L'uomo dai capelli tinti

«La polizia internazionale è in movimento per rintracciare un pericoloso anarchico, che a Chicago si faceva chiamare John Wills, e che è accertato essere l'autore del terribile incendio all' Union-Theatre , dove morirono tante persone, dell'alta borghesia e dell'alto commercio, alcune settimane or sono: incendio che sinora si credeva accidentale. Il Wills è sparito da quel tempo, e si ha ragione di credere che si trovi in Europa. I suoi connotati sono: statura alta, complessione magra, quasi fantastica, mani sottili, scheletriche, occhi grigi. Un neo sulla tempia sinistra. Il riconoscimento, però, è reso difficile da una circostanza: la sua chioma, ch'era abbastanza imbiancata, deve essere stata tinta, e abilmente. La polizia di Chicago ha trovato in casa sua, operandovi una perquisizione, alcune boccette di tintura della nota casa di prodotti chimici e profumerie Hawy and Co. Ognuno sa che le tinture di questa casa sono tali da cambiare i connotati senza che l'occhio possa accorgersene, ringiovanendo e trasformando le persone in modo meraviglioso. È però da augurarsi che l'assassino di tante innocenti vittime non sfugga all'abile caccia della polizia».

Per quale strano caso gli occhi del dottor Arsenius si posarono, quella sera, sulla bizzarra noticina di cronaca? Come mai, egli che ostentava di non leggere giornali, si trovò quella gazzetta sulla modesta tavola da pranzo, donde la vecchia domestica aveva allora finito di asportare gli avanzi del parco desinare da scapolo e da scienziato, ciò che vuol dire, in complesso, da uomo che mangia poco e male?

Nessuno potrebbe dirlo: meno degli altri egli stesso che, da quando erasi ritirato in quel cantuccio solitario della città, ove viveva come un selvaggio, fra i suoi vecchi libri di frenologia e di psichiatria e i suoi teschi di delinquenti e di anomali, si manteneva rigorosamente lontano da ogni contatto con la vita dei suoi simili.

* * *

Il dottor Arsenius aveva insegnato, molti anni prima, psichiatria all'Università di Lipsia ed era stato uno dei più ardenti campioni delle novelle dottrine antropologiche; ma una malattia nervosa che, per qualche tempo, lo aveva minacciato persino di raggiungere i suoi «soggetti» scientifici in una casa di salute, lo aveva costretto ad abbandonare la cattedra, portando nel suo esilio volontario un profondo disprezzo degli uomini ed un sacro orrore per la società.

Qualche maligno andava insinuando che questo disprezzo nascesse dal fatto che all'Università, da qualche anno, colleghi e studenti cominciavano a ridere di una velleità giovanile del vecchio psichiatra, il quale cercava di porre rimedio all'onta irreparabile degli anni tingendo del più bel biondo dorato la sua lunga chioma di scienziato, che andava imbiancando. È certo, in ogni modo, che, fatta eccezione di questa velleità, il dottor Arsenius era un'eccellente persona: è perciò che, quando ebbe letta quella notizia riguardante l'americano John Wills, non seppe frenare un gesto d'indignazione. Un uomo che appicca l'incendio a un teatro e fa morire tanti innocenti non è assai inferiore ad una belva? E per un assassino simile la società non riserba forse la pena di morte?

— Egli sarà impiccato, – disse a bassa voce il dottore, parlando a sé stesso; poi, come per allontanare una visione disgustosa, fece una pallottola del giornale e la scagliò in mezzo alla stanza.

Ma in quel momento gli sguardi si fermarono sulla sua mano, che era rimasta ancora aperta, bruscamente arrestata nel suo movimento, ed ebbe un breve sussulto. Gli parve di notare in essa qualche cosa che non vi aveva mai scorta fino allora.

— Mani sottili, scheletriche... – mormorò, ricordando le parole di quella noticina di cronaca. E gli occhi fissarono, rabbrividendo, le lunghe dita magre, ossee, con un nodo alle giunture delle falangi e il dorso della mano scarno, che pareva una pergamena tesa su cinque cordelline irrigidite.

Quella, certo, era la sua mano; pure, non doveva essere così la mano dell'altro, dell'assassino John Wills?

Stette per un po' immobile; pareva che, nella stanzetta da pranzo, vibrasse ancora l'eco delle parole pronunciate prima a bassa voce: – Egli sarà impiccato... –

Poi, un sorriso contrasse le sue labbra sottili, ed egli scosse la chioma biondiccia. Eh, via! Che strane idee gli venivano in mente? Quali rapporti potevano esservi tra le sue mani intemerate di scienziato e le mani scellerate d'un incendiario?

— Ecco gli effetti di queste letture pericolose e stolte! – disse, levandosi in piedi e dando un calcio all'innocente pallottola, che andò a ruzzolare sotto l'armadio, risvegliando l'attenzione di un gatto rossiccio sonnecchiante sulla spalliera d'una grande poltrona sdrucita.

Poi se ne andò a letto di malumore, e, dalla soglia della camera, gridò alla domestica, con la stridula voce stizzita:

— Camilla, la mia solita tazza di tiglio...

* * *

Evidentemente, però, vi sono delle sensazioni, nella vita, che lasciano come un pallido strascico; ed anche quando le si crede dimenticate, basta un piccolo pretesto per ridestarne il dolore della cicatrice recente, ancora mal rimarginata. Il primo giornalaio che il dottor Arsenius incontrò, la mattina appresso, uscendo di casa di buon'ora, gli ricordò John Wills e l'incendio dell'Union-Theatre. Ora che ci ripensava, gli pareva di aver inteso parlare, non sapeva dove né da chi, di quel tremendo incendio, alcune settimane prima: frammenti di episodi strazianti, brani di aneddoti paurosi, alcune particolarità di donne calpestate, di bimbi rinvenuti in gruppi pietosi, stretti gli uni agli altri, le boccucce ancora spalancate nell'ultimo fremito, gli occhi sbarrati nella fissità della morte: era una rievocazione di scene confuse, di immagini indistinte, di figure incerte tra la realtà e il sogno...

Affrettò il passo, scansando con ostentazione il giornalaio, un monello di otto o nove anni, che strascicava le ciabatte sul lastrico bagnato, portando con gravità due enormi fasci di carta sotto le braccia, ancora troppo assonnato per gridare la sua merce. E, come l'ebbe oltrepassato, gli parve di aver vinto una prima battaglia, di aver superato una difficile prova, e continuò il suo cammino verso l'altra estremità del quartiere, dove teneva bottega Isacco Brown, il suo parrucchiere, colui che, da quando si trovava in città, lo riforniva della magnifica tintura bionda che dava riflessi d'oro alla sua chioma. Ma, a mezza via, ecco una voce levarsi nel silenzio dell'ora mattutina, una voce virile, squillante, che veniva avanzandosi: – «Gli ultimi dispacci della notte! L'assassino di Chicago! – e, subito dopo, un altro giornalaio apparve, svoltando un vicolo e agitando i suoi fogli.

Il dottor Arsenius si arrestò, deciso a lasciarlo passare senza neppure guardarlo in viso; sentiva, però, che una strana agitazione lo riprendeva, e la suggestione, a poco a poco, lo riafferrava, costringendolo a pensare a quell'anarchico dalle mani scheletriche... Una breve lotta si accese in lui, rapidamente: tentò di reagire contro la forza che lo vinceva, ma non poté. Una specie d'impulso inesplicabile e irresistibile lo spinse ad avvicinarsi a quel giornalaio, a chiamarlo, a comprare un giornale.

Poi, come quello se ne andava, egli rimase solo, sul gran marciapiedi, con quel foglio fra le mani e gli occhi fissi innanzi a sé, nella via ancora deserta. Avrebbe letto? Si sarebbe cacciata in tasca quella cartaccia senza degnarla di uno sguardo? L'avrebbe scagliata lontano, sul lastrico? La suggestione strana continuava, ed anche questa volta la resistenza fu breve: spiegò il foglio e cercò da prima di leggere qua e là delle notizie insignificanti, delle noterelle mondane, dei resoconti di spettacoli teatrali, ma l'occhio corse subito alla cronaca, intravide una notizia, un nome, lo sfiorò, lo sfuggì, poi vi tornò su, vi si fermò; lesse. Ecco ciò che diceva la noticina: «Nessuna notizia ancora di John Wills. La polizia di Chicago, intanto, ha ordinato una serie di esperimenti con le tinture della casa Hawy and Co. – di cui, come dicemmo, si sono trovate in casa di lui alcune boccette, – per studiarne gli effetti e scoprire fino a qual punto esse siano riconoscibili. Informeremo i lettori di queste ricerche, che indubbiamente saranno imitate dalle altre polizie, interessate alla caccia dell'anarchico».

* * *

Le tinture! Ecco che la polizia si occupava, ora, di esse, e ne «studiava gli effetti». Un pensiero traversò la mente del dottore: se gli agenti sguinzagliati per le varie città cominciassero a tener d'occhio tutte le chiome sospette e piantonassero le botteghe dei parrucchieri? Se qualcuno di essi si aggirasse dalle parti della bottega di Isacco Brown, proprio quando egli doveva entrarvi?

Si era fermato, turbato, vinto da un'esitazione angosciosa. Gli pareva che i vari passanti lo guardassero, che tutti gli occhi si fissassero sui suoi capelli... Che fare? Tornare indietro? Rinunziare alla velleità di quella giovinezza fittizia che lo aveva illuso fino a quel giorno? Mostrare ai vicini, al portiere, alla domestica la chioma imbiancata da un momento all'altro? No, no: sarebbe stato troppo ridicolo.

Si decise, così, e riprese il suo cammino, sforzandosi di sorridere dei suoi timori.

Fortunatamente, non c'era anima viva, nei pressi della bottega di Isacco Brown, e nessuno lo vide quando egli ne varcò la soglia.

— La solita, non è vero? – gli chiese il vecchio commesso, salutandolo.

Il dottor Arsenius accennò di sì e, come ebbe la boccettina, fece per intascarla; ma un'improvvisa curiosità lo vinse e, avvicinatala agli occhi miopi, ne lesse il cartellino.

Hawy and Co! – esclamò, sussultando.

— Ebbene? Che c'è di strano? – chiese il commesso, guardandolo con stupore. – È la stessa che le dò da tre mesi... —

Il dottor Arsenius non rispose; se la cacciò in tasca, pagò e uscì in fretta, come se portasse via un oggetto rubato.

A pochi passi dalla bottega, un poliziotto passeggiava, maestosamente, arricciandosi i baffi grigi con la mano inguantata. Egli lo vide e trasalì; poi ritirò il naso nel bavero del soprabito e scappò via, a grandi passi, stringendo la boccetta nella mano, quasi avesse con sé il corpo d'un delitto.

Sulla soglia di casa si volse indietro: nessuno lo aveva seguito. Era salvo.

* * *

Da quel giorno, un incubo pauroso e incessante cominciò a gravare sull'anima infantile di quello sciagurato, troppo a lungo vissuto fra i suoi libri di frenologia e i suoi teschi di folli e di delinquenti. Il pensiero di quella gigantesca caccia organizzata dalla polizia di tutte le nazioni alla ricerca di un incendiario alto, sottile, come lui, dai capelli tinti, come lui, divenne, a poco a poco, un'ossessione senza fine. Non osava più uscire, si mostrava assai di rado alla finestra, non leggeva più giornali, evitava perfino di parlare con Camilla, la vecchia domestica.

La figura di John Wills lo perseguitava da per tutto: lo vedeva, magro, fantastico, con gli occhi grigi, scivolare nell'ombra come un'apparizione, trascorrere senza rumore sul pavimento della sua camera, dileguarsi per la finestra, silenzioso e terribile. E da per tutto, anche, vedeva luccicare visiere di chepì e bottoni di tuniche, ed occhi di questurini brillare attraverso i buchi delle serrature degli usci e i vetri delle finestre, e rivoltelle spianarsi, tacitamente, e mani formidabili tendersi, per agguantarlo per il colletto...

Ma egli sentiva che qualche altra cosa si andava maturando nell'animo suo, qualche cosa ancora più terribile: un'idea che gli era balenata alla mente in una notte insonne e che egli si era affrettato a seppellire sotto una folla di ragionamenti ammucchiati in fretta, come i mobili di una barricata improvvisata per tagliare la via a un nemico... Pensò di distrarsi, di dimenticare, ritornando ai suoi libri, e s'immerse nella lettura di tutte le opere che riempivano i suoi scaffali, passando le notti a vegliare, al lume d'una lampada, mentre il gatto rossiccio sonnecchiava sulla spalliera della gran poltrona sdrucita. Ma l' idea , la nemica formidabile e insidiatrice, lo aspettava, imboscata nelle pagine di un piccolo libro: un'acuta ed originale monografia d'uno psichiatra russo su certi casi di allucinazione: e un nome balzò fuori, come in agguato, da quelle pagine, e lo colpì, in un lampo di luce livida che gli fiammeggiò nel cervello: lo sdoppiamento .

Sì: vi erano di questi casi strani e terribili che la scienza registrava; di questi casi in cui una persona aveva la coscienza di essere stata un altro , e ricordava di quest'altro ogni cosa, i gesti, la voce, le azioni, e ne rivedeva certi particolari intimi che nessuno poteva avergli detto e che, più tardi, si riscontravano esatti. Lo sdoppiamento: ossia essere due persone, vivere due vite, avere due anime, ed accorgersene, e saperlo , così, d'un tratto, in una rivelazione paurosa e tremenda...

Il dottor Arsenius si levò in piedi, con le tempie che gli martellavano: sentiva di soffocare. L'idea, la terribile idea, scavava, lentamente, il suo solco nel cervello: egli ne sentiva il morso sordo e sottile come d'un trapano aguzzo che gli forasse il cranio: ecco: penetrava, penetrava...

Istintivamente, si avvicinò a uno specchietto che pendeva dall'imposta di una finestra: sentiva il bisogno di rassicurarsi, di provare a sé stesso che era proprio il suo viso, quello, che era lui, lui, il dottor Arsenius, che si rifletteva nella lastra. I capelli biondicci, nello specchio, ebbero un riflesso d'oro: egli li guardò più rasserenato, compiaciuto, poi li carezzò, rigettandoli indietro lentamente. Ad un tratto la mano sottile si arrestò, bruscamente, trattenendo una ciocca. Sulla tempia sinistra egli aveva scoperta una cosa che ignorava, sino a quel momento, una cosa bizzarra che non aveva mai vista: egli aveva un neo!

Arretrò, sbigottito, come dinanzi ad uno spettro, e portò le mani al viso: quelle mani fredde e magre gli diedero una sensazione di cose estranee, come non sue; e la verità gli apparve allora, d'improvviso, agghiacciandolo come un soffio di morte; ed egli balbettò, con voce sorda, che pareva un rantolo, quella che era la sua condanna inesorabile:

— Lo sospettavo... Io sono John Wills!... —

* * *

Quando, all'alba, la vecchia Camilla, schiudendo le imposte della finestra, trovò il suo padrone raggomitolato nella grande poltrona sdrucita, pallido, torvo, con i segni di uno strazio infinito sul viso scarno, ebbe paura. Lo credette ammalato e gli chiese premurosamente se volesse mandare per il dottore; ma egli la rimandò bruscamente in cucina, affermando di non aver bisogno di nulla.

Aveva riflettuto, durante la notte, ed aveva inteso, a mano a mano, che lo spirito audace e temerario dell'anarchico tornava a pigliar possesso del corpo del dottore. Con l'alba, si sentiva più tranquillo. Che gl'importava della caccia spietata che gli faceva la polizia? Egli avrebbe cercato di sventarla, ecco tutto: di fronte alla scaltrezza degli agenti, si sarebbe ridestata la sua scaltrezza. E, prima di ogni altra cosa, occorreva cambiar quartiere e cambiar fisonomia. È il mestiere dell'anarchico fuggiasco che lo esige.

La sera stessa, diede ordine a Camilla di preparare le sue robe, e il giorno dopo andava ad abitare in un ammezzato all'altro capo della città. Esitò a lungo, pensando se dovesse licenziare quella donna o tenerla; poi la pietà lo vinse e si disse che non sarebbe stata certo lei, lei che ignorava, a tradirlo. E quando, dopo breve assenza, rincasò, nella nuova dimora, la vecchia domestica scorse con stupore un uomo allampanato, dalla lunga chioma nera, che le diceva con la voce del dottor Arsenius:

— Camilla; la mia solita tazza di tiglio! —

...Cominciò allora un periodo di trasformazioni bizzarre. Il vecchio dottore sentiva crescere in sé la strana voluttà di ingannare la polizia, di passeggiarle sul muso, di sfidarla impunemente, cambiando ogni giorno di tintura. La sua chioma passava per tutte le gradazioni, dal biondo chiaro al nero morato, dal castagno al rosso di rame, e le boccette si allineavano sugli scaffali, sullo scrittoio, sulle seggiole, come tanti astucci di colori di una tavolozza stranissima. Gli pareva, così, di diventare un personaggio fantastico, inafferrabile, una specie di fuoco fatuo sfuggente sempre alla caccia dei persecutori.

Volle perfino cavarsi il gusto supremo di affrontare un agente di polizia, di parlargli, chiedendogli delle notizie di un certo regolamento sui cani; e, frattanto, una gran risata gli veniva ad ogni momento sulle labbra, ed egli la frenava a stento, e mormorava, con un fremito di gioia: – Che idiota! Egli non sospetta... Egli non sa!...

Poi, una sera, un dubbio gli balenò nel cervello: se facessero una perquisizione in casa sua, durante la sua assenza? Se rinvenissero tutte quelle boccette rivelatrici, come a Chicago?

Si decise; a tarda sera ne fece un gran fagotto e, col favore delle tenebre, sgusciando lungo i muri, andò fino al ponte della ferrovia e lì buttò ogni cosa nel fiume.

Come il fagotto sprofondò nei flutti, egli levò in alto le mani scarne, libere del gran peso, e, solo, nell'ombra profonda, proruppe in un riso acuto e stridulo, che si spense senza eco nel gran silenzio, rotto solo dal sordo frusciare delle acque scorrenti lungo le pile del ponte.

* * *

Quella notte il dottor Arsenius si era addormentato serenamente, convinto di aver distrutto ogni traccia che potesse denunziarlo, e il suo sonno era tranquillo e calmo, come non gli accadeva più da quindici o venti giorni, poi che aveva letto la noticina fatale.

Tutt'a un tratto, a mezzo della notte, un rumore grave di pesanti ruote trascorrenti furiosamente e un sonoro squillo di tromba lo ridestarono.

Dei carri passavano, a gran corsa, per la via, per solito deserta: si sentiva un vociare di gente, e passi affrettati e scalpitii lontani.

Balzò dal letto e schiuse cautamente le imposte: un rosso bagliore illuminò la stanzetta.

Era un incendio: qualche casa ardeva, in fondo alla via. Si vedevano gruppi di gente accalcarsi qua e là, macchine drizzarsi, stantuffi e fumaiuoli luccicare, brillare elmetti di pompieri, e, su tutto, sulla folla, sulle case, sul fondo nero del cielo, una gran fiamma rossa, viva, luminosa, levarsi come una gigantesca bandiera sanguigna.

Il dottor Arsenius guardava quella fiamma, con gli occhi sbarrati: e una ricordanza penosa, una rievocazione orrenda gli sorgeva in fondo all'anima... Sì, egli rivedeva, ora... Non era, forse, così, anche quella sera? Non era lo stesso incendio pauroso e terribile, divorante uomini e cose, nella notte? Ecco che egli, ora, ricordava tutto, tutto... La folla fuggente, terrorizzata, pazza, gli uomini che si facevano strada a colpi di bastone, le donne calpestate, i bimbi raggruppati, stretti gli uni agli altri, le boccucce ancora spalancate nell'ultimo gemito, gli occhi sbarrati nella fissità della morte...

Dalla via saliva, ogni tanto, il lugubre squillo di tromba: brillava, viva, luminosa, la gran fiamma sanguigna... Dio, quante vittime! Quanti innocenti, assassinati da lui!...

Da lui?... Un brivido lo assalì a questo pensiero, che, per la prima volta, adesso, lo colpiva in pieno, come un rimorso implacabile... Sentiva che tutta la cinica sicurezza dei giorni passati svaniva... Era quel fuoco stesso, quella fiamma vincitrice che la distruggeva... Sì, egli era colpevole: egli doveva espiare la sua pena... Il patibolo, la forca... Che importava? Tutto, fuorché soffrire ancora, fuorché avere negli orecchi quei gemiti, negli occhi quella fiamma sventolante come un drappo di sangue.

E come un pazzo, a quel rosso riverbero, si vestì, indossò un pastrano, si cacciò un cappello in testa e corse nella via.

— L'ufficio di polizia? – chiese a un pompiere che passava, curvo sotto una breve scala portatile.

— La strada a destra; in fondo – rispose quello, seccamente, senza voltarsi.

Alla svolta, il gran bagliore dell'incendio non si vedeva più, ma era ancora nel cielo, sopra le alte case, un lieve riverbero rossastro; e ancora giungeva, ogni tanto, lo squillo della tromba.

Un fanale brillava in cima ad un portone, in fondo alla via. Il dottor Arsenius si precipitò in quel portone, salì le scale, infilò un corridoio.

— Il commissario di servizio? – chiese a qualcuno, che sonnecchiava nell'ombra.

— La porta a sinistra – rispose una voce.

Il pomo dell'uscio girò con furore, e il commissario, che in quel momento era gravemente occupato a limarsi le unghie, vide balzare nella stanza uno strano individuo allampanato, che, squassando una chioma tinta di tutti i colori dell'iride, come un vessillo di un bizzarro paese sconosciuto, veniva a cadergli innanzi in ginocchio.

— Io, – disse quell'uomo, ansando, e ponendosi gravemente una mano scarna sul petto – sono l'incendiario che voi cercate da un pezzo... Io sono John Wills!

Il commissario lo fissò un istante, inarcando le sopracciglia, poi, d'improvviso, scoppiò in una risata gigantesca, convulsa, irresistibile.

— John Wills? – balbettò a fatica, ripigliando il fiato. – Ma... se non è mai esistito!...

— Voi... dite...? – chiese il dottore Arsenius, stupito di quella soluzione così inaspettata. – E la circolare della polizia?...

— C'è stata; ma era, invece, della Casa Hawy and Co, che ci preveniva di questa nuova forma di rèclame escogitata per le sue tinture... Converrete che è una rèclame assolutamente americana.

Del resto, – concluse con un tono d'ironia bonaria, vedendo che il vecchio, ancora inginocchiato, lo fissava sbarrando gli occhi grigi – se proprio ci tenete ad essere rinchiuso in qualche posto, provvederemo. Credo di conoscere una certa... pensione che farebbe al caso vostro... Favorite di accomodarvi un momento, signor John Wills...

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