La scena è la sala del Palazzo Reale in Pavia; e le persone: Desiderio, Adelchi, Guntigi. - Il Manzoni cancellò poi tutto, e scrisse in calce all'ultima pagina: «Scartar tutto, e rifar l'atto in modo più conforme alla storia».
ADELCHI.
No, mio Guntigi; senza te non debbe
Deliberarsi questo affar: rimani.
GUNTIGI.
O re, concedi che al mio posto io torni.
Tutto che fia qui statuito, io tosto,
Presente o assente, eseguirò.
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ADELCHI.
Guntigi,
Caro io t'ebbi mai sempre; ed or tel dico
Perchè nei giorni di splendor tel dissi,
Nè vo' che nuovi affetti, o più cortese
Parlar, m'insegni la sventura. Io t'ebbi
Caro mai sempre; ma dal dì che tutto,
Noi seguendo, perdesti, o, come spero,
Tutto per un momento, in preda a quello
Ch'io dir non voglio vincitor, lasciasti,
Tu mi sei sacro da quel dì. Supremo
È il momento, o Guntigi: in sull'angusto
Limite, che la morte dalla vita
Parte, la somma delle cose è posta.
Ed il consiglio, che a salvarla io reco,
Importa a te non men che ai regi: e cessi
Il Ciel, quand'anche senza rischio io il possa,
Ch'io mai di te senza di te decida.
Quel che a te dico, a questi prodi il dico.
(GUNTIGI siede con gli altri).
DESIDERIO.
Fedeli, o voi degni del nome, udite
Ciò che Adelchi propon. Nei detti suoi
È la vita: il credete ad un che tardi
È saggio, e il sangue del suo cor daria
Per non averli un dì negletti.
ADELCHI.
Amici,
Un fin s'appressa, un grande evento omai
Sovrasta inevitabile: o subirlo
Qual ch'ei pur sia, qual ch'ei pur venga, o farlo;
Questa è la scelta che ci resta. E tanti
Giorni di stento terminar dovranno
A un giorno di vergogna? e fia che il campo
Resti alla frode e alla viltà, giurate
Contro la fede ed il valor? nè questa
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Dura, viril costanza avrà giovato
Fuor che a perir più lentamente? e tutto,
Tutto, in un punto perirà: la sede
Del regno, e regno, e gloria, e quella ancora
Che a voi per queste disperate estreme
Prove si dà? Chè il mondo oblìa le prove
A cui l'evento non risponde, e cerca
L'aspetto sol del vincitore, e sempre
Cerca la tomba di colui che vinse.
No, no; siamo all'estremo, è ver; ma spesso,
Solo al confine del perir, si schiude
Il sentier che diverge alla salute.
E allor che nulla dai consigli usati
Si spera, esausti indarno, e tutti, appare
L'inaudito che salva. I padri nostri
Ne fêr la prova in un gran punto, al tempo
Ch'erranti ancor, popolo armato, un suolo
Ivan cercando ove configger l'aste
Vincitrici, e regnar. Certo, vi debbe
Risovvenir che, in lieti giorni, spesso
Ai banchetti del padre il sapiente
Varnefrido il narrava. A terre ignote
Quei securi veniano, ed a nemici
Di cui la possa non sapean nè il nome.
Uno abbattuto o dissipato, un altro
Su lor via si poneva: ei lo sgombravano,
E proseguian. Giunti in Mauringa alfine,
Estenuati di vittorie, - e un passo
Nè quinci dar non si potea nè quindi,
Senza vincere ancor, - fêr sosta, e in tristo
Parlamento s'uniro. Un saggio ardito
Sorse in mezzo, e parlò: «Donde il periglio?
Donde il timor? dall'esser pochi? Ebbene
Cresciamo: è in noi. Vólgo di servi, a noi
Pari in vigor, maggior di folla, dietro
Ci trasciniam, peso e periglio: a tutti
Diam franchigia: le frecce in quelle mani
Poniam, nomiamli combattenti: il nome
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Fa l'uom». Gloria a colui che l'alto avviso
Schiuse, alla gente che il credette, e n'ebbe
Tre secoli di vita: e più se in noi
Non la lasciam finir, se a quel degli avi
Il nostro cor, come il periglio, è pari.
Sì, quel ch'ei disse, io dico a voi: - Siam pochi;
Il tradimento ed il valor ci han scemi
Del par. Bella, ma breve è la tenzone
Del valor contro il numero. Cresciamo:
Come i padri il possiam. Questi Romani,
Che stanno inerti e malvolenti il nostro
Sterminio ad aspettar, sotto le insegne
Chiamiam, nomiamli combattenti: il furo;
Il saranno. In Pavia quante abbiam noi
Vuote armature, e petti inermi! in opra
Poniamo entrambi, e n'usciran guerrieri.
Sì, Longobardi, io il credo: ancor si puote
Rivolgere il destin, dal nostro capo
Il periglio gittar sovra colui
Che ne stringe, evocar da questa avversa
Terra che ci abbandona, a mille a mille,
Nemici a Carlo, amici a noi. Si gridi
Una legge, e sia questa: - Ogni Romano,
Che in nostro ajuto sorgerà, divenga
Come un di noi: sia suo; libero segga
Nel suo terren, nudra un cavallo, assista
Ai consigli del popolo. - Fratelli!
Lo scampo è qui donde processe il danno.
Perchè, non c'inganniam, l'odio che a noi
Portan questi Latini, unica e cara
Eredità dei padri loro, a Carlo
Spianò le vie; la terra ov'ei ci assalse,
Gli era alleata da gran tempo: e il core
S'addoppia all'uom che in fido suol combatte.
Certo, oh vergogna! non mancâr fra i nostri
I traditor; sì, ma non è tradito
Se non colui che, disarmato, infermo,
Presta un fianco al pugnal; quegli è tradito
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Che dee perir: tutto è leale al forte.
Ma badate, o compagni: il suo vantaggio
Carlo gettò, lasciollo a noi, se noi
Core abbiam di pigliarlo. Ei della nostra
Gente la feccia, i traditori, accolse,
Gli chiamò suoi Fedeli, e nell'antico
Poter gli raffermò; così la vana,
Incerta speme del Latin, derise,
Che non sentì da quella mano il giogo
Alleggerito, anzi nè pur mutato.
Quindi l'amor cessò. Che fia se quello
Che invan da lui sperossi, e più, da noi
Si promette e si dà? L'odio è per lui,
La speranza è per noi: sospetto a Carlo
Ogni Latin diventa: ei dee guardarsi
Per ogni parte. Le città, che i fidi
Tengono ancora, apron le porte ad ogni
Latin che aspira al nobil premio: a noi
Crescon le forze, a dissipar le sue
Carlo è costretto. E se Pavia non puote
Regger più a lungo, se di qui respinto
Non è il Franco da noi, securi almeno
Potrem di mano uscirgli. Ovunque andiamo,
Sempre amici troviam: viva, inestinta
Vien la guerra con noi. Si vive: il nostro
Fido alleato è il tempo: a noi rapirlo
Carlo s'affanna, perchè il teme. Egli arde
Di terminar: mentre ei minaccia un regno,
Chi guarda il suo? senza nemici è forse?
E d'offesa bramosi e di vendetta,
Gli stan da un lato il Sassone, dall'altra
Il Saracino, e l'Aquitan nel seno:
Sorga un di questi, e noi siam salvi. Ad una
Voce gridiam la legge....
GUNTIGI. (s'alza precipitosamente)
O regi, il sangue,
Il riposo, l'aver, ciò che da noi
Dar si potea, si diè: quel che or ci chiedi....
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ADELCHI.
Ebben?
GUNTIGI.
Nostro non è: l'onore e il dritto,
Non pur di noi, ma d'una gente, è questo:
Noi di serbarlo abbiam l'incarco i primi;
Di gettarlo, nessun. Carlo, il nemico
Di questa gente, nol tentò. S'accorse
Ei che men dura e temeraria impresa
Saria spegnere un popolo, che farlo
Discender tutto in una volta. E ai fidi,
Che già tanto soffrir, noi proporremo
Ciò che a' trasfughi Carlo.....?
VERMONDO.
È un suo creato
Che parla qui? L'empia sua mente al certo
Mi suona in questi detti. E l'afforzarsi
Dunque il chiami discendere? non sai
Che il primo dritto è non perir? Tu parli
D'onor, siccome qui contesa or fosse
Di chi preceda in una festa: oh! schivo
Davver sei tu! Quel che già parve agli avi
Senno, è disnor per te; ma, dall'inganno
Più che dall'arme affranti, il regno in mano
Al nemico lasciar, questo fia dritto
E onor?
GUNTIGI.
Ben festi tu, che re non sei,
Di favellar così. Qual ti s'addice,
E non temprata da rispetti, intera
La risposta sarà. Sappi che, pria
Che ad un Romano io di fratello il nome
Dia, ch'io gli segga in parlamento al fianco,
Scelgo morir per la sua man. Non sai
Che Longobardo io nacqui? E se t'avvisi
Che solo io il sia, guàrdati intorno, s'altre
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Guance non vedi, ove un rossor di sdegno
Questa proposta fe' salir.
ADELCHI.
Guntigi,
Frustrar con ciance un gran disegno, il puote
L'ultimo dei mortali: ella è una trista
Parte; e l'hai scelta. Ma non basta: all'orlo
Della ruina, un che s'oppone ai mezzi
Della salute, e nulla reca, e intero
Lascia il periglio, è un traditor; la morte
Ei dello Stato agogna.
GUNTIGI.
Il re, compagni,
Vuol che io proponga, e lo farò: m'intenda
Cui tocca. Ai figli tramandar l'impero
Di questa vinta terra, e della vinta
Razza che la ricopre, uno, supremo,
Qual dai padri a noi venne, è questo il fine
D'ogni leal, d'ogn'uomo a cui le vene
Corrono sangue longobardo: è questa
La pubblica salute; a questa opporsi
Tradimento saria. Tutto che ad essa
Conduca, io tutto, e non io solo, approvo.
Se v'ha chi puote, ogni privato affetto
Dimenticando, ogni util suo mettendo
Dietro le spalle, procurarla, e torne
Gl'impedimenti, ei, se la patria pone
Dinanzi a sè, se d'alto cor si sente,
Vi si risolva.
DESIDERIO.
Chi ti fe', Guntigi,
Duca d'Ivrea?
GUNTIGI.
Tu, re, perch'io su quella
Terra, quant'era in me, serbassi eterna
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La signoria del popol nostro; come
Io re t'elessi, e t'anteposi all'alto
Emulo tuo, perchè tu fossi il primo
Tutor dei nostri dritti: e il nostro antico
Regno tenessi a quell'altezza almeno
Ove il trovasti.
ADELCHI.
Astuto ardimentoso,
Taci; il tuo re non lo comanda, il figlio
Di Desiderio il vuol. Tu speri, il veggio,
Farci obbliar perchè siam qui: tu temi
Che un partito si pigli; ed a stornarlo,
Più certa via, come più vil, non v'era
Che oltraggiar quest'antico, innanzi a cui
Qui, dappertutto, e sempre, il guardo a terra
Io tener ti farò. Ma infruttuosa
Ancor quest'arte ti sarà: non voglio
La tua risposta. - A voi favello, o prodi.