Il dottor Nero

La serena giornata di maggio moriva in un tramonto dolcissimo, che tingeva di rosa le cime del monte Tiberio, sulle falde del quale si inerpica la bianca Capri, con le sue villette civettuole ed i suoi giardini fioriti. Giù, sulle prime case, nelle insenature della spiaggia, l'ombra, una discreta ombra violacea, si adagiava come un tenue velo.

— Magnifico spettacolo! – esclamò Fabio Pinedo, il novellatore, ospite, come me, del comandante O'Nell, sulla splendida terrazza della bella villa Laura. – Come doveva essere colpita la fantasia del crudele imperatore romano, artista e sanguinario insieme, che adorava quest'isola incantevole!

— E quale dolcezza deve avere una serata di luna, vista di quassù, comandante! – aggiunsi io, abbracciando con un'occhiata tutto il paesaggio che si stendeva di sotto, fra le balze fiorite di ginestre e di rose.

Il nostro anfitrione scosse lentamente la cenere del suo londres e si passò la mano sui baffi rossicci, che già da tempo imbiancavano; poi rispose, con voce sommessa:

— Non potrei dirlo...

Lo guardammo stupiti; quella risposta strana era assolutamente inattesa.

— Come! – azzardò Fabio. – Non avete mai passato una serata quassù, sulla vostra terrazza, voi, un innamorato delle bellezze di Capri?

Il comandante ci fissò un istante, e un'ombra di tristezza si diffuse sul suo volto aperto e leale di vecchio marinaio, poi disse, levandosi in piedi:

— Mai, signori. Il crepuscolo mi fa paura . Col calar del sole io mi ritiro in camera e, da diciotto anni, non ho più visto brillar le stelle neppure attraverso i vetri delle finestre.

Tacque per poco, poi riprese, scrollando il capo:

— Da diciotto anni... È una vecchia storia assai dolorosa...

Ci eravamo levati in piedi anche noi, sentendo che qualche cosa di bizzarro era nelle parole di lui: qualche cosa, anche, di assai triste...

— Se volete restare, – egli seguitò – fate pure; siete in casa vostra e non vorrei privarvi di uno spettacolo che dev'essere superbo. Io, col vostro permesso, mi ritiro... È l'ora dei pipistrelli.

La parola strana suonò come un singulto, nella pace del tramonto che andava morendo in un caldo pallore di oro bizantino, sulla conca del mare.

Fabio Pinedo mi diede un'occhiata: l'istinto del novelliere, dello scrittore di cose fantastiche, assurde, paurose, si ridestò in lui, di fronte a quel mistero che egli indovinava nelle parole del nostro ospite.

— No, no, comandante... – disse premurosamente – noi ci ritiriamo con voi... Se il crepuscolo vi desta dei ricordi angosciosi...

— Ebbene, venite pure in salotto, signori... – disse O'Nell, inchinandosi leggermente, con la calma dignitosa del patrizio irlandese – Fumeremo un sigaro e ciarleremo.

Mi volsi ancora una volta a dare una breve occhiata al cielo e al mare, quando, tutt'a un tratto, sentii una mano potente che mi stringeva il braccio e mi trascinava verso la porta vetrata del salotto che s'apriva sulla terrazza.

— Presto, presto!... – mormorò una voce soffocata.

Il comandante O'Nell, pallido, disfatto, mi cacciò nel salotto, si avventò alla porta a vetri, la richiuse in fretta e, con mano convulsa, abbassò le tendine. Ma, prima che esse si abbassassero, nel barlume crepuscolare, potetti intravedere un palpitare di brevi ali nere che passò e scomparve, radendo i vetri.

* * *

Alla luce tranquilla della lampada, che rischiarava quell'angolo di salotto severo come un sacrario – un angolo tutto pieno di stoffe grevi, di armi fantastiche, di trofei esotici, bizzarri come visioni di allucinati – il volto di O'Nell appariva, ora, un poco più calmo, quasi irrigidito in una forzata espressione di statua: solo, i grossi baffi rossicci, che andavano da tempo imbiancando, avevano un tremito impercettibile.

—Vi domando scusa, signori, – cominciò egli, a un tratto, rompendo il silenzio che pesava come un incubo su tutti noi – sopra tutto a voi, Luca Doria, – e si volse a me, fissandomi con due occhi che pareva implorassero – se poc'anzi fui preso da uno scatto... strano... che a voi sarà parso inesplicabile...

S'interruppe, si passò le mani sulla fronte, a lungo, come per dissipare qualche cosa che vi si fosse fermata e, poiché nessuno di noi due parlava, riprese:

— Sento che vi debbo una spiegazione... Il fatto è stato così brusco, che voi dovete sapere, per comprendere e per perdonarmi... E voi saprete; ed io vi dirò quello che nessun altro al mondo sa: quello che io tento indarno di nascondere a me stesso, per dimenticare. —

Alla luce della lampada – una grossa lampada color opale dalle trasparenze d'ambra, sulla quale pareva corressero fili di sangue – le lance e i turcassi, le pipe dei Pellirosse e i feticci dei Maori avevano un aspetto come di cose vive che stessero in agguato nella penombra per colpire. Noi tacevamo, vinti dalla suggestione dell'ambiente, dell'ora, del mistero che le parole del comandante ci avrebbero rivelato, fra un istante.

Ed egli ripigliò, a bassa voce, fissando un punto vago, innanzi a lui, parlando forse per qualcun altro, che egli vedeva, in fondo al salotto, dove la luce della lampada non giungeva:

— Diciotto anni fa, io ero felice. Ricco, con un grado elevato nella marina britannica, sposo di fresco di una bellissima fanciulla che mi adorava, non potevo desiderare di più. Avevo conosciuto Laura Cavalcanti a Firenze, in uno dei miei viaggi in Italia, e l'avevo sposata in brevissimo tempo: il nome patrizio che portava, le sue squisite doti fisiche e morali erano state, per me, la miglior garanzia di una felicità che non mi mancò davvero, nei primi tempi del matrimonio, in quei tempi che, ahimè, rimpiango con tutti i miei desideri più angosciosi.

Dopo aver passata la luna di miele in Italia, facemmo un lungo viaggio in Francia ed in Ispagna e, finalmente, prima che scadesse la mia licenza, la accompagnai a prendere possesso del mio castello, l'antica e grigia rocca di Greencastle nella contea di Kildare: quel castello del quale ella, l'ultima donna di casa O'Nell, sarebbe stata la padrona assoluta.

Temevo che la severità e la solitudine del paesaggio, grandioso ma triste, e l'aspetto cupo di Greencastle, tutto cinto di edera fosca, dovessero spaventare la piccola italiana, nata nell'azzurro e nel sole: ma quando, dopo un viaggio di tre o quattro ore in carrozza, attraverso balze scoscese e boschi di abeti e di pini, i dintorni del vecchio castello apparvero, in un grigio crepuscolo di settembre, Laura ne rimase colpita come da un'apparizione fantastica e batté le mani, esclamando: «Com'è bello! Com'è solenne! Ed io dovrò diventare la castellana di questi boschi e di queste torri!»

«Sì, tu, tu sola, anima mia», le risposi, lieto della sua letizia. E, in un pallido raggio che balenò un istante attraverso la nuvolaglia cinerea, cingendo il castello come di un'aureola, mi parve di vedere un fausto auspicio, come una promessa di lunga felicità.

La sera ella cenò allegrissima, nell'ampia sala da pranzo, dal soffitto di quercia scolpita, e Patrick, il vecchio domestico che mi aveva allevato, volle aver l'onore di servire a tavola la giovane padrona, mostrandosi orgoglioso di vedere un fresco ramoscello di lillà innestato sul vecchio tronco degli O'Nell, e manifestando la sua soddisfazione con un certo tremito nelle vecchie gambe, che pure, un tempo, erano state le gambe più belle e più solide del I° reggimento della guardia irlandese.

La mattina seguente, che era destinata alla visita del castello, Laura si levò all'alba, impaziente di essere messa in possesso di ogni cantuccio di quel grande e severo edificio ove le erano riserbate, ad ogni passo, delle sorprese, che il suo spirito accoglieva con una deliziosa gaiezza infantile. Girò, così, con me, tutto il pianterreno, la sala d'armi, la enorme cucina dal camino di pietra monumentale, la sala delle guardie, la sala d'onore, i corridoi allaccianti un lato del castello con l'altro, poi salì al piano di sopra, visitò le camere per gli ospiti, ascese nelle torri, passò sui ponti, visitò le casematte: non un angolo le sfuggiva, non una nicchia in cui ella non volesse cacciare la graziosa testina ricciuta di bimba curiosa e contenta. Le riserbavo, per ultimo, la gran sala «degli antenati» al primo piano, dove, infine, la condussi, indicandole le quattro interminabili pareti dove tutti gli O'Nell, guerrieri, magistrati, abati, dame e canonichesse, si drizzavano sul fondo nero degli enormi quadri incorniciati di oro.

— Ecco tutti quelli che ti hanno preceduta nel dominio di Greencastle – le dissi, inchinandomi a lei e guidandola per mano fino al primo dei ritratti: un arcigno cavaliere rivestito di ferro e con la croce sulla corazza.

Ella volle vederli tutti, ad uno ad uno, domandandomi delle spiegazioni, facendo dei commenti, sorridendo o sgranando gli occhioni neri, innanzi alle fisonomie più serene o più cupe. Credevo che avessimo finito la visita, quando Laura disse, accennando a una porticina:

— E là, che cosa c'è?

— Altri quadri, credo, – risposi. – Tele insignificanti...

— Andiamo a vedere.

Mi prese per mano e mi trasse verso la porticina, che spalancò. Ci trovammo in una stanzetta rotonda, che riceveva la luce da un foro aperto nella volta: una stanzetta che, a giudicare dall'abbandono in cui si trovava, doveva esser poco frequentata dal personale di Greencastle. A terra, delle scale, qualche cassa vuota, qualche tela sfondata: alle pareti, moltissime ragnatele e due o tre quadri.

— Son paesaggi, – spiegai – sgorbi di nessun valore che son qui da qualche secolo.

Ella guardò, e stava per tornare indietro, convinta, quando esclamò:

— No, no. Lì c'è un ritratto, guarda!

C'era, infatti, un ritratto: qualcuno che, nella penombra e ad una certa distanza, non si discerneva bene.

Ci avvicinammo, egualmente curiosi tutti e due, e, finalmente, ricordai di che si trattasse.

Era il ritratto di un giovane trentenne; un viso magro, affilato, pallido, incorniciato da una barba nera: un viso in cui due occhi turchini, acuti come due lame, pareva che brillassero. Era vestito tutto di nero, con un berretto nero in testa, alla foggia dei medici del secolo decimosettimo e, particolare bizzarro, stringeva al petto, con la bianca mano sottile – una mano cerea, magra, fantastica – un pipistrello dalle ali aperte. Era un simbolo? Era una stranezza del ritrattato o del pittore? Chi sa!

— Rammento, – dissi sorridendo – è il ritratto d'uno sconosciuto, che non sappiamo come sia qui, da circa duecento anni... Non è né un nostro antenato né un personaggio che avesse, a nostra notizia, avvicinata, due secoli fa, la nostra famiglia. Già, il tipo non è neppure irlandese. Dall'abito giudico che sia stato un medico o un naturalista. Quando ero piccino, e chiedevo notizie di lui, Betsy, la mia buona nutrice, mi rispondeva, battezzandolo con un nome che gli era stato certo imposto da lei, che egli era il dottor Nero...

Non avevo finito la frase che Laura, la quale si era avvicinata al ritratto mentre io parlavo, diede a un tratto un grido soffocato e vacillò, aggrappandosi alla mia spalla. La sorressi, la presi tra le braccia e la portai fuori, spaventato del caso imprevisto, ancora troppo ignaro della psicologia muliebre per tentare di trovare una causa al suo svenimento. Chiamai la cameriera, mandai per un medico, misi a soqquadro tutta la servitù, ma quando, dopo poco, ella riaperse gli occhi e mi vide inginocchiato accanto al suo letto, pallido, ansante, mi sorrise con dolcezza e mormorò, piegandomi la testina sulla spalla:

— Un capogiro... Effetto della stanchezza... La visita al castello mi ha spossata un poco... Non spaventarti, sai, è passata...

Le diedi un bacio sulla fronte, rassicurato: avevo bisogno di crederle, e le credetti, senza esitazione alcuna.

* * *

Passammo due giorni senza nessun incidente notevole; mi accorgevo, però, di un certo cambiamento nel carattere di mia moglie, per solito lieta e vivace come una cinciallegra ed ora, invece, quasi sempre silenziosa, distratta, come vinta da un pensiero persistente e tormentoso. Non mi sarei però mai risoluto a dirle nulla, se una mattina, molto presto, cercandola da per tutto, non l'avessi vista sgusciare dalla porticina della stanzetta rotonda. Ella sperava, evidentemente, che io non l'avessi vista uscire di là, perché rasentò la parete e venne a me come se si fosse trattenuta fino allora nella sala «degli antenati»; ma io che, nel suo piccolo stratagemma, non potevo vedere che il ripiego ingenuo di una bambina sorpresa a mezzo di un suo capriccio, le andai incontro e la rimproverai dolcemente:

— Laura, amica mia, perché ti sei cacciata ancora una volta là dentro? Hai dimenticato che fu proprio lì che ti sentisti male, l'altro giorno? Tu dovresti, ora, strapazzarti assai poco: sei, da qualche po' di tempo, più pallida, e sembra che tu soffra di qualche cosa.

Le carezzai con aria paterna la nera chioma ricciuta, mentre ella socchiudeva gli occhi, abbandonandosi sulla mia spalla.

— È forse la tristezza di questo castello, che ti rende melanconica? Sono questi foschi quadri? È forse quello strano ritratto del dottor Nero?

Avevo appena detto queste parole che ella sussultò, fissandomi con gli occhi sbarrati e mettendomi una mano sulla bocca...

— No, no, taci... Perché dici questo? Andiamo via, andiamo presto, ti prego...

Il volto le si era scolorato e la voce era affannosa, un po' tremante.

Si guardò intorno, quasi temesse che qualcuno avesse potuto ascoltare il nostro colloquio, e poi si strinse al mio braccio, ripetendo più sommessamente:

— Andiamo via, te ne supplico...

L'aria aperta del parco, ancora tutto pieno d'ombra, nella mattina di settembre, la rinfrancò alquanto. Passeggiammo per poco, in silenzio, sotto i magnifici abeti, poi arrischiai la domanda che da tempo mi fremeva dentro:

— Ebbene, Laura? Mi dirai finalmente...

M'interruppe, abbracciandomi, celando il viso contro il mio petto.

— Non chiedere, ti prego. È una sciocchezza... Una sciocchezza da bimba...

Pareva così piccola, così debole, avvinta a me, povero e gentil ramoscello di lillà perduto in un nero bosco di abeti!

— Ma c'è qualche cosa, a Greencastle, che ti spaventa? – le chiesi poco dopo, sollevandole pian piano il visino, che l'aria pura del parco aveva soffuso lievemente di roseo.

Ella mi guardò, con i neri occhioni di gazzella, e disse, con un sorriso:

— Finché ci sei tu, non ho paura di nessuna cosa al mondo!

La risposta, invece di rinfrancarmi, mi fece sussultare. Ignorava, ella, o aveva dimenticato che fra quattro giorni io dovevo lasciarla, per imbarcarmi nuovamente sopra una nave della marina britannica?

* * *

Quei quattro giorni, non occorre che io lo dica, furono per me assai penosi: mi ero già da un pezzo rassegnato al pensiero di lasciare per qualche tempo la mia giovane sposa tutta sola, nel grigio castello, ma confidavo nel suo carattere sereno e nella vigilanza delle cameriere e dei domestici e, sopra tutto, del maggiordomo, il buon Patrick, che già adorava la sua padroncina, così come aveva adorato gli ultimi due O'Nell, mio padre e me; senonché questi incidenti sopravvenuti, questi strani fenomeni di paure angosciose mi facevano pensare, ora, con terrore, alla mia prossima partenza. Sentivo che qualche cosa esercitava una suggestione su mia moglie, la teneva avvinta sotto il suo triste fascino, la rendeva sempre più silenziosa e scolorata, mettendole come un sogno spaventoso negli occhi neri, e avrei voluto sapere chi o che cosa esercitasse quel maleficio; ma non osavo domandare, per non provocare in lei una novella scossa...

Patrick, al quale chiesi, fingendo indifferenza, se la padrona gli avesse mai detto che Greencastle era un po' troppo grave ed opprimente per la sua anima italiana, mi rassicurò, dicendomi che, al contrario, la signora era contentissima del suo soggiorno; soltanto – egli aggiunse – doveva temere dell'umidità dei boschi, perché gli aveva ordinato di chiudere tutte le finestre col cader del giorno...

Quest'ordine, dato in una stagione eccezionalmente tiepida ancora, mi parve un po' strano, ma pensai, subito dopo, che il piccolo uccello italiano dovesse rabbrividire nell'ombra dei boschi irlandesi.

Volevo così rassicurare forse anche me stesso: avevo tanto bisogno di acquietare i miei timori, prima di partire, tanto più che Laura, alla quale offersi di condurla a Dublino, dove avevo dei parenti presso i quali si sarebbe potuta trattenere fino al mio ritorno, si era rifiutata energicamente, dicendo che una O'Nell doveva restare a Greencastle, dove tutti gli O'Nell erano nati ed erano sepolti.

Ero così combattuto a vicenda da pensieri rassicuranti e da dubbii angosciosi, illudendomi, a volte, che tutto ciò fosse finito, temendo, a volte, che qualche cosa di più terribile si preparasse, quando, la penultima notte che ero al castello, ridestandomi bruscamente da un sonno breve e agitato come un incubo, intravidi un chiarore nella camera; balzai a sedere sul letto e vidi Laura, con un accappatoio gettato sulle spalle, ritta in mezzo alla stanza, che guardava sotto la volta, levando in alto il lume: pareva che cercasse qualche cosa, con gli occhi sbarrati in cui si leggeva il terrore.

— Laura! – esclamai, correndo a lei. Sussultò, bianca in viso, e per poco il lume non le sfuggì di mano.

— Laura! Che cosa è successo? Che cerchi?... Parla, amica mia!...

Mi guardò in silenzio, poi mormorò:

— Nulla... Un rumore... Mi pareva che... Ma torna a letto, caro; mi sono ingannata...

Tremava tutta, ora, non so se per freddo o per paura. Volli rassicurarla e, gettatami una mantellina addosso, mi armai della rivoltella e, col lume in mano, ispezionai tutta la camera e i corridoi vicini, mentre ella mi aspettava, rannicchiata sotto le coperte. Quando mi vide rientrare mi fissò, ansiosamente, con uno sguardo che era una interrogazione, ma, poi che vide che io sorridevo, scrollando il capo, si rasserenò un poco anche lei e sussurrò, con un pallido sorriso:

— Sono ancora troppo bambina per essere una O'Nell...

...La giornata seguente passò fra i preparativi per la mia partenza: avevo scritto a una mia parente, una cugina che si trovava, per colpa di suo marito, in condizioni molto modeste, di venire a Greencastle, dove avrebbe fatto da dama di compagnia a mia moglie, ma, forse a causa del cattivo tempo, che scatenò un vero diluvio sui boschi di Greencastle per tutto il giorno e parte della notte, ella non giunse. Dovevo partire nella mattinata, e per ciò decisi di non andare a letto, passando la notte a rivedere i miei piccoli bagagli che i domestici avrebbero portati, all'indomani, a Kingstown.

Laura voleva vegliare con me, ma, alle mie insistenze, acconsentì di ritirarsi in camera, lasciando però aperto l'uscio che comunicava con la stanzetta ove io vegliavo.

Era da poco cessato l'ultimo scroscio di pioggia e un gran silenzio era nella notte quando, d'improvviso, sentii un piccolo grido nella camera di lei. Tesi l'orecchio, dubitando, ma subito dopo il piccolo grido si rinnovò e, prima ancora che io fossi balzato sulla soglia, ella era già là, discinta, con gli occhi sbarrati, scossa tutta da un lieve tremito.

— Di', – esclamò ansando, stringendomi per le braccia, – di', hai inteso?... Mi sono ingannata, forse, anche questa volta?

Io la guardavo stupito, cercando di comprendere, ed ella rispose, piegando il capo, come vinta:

— Ho sognato, dunque? Non vi sono pipistrelli , a Greencastle?

Questa parola, pipistrello, mi colpì; e fu, per me, come un lampo di luce improvvisa.

— Comprendo! – esclamai. – È ancora una volta quell'orribile quadro che ti ritorna alla mente... È quella schifosa bestiaccia dipinta in quel ritratto... Per un temperamento suggestionabile come il tuo, è bastato vederla per esserne colpita... Ma non temere, diletta: fra un quarto d'ora sfonderò quella tela, e tutto sarà finito...

— No no! – proruppe lei, con impeto. E, come vide che io la fissavo, sbalordito, raddolcì la sua voce e riprese carezzevolmente: – Basterà che tu la faccia rimuovere di là e portare altrove, in una delle torri, in una soffitta lontana... Ma non sfondarla... Puoi tu sapere chi sia ritrattato in quella tela?

Il pensiero di aver trovata la causa di tutti quei fenomeni, che mi erano parsi sino allora inesplicabili, mi calmò un poco; anche ella parve più calma e assistette con serenità agli ultimi preparativi della mia partenza.

....Quando, dopo alcune ore, la mia vettura era pronta, nell'atrio, per portarmi a Kingstown, e mentre mi congedavo dalla mia diletta compagna sul grande scalone di onore, che aveva visto altri guerrieri partire per imprese lontane ed altre lagrime di spose, le dissi, abbracciandola:

— Sii tranquilla. Il buon Patrick veglierà su te, e Matilde, mia cugina, arriverà in giornata. Quel quadro è in soffitta ... Non temere, e mostra di essere una castellana coraggiosa e degna del suo nome.

Ella mi sorrise attraverso le lagrime, ed esclamò, stringendomi per l'ultima volta la mano:

— Saprò essere una O'Nell.

Poco dopo i quattro vigorosi cavalli che tiravano la mia vettura da viaggio si lanciavano al trotto per il largo sentiero selvaggio, e le torri di Greencastle sparivano fra le cime dei boschi.

* * *

Il comandante tacque, per poco, e chinò il volto fra le mani: scorse così una pausa di silenzio, una pausa lunga e triste. Ardeva, tranquilla, la lampada, e le armi e i trofei esotici avevano, nella penombra, balenii che si spegnevano a tratti.

— Così non fossi mai partito! – ricominciò egli con un singhiozzo soffocato nella gola. – Così le vecchie torri di Greencastle mi avessero tenuto prigioniero e fossimo stati entrambi colpiti... —

Sollevò il capo, ci guardò come stupito di vederci là, ad ascoltarlo, poi si ricordò e riprese:

— Ero in navigazione da venti giorni, quando la prima lettera di lei mi raggiunse. Era una lettera molto calma, in cui mi parlava di tante piccole cose intime, ciò che mi riconfortò moltissimo. Solo un periodetto aggiunto alla lettera mi fece fantasticare un poco; diceva: «Sarai di ritorno per il ventisei novembre?»

Il ventisei novembre? pensai. E perché questa data, che non mi rammenta, che non ci rammenta nulla?

Risposi dandole buone notizie mie ed esortandola ad aver pazienza: quanto al mio ritorno, non c'era speranza prima del gennaio: si trattava di una crociera di circa quattro mesi...

Passarono altri dodici giorni, ed ecco un'altra lettera che mi raggiunge, in navigazione: la lettera fatale, la lettera della confessione.

O'Nell si alzò, penosamente, dischiuse un cofanetto di avorio che aveva accanto, e ne trasse un foglietto un po' ingiallito. – Eccola. —

Noi tacevamo, ansiosi, aspettando.

— «Amico mio, – egli lesse. – Io non devo tacerti più oltre la verità: devo confessarti ogni cosa, prima che la vendetta di lui mi raggiunga, prima che io sia uccisa, lontana da te, senza che forza umana possa salvarmi, qui, nel castello di Greencastle che io non volli abbandonare, che io non lascerò se non quando mi porteranno via, morta, per seppellirmi nel cimitero degli O'Nell...

Ascolta, amico mio, e non rimproverarmi, perché nessuna colpa ho commessa verso di te, neanche col mio silenzio...

Prima di conoscerti, un anno avanti, a Fiesole, in una gita di amici, m'imbattei in un giovane medico straniero, uno spagnuolo pallido, dalla barba nerissima, dagli occhi penetranti... Aveva un fascino strano, bizzarro, e mi conquistò subito, avvincendomi, parlandomi dei suoi sogni, delle sue chimere, di un futuro di gloria e di onori. Lo rividi a Firenze, divenne amico di casa, mi confessò il suo amore. Non seppi resistergli; non potevo. Soltanto, siccome le sue condizioni erano modeste, ed egli era troppo orgoglioso per ricevere una dote come un'elemosina, si fece promettere che io avrei atteso ancora qualche tempo: egli sarebbe partito con una spedizione scientifica per la Terra del Fuoco e contava di farsi un nome, per certi studi sulla fauna velenosa di quell'estremo lembo dell'America selvaggia. Glielo promisi ed egli, stringendomi la mano, mi disse, fissandomi stranamente negli occhi: – Badate che gli uomini come me non si debbono dimenticare, mai: essi si vendicano del tradimento come dell'abbandono, con armi che nessun uomo al mondo conosce!

Fremetti, ma lo rassicurai: mi pareva di essere così sicura di lui e di me!...

Partì, e per lungo tempo non ne seppi nulla: non mi scrisse mai, né io gli scrissi. E, a poco a poco, le vicende della vita cominciarono a indebolirne l'immagine nella mia memoria: restava, del suo amore per me, un vago ricordo, che mi dava la sensazione bruciante di una cicatrice non interamente rimarginata...

Una sera, dopo circa nove mesi dalla sua partenza, la sera del ventisei novembre, mia madre, leggendo un giornale inglese, ebbe un sussulto ed esclamò: – Toh, quel povero amico nostro!...

Non so perché sentii un brivido e chiesi, levandomi in piedi: – Chi?

Mi tese il giornale, senza parlare, accennando ad una comunicazione nella rubrica dei viaggi. E lessi che una carovana di scienziati, nella Terra del Fuoco, aveva avuto la sventura di perdere due dei suoi componenti, uccisi, dopo un'agonia orribile, in seguito ad infiammazione, sviluppata per certe ferite che si erano riscontrate su loro, dopo una notte passata bivaccando all'aperto. Non c'era da dubitare che si trattasse dei vampiri, gli immondi e feroci pipistrelli dell'America del Sud; e qui il giornale si diffondeva a lungo sulle abitudini di questo pericoloso e spaventoso chirottero, concludendo col rimpiangere, sopra tutto, la fine di una delle due vittime, un giovane e valoroso dottore spagnuolo, che gli indigeni di scorta veneravano come un essere soprannaturale, chiamandolo, per il colore delle chiome e della barba, il «dottor Nero»...

Non potevo dubitare: era lui!...

Il dolore che mi diede la notizia della sua morte mi fece sentire in pari tempo che il vincolo che avevo con lui era spezzato, e questo pensiero, non so perché, mi diede un senso di liberazione, come se mi fossi sottratta a una suggestione possente ed invincibile... Sentivo, allora, che il mio amore per lui era imposto da una specie di influsso magnetico e che questo influsso, ora, era finito, e che io ero libera, interamente libera...

E un mese dopo io conoscevo te, amico mio, e la tua bontà, e la tua lealtà fiera e cavalleresca mi fecero comprendere come ci fosse al mondo un amore diverso da quell'altro, un amore nobile e grande: quell'amore che, dopo sette mesi, ci conduceva all'altare e mi dava il nome di O'Nell. Ed ora ascolta, amico mio; ascolta la cosa assurda e terribile, ciò che tu solo saprai e che mi tiene sotto la potenza di una forza inesorabile, che mi ucciderà...

Credevo che il vincolo antico fosse finito con la morte di lui; credevo che nulla più mi legasse a quel morto: avevo dimenticato la vendetta... Ed egli mi riapparve, un giorno: mi riapparve qui, nel tuo castello, in quel ritratto che vedemmo insieme, quel fosco ritratto di uno sconosciuto... Rividi il suo viso pallido, la sua barba nerissima, i suoi i occhi penetranti come lame... ed egli stringeva – ricordi? – fra le ceree mani la bestia orribile che lo aveva ucciso... Tu non vedesti altro, tu non sentisti altro... ma io vidi – vidi , capisci? – il palpitar delle ali di quel pipistrello, e sentii che la sua bocca immota diceva una data: ventisei novembre... Era la data della mia sentenza, la data fatale della vendetta, ch'egli pronunziava da quella tela che è qui da duecento anni e che voi non sapete di chi sia...

Da allora, amico mio, io ho inteso che ero perduta, e da allora la sua vendetta è cominciata... Tu non sapevi e non sentivi, ma nella notte, un palpitar d'ali era nella nostra camera: era quel pipistrello, che veniva, e si aggirava per la stanza, in larghe ruote, invisibile a tutti, muto ammonimento di ciò che dovrà avvenire e, forse, spaventevole strumento del suo castigo...

Volli illudermi, da principio, cercai di riconfortarmi, trattandomi da visionaria; ma, a poco a poco, finii col non dubitare più...

Nulla ti dissi; ma tu intuisti qualche cosa, nella notte che precedette la tua partenza, e facesti trasportare altrove quel ritratto, per rassicurarmi... Fu vano; il destino s'imponeva!

E il pipistrello, l'orribile bestia, è ancora venuto, la notte, ad onta che io facessi chiudere tutti gli usci e tutte le finestre, ad onta che Matilde, tua cugina, dormisse nel gabinetto accanto alla mia camera, e Patrick e i servi, a cui nulla ho detto, mai, dormissero nel corridoio e nelle anticamere.

È ancora venuto; e i suoi giri, ogni notte, si abbassano sempre più, e lo sento sempre più vicino al mio viso.

Il ventisei novembre: ecco la data in cui tutto ciò finirà: la data che egli ha segnata e che nulla varrà a protrarre...

Oh, amico mio, se tu non puoi venire, se non puoi salvarmi – ed io sento che nessuno lo potrà, al mondo! – vieni, almeno, in tempo per rivedermi sul letto di morte, prima che il cimitero degli O'Nell mi abbia; vieni a baciarmi sulla fronte, per l'ultima volta.

Così ti aspetta, morta, amandoti di là dalla vita come oggi, la tua Laura, infelice ed innocente!» —

* * *

Le ultime parole furono lette dal comandante con voce soffocata dal pianto. Stette così, un poco, guardando quel foglietto ove tutta una storia dolorosa era scritta, poi disse, più sommessamente, come stanco:

— La lettera era troppo strana, terribile e vibrante di verità perché io la credessi dettata da un'allucinazione; e poi, fosse stata anche scritta in un accesso di follia, il dovere di correre accanto a mia moglie demente m'imponeva di non indugiare più e tornare a Greencastle al più presto possibile.

Ventisei novembre! Quella data fatale suonava, ora, al mio orecchio come un rintocco funebre. Se fossi giunto in tempo al castello!

Dal primo porto che toccammo, il giorno seguente, feci telegrafare all'Ammiragliato chiedendo d'urgenza di essere autorizzato al rimpatrio per motivi gravissimi. Attesi otto ore, nell'angoscia più viva, che la risposta giungesse, e quando giunse, affermativa, era già noleggiato e pronto uno schooner per riportarmi a Kingstown: uno di quei solidi schooner che tentano con successo, guidati da abili capitani, le più audaci e lunghe traversate.

Che cosa sentissi, nell'interminabile viaggio, non potrei descrivere e nessuno potrebbe intendere... Avevo fretta e, insieme, avevo paura di arrivare. E sempre quella data fatale, ventisei novembre, che mi risuonava lugubremente nell'orecchio!

Intravidi come in un sogno il faro di Kingstown, e il porto, e le case della spiaggia... Era già l'alba, una torbida alba di novembre... Avevo perduta la nozione del tempo e chiesi al pilota, fissandolo con occhio smarrito:

— Dite, amico, che giorno è oggi?

— Venerdì, milord; venerdì, ventisette novembre.

Ventisette! Giungevo con ventiquattr'ore di ritardo!

* * *

Che cosa mi dicesse Patrick, il buon Patrick, che mi attendeva con la pesante vettura di viaggio, che cosa io gli dicessi, come avessi passato le ore della trottata rapida attraverso i boschi, io non so... Solo una frase mi era rimasta nell'anima, una frase acuta come un colpo di pugnale: troppo tardi!

Ed era troppo tardi, infatti. Matilde, che mi ricevette all'ingresso, non poté dir altro, singhiozzando, che queste parole: – Venite a baciarla...

Ella giaceva tutta bianca, sul gran letto scolpito, ed aveva sul viso pallido un sorriso triste, il sorriso, l'ultimo, che ella aveva serbato per me... E in quel sorriso era l'addio al nostro amore, alla vita, al sole, a tutte le cose belle, il sorriso di chi se ne va, rassegnata, vinta dalla fatalità...

Quando, passata la piena del dolore, potei levarmi in piedi, un bisogno imperioso di sapere tutto mi prese, più forte dell'angoscia, più forte dello schianto...

— Io non so e non posso dire quale strana cosa sia avvenuta, – balbettò Matilde, fra le lagrime. – Posso giurare, però, che questa notte, risvegliata da un suo gemito – ella si lagnava spesso, in queste ultime notti, ma al mio accorrere si rinfrancava subito – mi sono avvicinata all'uscio, come al solito. E questa notte, cugino, io giuro di aver sentito, distintamente, come un fremito d'ali che urtassero contro qualche cosa... Ho spalancato l'uscio: nessuno. Ho chiamato: ella taceva... Era già finita ogni cosa... —

Ecco tutto quello che avevo potuto sapere. Ma un ultimo indizio mi apparve, alla fine, quando mi curvai ancora una volta su lei, a baciarla; ed io vidi, fremendo, di che era morta...

Ella aveva, al sommo del petto, un sottil solco, una striscia rossa, quasi invisibile, come l'impronta di un'ala tagliente...

Due giorni dopo, corsi alla torre dove il ritratto funesto doveva trovarsi... Un domestico, a cui ne chiesi, mi rispose che il vento, tre notti innanzi, aveva diroccato una parete mezzo cadente e che le pietre lo avevano seppellito.

Mi precipitai sul mucchio: non c'era più nulla... Solo un brandello di tela, nel quale due occhi turchini, acuti come due lame, pareva brillassero... —

* * *

Un caso di suggestione multipla? Uno di quei fatti bizzarri che nessuno può spiegare? Il dilemma che m'imposi, qualche ora dopo che il tragico fatto era finito, non poteva avere risposta.

E Fabio Pinedo rimase anch'egli chiuso nel silenzio più misterioso, guardando, come me, la porta vetrata del salotto, dalla quale, attraverso la tendina, trapelava un raggio della lampada illuminante la veglia dolorosa del comandante O'Nell.

Sulla terrazza era una pace profonda. Capri, nell'ombra, dormiva; alte, sulla divina conca del mare, tremolavano le prime stelle.

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