Se io fossi giunto a provare, com'era mio desiderio, che la regola delle due unità è arbitraria e falsa, e che può quindi essere trascurata, verrei ad avere in un tratto dimostrato ch'ella è nocevole all'arte e che dev'essere trascurata. Poiché ogni legge che non risulti dalla natura stessa dell'arte, che non sia richiesta dalla costituzione del soggetto, altererà necessariamente l'organizzazione del soggetto medesimo. Ma non sarà fuor di proposito il cercare, negli esempj dell'uno e dell'altro genere di comporre, qualche prova di quest'assunto. Si osservi in che diverso modo procedano due scrittori di opposto sistema.
L'uno, scoprendo in un racconto storico di varj avvenimenti un centro principale d'interesse, sente che questi avvenimenti possono formare soggetto di azione drammatica. L'effetto che essa può fare, lo argomenta dall'effetto prodotto in lui dalla contemplazione di quei fatti. Esamina il concetto[403] che gliene è rimasto, e procura di copiarlo, per dir così; e per ciò fare, egli sceglie appunto quelle parti principali che vede averlo formato in lui. Egli imita lo storico nella scelta dei fatti, se lo storico ha colto egli stesso il punto di unità; e al pari di questo, egli tralascia gli eventi estranei all'azione benché uniti di luogo e tempo, e raccoglie in un fascio i lontani, quando sieno congiunti al nodo dell'azione. Perchè il poeta cederebbe il più bel pregio dell'arte sua, se consentisse di porre in un'azione meno cause o meno effetti di uno storico, quando queste non nuocano, ma conducano invece all'unità. Egli vede, per esempio, le cagioni per cui la guerra sostenuta da Bruto, dopo la morte di Cesare, fu inutile al suo scopo. Vede in Plutarco come questi due fatti, benchè disgiunti di tempo e di luogo, si avvicinano all'intelletto che li contempla, e giudica che se nel racconto di Plutarco egli ha sentito questa relazione, potrà farla sentire, e assai più fortemente, in un'opera dove quegli che v'ebbero parte s'introducano a parlare. Appunto come Plutarco ha scritto le Vite di uomini illustri, raccontando di ciascuno di essi quelle cose che tendono a mostrare in lui un carattere, uno scopo ecc., così il poeta drammatico potrà alle volte rappresentare l'intera vita di un uomo, facendo la stessa scelta.
Legge Shakespeare la novella nona della giornata seconda del Decamerone. Alquanti mercatanti italiani, trovandosi in Parigi, parlano delle donne loro: Bernabò Lomellin da Genova esalta la castità della sua, Ambrogiuolo da Piacenza se ne ride, e si vanta di potere, quando il voglia, vincere la virtù di essa; propone una scommessa. Bernabò accetta la disfida. Ambrogiuolo parte per Genova, tenta invano la virtuosa donna; per non essere svergognato, trova modo di dare a Bernabò un segno falso, che persuade a lui d'essere tradito. Egli, credulo e disperato, ordina che si uccida[404] la moglie. Essa è salvata dalla pietà del sicario, fugge, e dopo varj accidenti si trova in luogo dove scopre al marito l'innocenza sua, e confonde lo scellerato vantatore. Shakespeare, dico, leggendo questa novella, sente ciò che di vero, di grande, di commovente, di terribile, si può supporre che personaggi dotati di tale animo, e posti in queste circostanze, ponno aver detto; lo sente, e col sovrumano suo ingegno lo descrive in una tragedia. Ma egli si guarda bene dall'alterare le parti essenziali di questo fatto, perchè da queste appunto nasce la verisimiglianza e la forza della sua azione. Perchè questa si spieghi, è necessario che si rappresenti la parte accaduta in un luogo e quella accaduta in un altro. Egli ritiene adunque Parigi e Genova (o Roma e Londra), come condizioni indispensabili al suo soggetto.
Se il lettore è stanco di questi esempj, salti alcuni fogli, perchè io stimo di doverne, colla maggior brevità possibile, proporre un altro pure di Shakespeare, cavato dalla storia d'Inghilterra; ed è quello su cui è ordito il Riccardo Secondo. Questa tragedia riunisce gli avvenimenti dei due ultimi anni della vita di quel re, e al pari di quasi tutte le altre di quel sommo poeta, segue assai fedelmente la storia. Le bellezze maravigliose che vi splendono per ogni parte, si devono certo al genio maraviglioso di Shakespeare; ma io stimo si possa affermare che il suo sistema drammatico era una condizione essenziale perchè queste bellezze vi potessero stare. Perchè i discorsi fossero sì veri e sì profondi, perchè i caratteri fossero sì scolpiti e sì interessanti, e sì continuati, era necessario che i personaggi fossero posti in quelle circostanze disegnate di tempo, e in quei luoghi diversi in cui la storia ce li ha rappresentati.
Alcuni critici del secolo scorso riponevano il sommo pregio nel vincere le difficoltà, e asserivano che il diletto del lettore nasce dalla contemplazione della virtù del poeta in questa vittoria; ma egli è il vero che, quando la difficoltà[405] viene da una disproporzione tra i mezzi e il fine, il pregio dell'arte sta nello schivarla, come hanno fatto tutti i sommi scrittori.
La lettura del Riccardo è la miglior prova ch'io possa dare di quello che io ho affermato intorno a questa tragedia, onde ad essa con fiducia rimetto il lettore; giacchè io non intendo di qui tutto analizzarlo, che sarebbe lungo e difficile assunto. Mi sembra nulladimeno che, toccandone appena i capi principali, si possa brevemente mettere in evidenza la mia proposizione.
Enrico Bolingbroke, cugino del re Riccardo, accusa di traditore Tommaso Mowbray, e s'impegna in presenza del re di provarlo tale in un duello, secondo l'uso d'allora. Il re, tentato invano di rappattumarli, statuisce il campo e il giorno. Giunto questo e mentre i due rivali stanno per prendere le mosse, il re si frappone, proibisce il combattimento e li esiglia entrambi, Mowbray in vita, e Bolingbroke per dieci anni. Il pretesto si è l'amor della pace, il motivo è il desiderio di allontanare Bolingbroke, di cui il re non si tiene sicuro. Bolingbroke parte, Giovanni di Gaunt Duca di Lancastro, suo padre, inferma. Riccardo lo visita, sprezza gli ultimi consigli del buon vecchio, di cui pochi momenti dopo gli viene annunziata la morte. Il re, acciecato dal potere, corrotto ed aggirato dai suoi favoriti, propone di appropriarsi i beni di esso, dovuti al figlio Bolingbroke, e servirsene per la guerra d'Irlanda. Il Duca di York, zio del re, tenta invano dissuaderlo. Bolingbroke coglie il destro di ritornare in Inghilterra a valersi del suo partito, e di presentarsi non come un ribelle o un ambizioso, ma per ripetere un suo diritto. Un suo amico annunzia il suo imbarco ad alcuni altri. Il re è partito per l'Irlanda. Si annunzia alla regina che Bolingbroke è sbarcato in Inghilterra. Il vecchio York si dispone a combatterlo. Bolingbroke compare nella contea di Gloucester. I suoi partigiani gli si fanno incontro. Si abbocca con York; questi, veggendolo già forte, dopo averlo assai rimbrottato, si contenta di dichiararsi neutrale. - Questo a un dipresso è il disegno dell'atto primo, nel quale gli avvenimenti si distendono appunto coll'ordine storico, voglio dire coll'ordine[406] che la mente nostra desidera scorgere in una serie di fatti. E già in quest'atto si trovano discorsi e situazioni, che non si potevano certamente inserire così proprj, se non si seguiva quest'ordine.
Nel secondo, appare Bolingbroke, il quale condanna due favoriti del re Riccardo a morte. Nel suo parlare si vede a poco a poco spiegarsi la sua ambizione, moderata dalla ipocrisia secondo le circostanze. Il primo discorso è, come gli altri, mirabile per l'arte con cui egli va crescendo le sue pretese a misura che gli cresce la forza; e il passaggio dal suddito che si richiama di un torto, al potente che comanda, è maestrevolmente disegnato. York segue pure quella via, e il luogotenente di Riccardo si vede diventare suddito e fautore di Bolingbroke, con quell'arte cortigianesca che sa unire la quiete e la fortuna colla riputazione di uomo probo. Egli va per gradi così eguali e insensibili, che al fine del dramma lo spettatore trova, senza stupirsi, in quell'uomo, che udì con tanta indegnazione lo sbarco di Bolingbroke, un buon servitore di questo divenuto re. Mutazioni che non avvengono, nè si immaginano avvenute, in un giorno; e pittura finissima di caratteri, che non si può trovare nei drammi tessuti colle ridette regole.
Giunta l'azione a questo punto, io domando: dove si rivolge la curiosità e l'interesse dello spettatore? che desidera egli ora d'intendere? qual personaggio vorrebb'egli considerare, se non Riccardo? Egli è quegli sull'anima del quale i fatti fin ora rappresentati devon produrre il più grande effetto, e quest'effetto appunto aspetta di contemplare lo spettatore. Qui dunque entra in iscena Riccardo. E mi si permetta di avvertire di passaggio, che Shakespeare è eccellente nell'arte di presentare agli occhi quelle cose appunto alle quali egli ha rivolta l'attenzione, e che questo pregio lo deve, come gli altri, parte all'ingegno suo e parte al suo sistema. Appare dunque Riccardo; ma in qual luogo si figura ch'egli appaja? Non avrà egli certo voluto sbarcare nella contea di Gloucester dove si trova il suo emulo, chè nè la sicurezza sua, nè il cammino, lo conducevano a questa unità di luogo. Egli scende sulle coste del paese di Galles. Avrebbe forse potuto[407] l'autore fare in modo che si trovassero i due rivali successivamente nello stesso luogo, e non mancano esempj di simili orditure; vi avrebbe messo grandissimo studio, e vi sarebbe riuscito alla meglio: ma montava egli il pregio di farlo?
Riccardo, posto piede a terra, si consulta cogli amici che gli rimangono. E qui cominciano quelle scene, dove si vede il re orgoglioso, leggiero, dispotico, irreflessivo, temperato da quel gran maestro che è la sventura: da quel maestro, che sarebbe tanto utile ai potenti ed ai deboli, se le sue lezioni non fossero sempre dimenticate al momento ch'egli depone la sferza, e s'egli potesse produrre un sol fatto per mille proponimenti. Mirabili scene! Mirabile Shakespeare, se esse sole rimanessero del tuo divino intelletto, che rara cosa non sarebbero tenute! Ma l'intelletto tuo ha potuto tanto trascorrere per le ambagi del cuore umano, che bellezze di questa sfera diventano comuni nelle tue opere.
Il carattere del re si è cangiato, o per dir meglio, i casi hanno fatto comparire quello che nel suo carattere v'era di più nascosto e di più profondo. Il corso di questo carattere, i pensieri che dall'annunzio della disgrazia fino allo sbarco sono succeduti nella sua mente, s'indovinano quasi, e certo la storia, direi così, dell'animo di Riccardo, abbraccia più di qualche ora. Questa situazione poteva trattarsi, a quello ch'io vi posso scorgere, in tre modi: o tralasciare questo rivolgimento d'animo prodotto dal rivolgimento della fortuna; o ristringerne e menomarne i segni, in modo che non richiedesse più spazio di qualche ora; o supporre il tempo che non è rappresentato, e dare il carattere compiuto. Quale di questi tre modi abbia eletto Shakespeare, ognuno il vede; e come io spero, ognuno vede ch'egli ha fatto ottimamente.