SCENA III.

[corrispondente alla sc. I della stampa].

Entra il DOGE seguito dai Senatori, MARCO si frammischia a questi.

STEFANO.

(a MARINO)

Come giovane ei parla.

MARINO.

E chi nol vede?

(siede il DOGE , e dopo lui tutti i Senatori).

IL DOGE.

Nobil'uomini, in pria che il parer mio

Io proponga al Consiglio, io deggio un grave,

Crudo, recente avvenimento esporvi.

I più di voi già l'han fremendo inteso;

Quei che ora in pria dal labbro mio l'udranno,

Con raccapriccio l'udiran. La vita

Fu insidiata al Carmagnola: in ceppi

È il sicario; e non nega il suo delitto.

Mandato egli era; e quei che a noi mandollo,

Ei l'ha nomato: ed è.... quel Duca istesso

Di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora

A chieder pace, a cui più nulla preme

Che la nostra amistà: tale arra intanto

Ei ci dà della sua! Taccio la vile

Perfidia della trama, e la tentata

Vïolazion di questa terra, e l'onta

Che in un nostro soldato a noi vien fatta.

Due sole cose avverto: assai fanno esse

[273]

Al proposito nostro. Egli odia adunque

Veracemente il Conte: ella è fra loro

Chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto

Tra lor d'eterna inimicizia un patto.

L'odia e lo teme. Ei sa che il può dal trono

Quella mano sbalzar che in trono il tenne.

A chi incerto parea l'animo avverso

Ver noi del Duca, si diè cura ei stesso

Di tôrre ogni dubbiezza: io di cotesta

Novella prova non avea bisogno;

E l'avviso ch'io son per proferire,

Fermo in mente l'avea pria che scoperto

Fosse un tal fatto. Udiste, o Senatori,

Nell'ultimo consiglio il Fiorentino

Che ci richiede di soccorso; udiste

L'ambasciator del Duca, il qual domanda

Che la pace con esso si mantenga.

Ecco il mio avviso, apertamente il dico:

Firenze è da soccorrersi; comune

Con essa e il rischio e le speranze abbiamo.

Per qual dei due stia il giusto, ognun di voi

Chiaro sel vede: non è forse il Duca

Che ruppe i patti della tregua? Il riso

Move e lo sdegno udirlo al suo nemico

Rimproverar la vïolata fede,

E protestar che l'armi in man null'altro

Che una giusta difesa gli ponea:

Come se veramente egli potesse

Di Firenze temer; come se al forte

Ingiusta guerra si movesse, e fosse

Il debol quei che infrange i patti, e ascoso

Fosse ad alcun ch'ei sol ruppe gli accordi,

Il Panare e la Magra oltrepassando.

Ma il principio obbliam di questa guerra:

Il processo vediamne. In gran periglio

Stassi Firenze, e tal che, s'ella è sola,

Non può far che non caggia. E s'ella cade,

Siam fermi noi? Che vuole altro costui,

[274]

Fuor che i liberi Stati divorarsi

Ad uno ad uno? E un tal disegno omai

Fa più spavento che stupor. Tant'alto

Salir dal nulla nol vedemmo noi?

Frale arboscello in fra gli sterpi ascoso,

Tacitamente egli nascea: sterparlo,

Anco il più oscuro passeggier potea;

Or le radici ha messe, or larghi spande

Nell'aria i rami, e, soverchiando ogni altro,

Si fa veder da lunge, e tanta parte

D'Italia aduggia. Ha sol tre lustri, ed uomo

Non obbediva a cui soggette or sono

Venti città. Chi gliele diede in mano?

La virtù pria del Carmagnola, e poscia

Un'arte sola: essa fu ognor la sua:

Con un solo aver guerra, e gli altri intanto

Addormentar con ciance. Anco a Firenze,

Come a noi fa, chiese la pace un giorno;

Supplicando la chiese, e di promesse

Men liberal non sarà stato, io credo,

Che a noi non è; l'ebbe: e che fece intanto?

Genova in pria sorprese. E qui mi giovi

Rammemorarvi con che ardenti preghi

Quell'afflitta città dai Fiorentini

Implorasse l'aiuto; invan: l'ignaro

Mormorar della plebe, e una meschina

Cupidigia, coi suoi corti disegni

Di tôr Livorno ai più fiaccati amici,

Fecer più forse del periglio, certo

Ma lontano. E Firenze, sorda ai preghi

D'una libera gente, e non pensando

Ch'essa ben presto anco pregar dovria,

Col suo provato e natural nemico

Fermò la pace; ond'or si morde il dito.

Parma quindi fè sua, Bergamo quindi,

[275]

Quindi Cremona e Brescia; e finalmente,

Contro i patti, Forlì. Conobbe il fallo

Firenze allora; ma che pro? Quel fallo

Fatto avea forte il suo nemico; e quegli

Ch'essa non volle aver con sè, contr'essa

Or forzati combattono. L'amara

Prova ch'essa ne fece, a noi sia scuola.

Odo altri dir: che giunga a tanto estremo

La Repubblica nostra esser non puote;

Troppo ella è forte. E perchè è tal? perch'ella

Sempre guardossi, e non sofferse mai

Che i suoi nemici diventasser forti.

La pace or vuol sinceramente il Duca.

Io 'l credo, o Senatori; e la ragione

È che il momento della guerra ei vuole

Sceglierlo ei solo, e non è questo il suo:

Il nostro egli è, se non ci falla il senno

Nè l'animo. Ei ci vuole ad uno ad uno:

Andiamo tutti insieme. Il nostro assenso,

Per pigliar l'armi a un punto, Italia aspetta

Pressochè tutta: il Duca di Savoja,

Di Mantova il signor, quel di Ferrara,

E Alfonso re. Si dirà mai che questi

Stringer lega volean contro un tiranno,

E Venezia vi pose impedimento?

Pur se la pace anco possibil fosse,

Io tacerei; benchè onorata pace

Quella non sia, per cui libero Stato

Di tal Signor si lasci in fra gli artigli.

Ma questa guerra ritardar ben puossi,

Non evitare: o farla or noi volenti,

O attender ch'egli a noi la faccia quando

Firenze sarà sua. Fate voi stima

Manchino allor pretesti a sì discreto

E verecondo vincitor? ma forse

Non ne ha già messi in campo? Egli al Gonzaga

Ridimandò Peschiera, e pur sapea

Che di nostra amistade all'ombra ei vive.

[276]

E che motivo addusse? Aver su quella

Terra ragion, chè un dì la tenne il Padre,

E per retaggio è sua. Pensa egli adunque

Che quel che a' suoi diede la guerra, a lui

Tôr la guerra non possa e darlo ad altri?

Che tutto quel che in sua maggior possanza

Avea Gian Galeazzo, ei tosto o tardi

Riaver deggia? Ricordiamci in tempo

Che anco Verona, anco Vicenza egli ebbe,

Anco Belluno e Feltre; e pria che ardisca

Ripeterle da noi, pria che il torrente

Roda tanto terren che al nostro arrivi,

Argine li si faccia, in fin che puossi

Ancor per sempre regolargli il letto,

E restringerlo forse; e qualche parte

Del mal rapito a lui rapir. Non lieve

Altra ragione affrettar deve il vostro

Deliberare. Abbiamo a soldo il Conte;

Tra i Capitani, che in Italia or sono

Più rinomati, il primo; eterno al Duca

E capital nemico; e, quel che monta,

Assai d'ogni arte sua, d'ogni sua forza

Perito appieno. Egli che tante volte

Vinse per lui, sa più d'ogni altro come

Vincer si possa: egli saprà la punta

Por della spada al lato, ove più certa

E più mortal fia la ferita. Ei meco

Di ciò sovente e a lungo s'intertenne;

Util mi sembra assai, pria che in Senato

Nulla di questo si risolva, udirlo.

Da me chiamato i vostri cenni attende;

E se il Senato non dissenta, io stimo

Ch'ei s'introduca.

(dopo breve pausa)

S'introduca il Conte.

(Esce un Segretario o Bidello o altro magnariso qualunque, a scelta del capo comico).

[277]

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