SCENA V.

[corrispondente alla sc. III della stampa].

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IL DOGE.

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Non fia per questo che salirlo ancora

Un cauto e franco cavalier non voglia.

MARINO.

Ma in questa leale alma, che chiude

Tante virtù da farne appien securi,

Quella per certo esser non de' sbandita

Che anco nel petto più volgar s'annida:

L'amor de' suoi. Crederem noi ch'ei ci ami

Più del suo sangue, e possa un risoluto

Coral nemico esser di lui che tiensi

E la sua moglie e la sua figlia? d'uno

Che gli puote ogni dì mandar dicendo:

- Pensa ch'è in mano mia farti il più lieto

Marito e padre, o far che tu sia stato

Marito e padre?

IL DOGE.

Egli è fondato e grave

Questo sospetto; e in me pur nacque, e in tutti

Sarà nato, cred'io: pur, se mia mente

Troppo a persuäder non è leggiera,

Ragion dirò per cui sarà da voi

Sgombro, come da me. Spesso del Conte

Io l'animo tentai, se da quel lato

Speme o timor lo ritenesse ancora

Avvinto al Duca; e questo ognor vi scorsi:

Pei cari suoi tema ei non ha. - Filippo,

Ei mi dicea sovente, in ciò diverso

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Da tanti suoi feroci avi, bruttarsi

D'inutil sangue non fu visto mai.

E sparger quello d'innocenti donne,

E strette affini sue, che gli varrebbe?

A farlo infame e obbrobrioso, al segno

In cui non puote un re tenersi in trono

S'ogni uomo in forza ed in valor non passa

Come in perfidia e in crudeltà! Speranza

Di riaverle per accordo, è sogno;

Chè il Duca è tal che non compensa mai

Con beneficj nuovi ingiurie antiche,

Nè mai dal far vendetta altro il ritenne

Che il non poter: quindi a colui che fatto

Gli sia nemico, un sol partito è buono:

Esserlo a morte. - Nè per questo il Conte

Vedovo tiensi; nè ogni speme ei lascia

Di conquistare i suoi, ma in noi la fonda.

Tôrgli tai pegni, collo Stato insieme,

Coll'armi nostre ei si confida; o trarlo

A tale estremo, ch'ei li renda almeno.

Ciò che quindi potea farcel sospetto,

A noi più ligio e più devoto il rende.

MARINO.

Poichè sì certo è di quest'uomo il Doge

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