi

Il Ciel, quand'anche senza rischio io il possa,

Ch'io mai di te senza di te decida.

Quel che a te dico, a questi prodi il dico.

(GUNTIGI siede con gli altri).

DESIDERIO.

Fedeli, o voi degni del nome, udite

Ciò che Adelchi propon. Nei detti suoi

È la vita: il credete ad un che tardi

È saggio, e il sangue del suo cor daria

Per non averli un dì negletti.

ADELCHI.

Amici,

Un fin s'appressa, un grande evento omai

Sovrasta inevitabile: o subirlo

Qual ch'ei pur sia, qual ch'ei pur venga, o farlo;

Questa è la scelta che ci resta. E tanti

Giorni di stento terminar dovranno

A un giorno di vergogna? e fia che il campo

Resti alla frode e alla viltà, giurate

Contro la fede ed il valor? nè questa

[135]

Dura, viril costanza avrà giovato

Fuor che a perir più lentamente? e tutto,

Tutto, in un punto perirà: la sede

Del regno, e regno, e gloria, e quella ancora

Che a voi per queste disperate estreme

Prove si dà? Chè il mondo oblìa le prove

A cui l'evento non risponde, e cerca

L'aspetto sol del vincitore, e sempre

Cerca la tomba di colui che vinse.

No, no; siamo all'estremo, è ver; ma spesso,

Solo al confine del perir, si schiude

Il sentier che diverge alla salute.

E allor che nulla dai consigli usati

Si spera, esausti indarno, e tutti, appare

L'inaudito che salva. I padri nostri

Ne fêr la prova in un gran punto, al tempo

Ch'erranti ancor, popolo armato, un suolo

Ivan cercando ove configger l'aste

Vincitrici, e regnar. Certo, vi debbe

Risovvenir che, in lieti giorni, spesso

Ai banchetti del padre il sapiente

Varnefrido il narrava. A terre ignote

Quei securi veniano, ed a nemici

Di cui la possa non sapean nè il nome.

Uno abbattuto o dissipato, un altro

Su lor via si poneva: ei lo sgombravano,

E proseguian. Giunti in Mauringa alfine,

Estenuati di vittorie, - e un passo

Nè quinci dar non si potea nè quindi,

Senza vincere ancor, - fêr sosta, e in tristo

Parlamento s'uniro. Un saggio ardito

Sorse in mezzo, e parlò: «Donde il periglio?

Donde il timor? dall'esser pochi? Ebbene

Cresciamo: è in noi. Vólgo di servi, a noi

Pari in vigor, maggior di folla, dietro

Ci trasciniam, peso e periglio: a tutti

Diam franchigia: le frecce in quelle mani

Poniam, nomiamli combattenti: il nome

[136]

Fa l'uom». Gloria a colui che l'alto avviso

Schiuse, alla gente che il credette, e n'ebbe

Tre secoli di vita: e più se in noi

Non la lasciam finir, se a quel degli avi

Il nostro cor, come il periglio, è pari.

Sì, quel ch'ei disse, io dico a voi: - Siam pochi;

Il tradimento ed il valor ci han scemi

Del par. Bella, ma breve è la tenzone

Del valor contro il numero. Cresciamo:

Come i padri il possiam. Questi Romani,

Che stanno inerti e malvolenti il nostro

Sterminio ad aspettar, sotto le insegne

Chiamiam, nomiamli combattenti: il furo;

Il saranno. In Pavia quante abbiam noi

Vuote armature, e petti inermi! in opra

Poniamo entrambi, e n'usciran guerrieri.

Sì, Longobardi, io il credo: ancor si puote

Rivolgere il destin, dal nostro capo

Il periglio gittar sovra colui

Che ne stringe, evocar da questa avversa

Terra che ci abbandona, a mille a mille,

Nemici a Carlo, amici a noi. Si gridi

Una legge, e sia questa: - Ogni Romano,

Che in nostro ajuto sorgerà, divenga

Come un di noi: sia suo; libero segga

Nel suo terren, nudra un cavallo, assista

Ai consigli del popolo. - Fratelli!

Lo scampo è qui donde processe il danno.

Perchè, non c'inganniam, l'odio che a noi

Portan questi Latini, unica e cara

Eredità dei padri loro, a Carlo

Spianò le vie; la terra ov'ei ci assalse,

Gli era alleata da gran tempo: e il core

S'addoppia all'uom che in fido suol combatte.

Certo, oh vergogna! non mancâr fra i nostri

I traditor; sì, ma non è tradito

Se non colui che, disarmato, infermo,

Presta un fianco al pugnal; quegli è tradito

[137]

Che dee perir: tutto è leale al forte.

Ma badate, o compagni: il suo vantaggio

Carlo gettò, lasciollo a noi, se noi

Core abbiam di pigliarlo. Ei della nostra

Gente la feccia, i traditori, accolse,

Gli chiamò suoi Fedeli, e nell'antico

Poter gli raffermò; così la vana,

Incerta speme del Latin, derise,

Che non sentì da quella mano il giogo

Alleggerito, anzi nè pur mutato.

Quindi l'amor cessò. Che fia se quello

Che invan da lui sperossi, e più, da noi

Si promette e si dà? L'odio è per lui,

La speranza è per noi: sospetto a Carlo

Ogni Latin diventa: ei dee guardarsi

Per ogni parte. Le città, che i fidi

Tengono ancora, apron le porte ad ogni

Latin che aspira al nobil premio: a noi

Crescon le forze, a dissipar le sue

Carlo è costretto. E se Pavia non puote

Regger più a lungo, se di qui respinto

Non è il Franco da noi, securi almeno

Potrem di mano uscirgli. Ovunque andiamo,

Sempre amici troviam: viva, inestinta

Vien la guerra con noi. Si vive: il nostro

Fido alleato è il tempo: a noi rapirlo

Carlo s'affanna, perchè il teme. Egli arde

Di terminar: mentre ei minaccia un regno,

Chi guarda il suo? senza nemici è forse?

E d'offesa bramosi e di vendetta,

Gli stan da un lato il Sassone, dall'altra

Il Saracino, e l'Aquitan nel seno:

Sorga un di questi, e noi siam salvi. Ad una

Voce gridiam la legge....

GUNTIGI. (s'alza precipitosamente)

O regi, il sangue,

Il riposo, l'aver, ciò che da noi

Dar si potea, si diè: quel che or ci chiedi....

[138]

ADELCHI.

Ebben?

GUNTIGI.

Nostro non è: l'onore e il dritto,

Non pur di noi, ma d'una gente, è questo:

Noi di serbarlo abbiam l'incarco i primi;

Di gettarlo, nessun. Carlo, il nemico

Di questa gente, nol tentò. S'accorse

Ei che men dura e temeraria impresa

Saria spegnere un popolo, che farlo

Discender tutto in una volta. E ai fidi,

Che già tanto soffrir, noi proporremo

Ciò che a' trasfughi Carlo.....?

VERMONDO.

È un suo creato

Che parla qui? L'empia sua mente al certo

Mi suona in questi detti. E l'afforzarsi

Dunque il chiami discendere? non sai

Che il primo dritto è non perir? Tu parli

D'onor, siccome qui contesa or fosse

Di chi preceda in una festa: oh! schivo

Davver sei tu! Quel che già parve agli avi

Senno, è disnor per te; ma, dall'inganno

Più che dall'arme affranti, il regno in mano

Al nemico lasciar, questo fia dritto

E onor?

GUNTIGI.

Ben festi tu, che re non sei,

Di favellar così. Qual ti s'addice,

E non temprata da rispetti, intera

La risposta sarà. Sappi che, pria

Che ad un Romano io di fratello il nome

Dia, ch'io gli segga in parlamento al fianco,

Scelgo morir per la sua man. Non sai

Che Longobardo io nacqui? E se t'avvisi

Che solo io il sia, guàrdati intorno, s'altre

[139]

Guance non vedi, ove un rossor di sdegno

Questa proposta fe' salir.

ADELCHI.

Guntigi,

Frustrar con ciance un gran disegno, il puote

L'ultimo dei mortali: ella è una trista

Parte; e l'hai scelta. Ma non basta: all'orlo

Della ruina, un che s'oppone ai mezzi

Della salute, e nulla reca, e intero

Lascia il periglio, è un traditor; la morte

Ei dello Stato agogna.

GUNTIGI.

Il re, compagni,

Vuol che io proponga, e lo farò: m'intenda

Cui tocca. Ai figli tramandar l'impero

Di questa vinta terra, e della vinta

Razza che la ricopre, uno, supremo,

Qual dai padri a noi venne, è questo il fine

D'ogni leal, d'ogn'uomo a cui le vene

Corrono sangue longobardo: è questa

La pubblica salute; a questa opporsi

Tradimento saria. Tutto che ad essa

Conduca, io tutto, e non io solo, approvo.

Se v'ha chi puote, ogni privato affetto

Dimenticando, ogni util suo mettendo

Dietro le spalle, procurarla, e torne

Gl'impedimenti, ei, se la patria pone

Dinanzi a sè, se d'alto cor si sente,

Vi si risolva.

DESIDERIO.

Chi ti fe', Guntigi,

Duca d'Ivrea?

GUNTIGI.

Tu, re, perch'io su quella

Terra, quant'era in me, serbassi eterna

[140]

La signoria del popol nostro; come

Io re t'elessi, e t'anteposi all'alto

Emulo tuo, perchè tu fossi il primo

Tutor dei nostri dritti: e il nostro antico

Regno tenessi a quell'altezza almeno

Ove il trovasti.

ADELCHI.

Astuto ardimentoso,

Taci; il tuo re non lo comanda, il figlio

Di Desiderio il vuol. Tu speri, il veggio,

Farci obbliar perchè siam qui: tu temi

Che un partito si pigli; ed a stornarlo,

Più certa via, come più vil, non v'era

Che oltraggiar quest'antico, innanzi a cui

Qui, dappertutto, e sempre, il guardo a terra

Io tener ti farò. Ma infruttuosa

Ancor quest'arte ti sarà: non voglio

La tua risposta. - A voi favello, o prodi.

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