La scoperta del capitano

Il caso, assai spesso, è un amico preziosissimo; e fu proprio per caso che, quella sera di febbraio, svoltando per la cantonata della solitaria via di Santa Margherita, scorsi un carrozzone fermo innanzi al bianco edifizio del manicomio criminale.

— Toh! – pensai. – Il mio amico Salenti ha un nuovo inquilino!

E affrettai il passo per scorgere qualche cosa del triste carico che il lugubre furgone deponeva sulla soglia della casa del dolore; ma, quando giunsi vicino, la vettura girava per andar via e il portone ferrato s'era già rinchiuso, silenziosamente, sull'ospite.

Non so perché il pensiero di quel nuovo recluso, che non m'era riuscito di vedere, mi tornasse alla mente assai spesso, durante la serata. Mi sorpresi più volte, tra un'occupazione e l'altra, a farmi delle domande su questo genere: – Giovane? Vecchio? Un delinquente? Uno sventurato? Donde verrà? Che avrà fatto? Che cosa lo avrà suggestionato? —

E fu con questi pensieri che mi turbinavano ancora nel cervello che mi decisi, la mattina dopo, ad andare a picchiare alla porta del piccolo regno di cui il mio buon amico, il prof. Salenti, era l'incontestato sovrano.

Erano trascorsi molti mesi dalla mia ultima visita all'edifizio; fin dal tempo, cioè, in cui il raccapricciante ed inesplicabile dramma dell'assassino di Cristiano Haller s'era svolto nel mistero della cella. E sapevo che, a norma del regolamento, non avrei potuto vedere nessun nuovo ricoverato finché tutte le formalità giudiziarie non si fossero espletate. Ma fidavo nella mia vecchia amicizia col direttore del manicomio ed anche in quella stella che così frequentemente scintilla sulla via degli audaci.

Il prof. Salenti mi accolse cordialmente, ma finse di cadere dalle nuvole quando io gli chiesi, a bruciapelo:

— Chi è il nuovo ospite che ti è giunto ieri sera?

Tentò di negare, prima; poi, stretto dalle mie domande, mi disse che non lo aveva ancora interrogato, e che tutto quello che sapeva di lui, e che risultava dal rapporto che egli aveva ricevuto, era questo:

Il ricoverato era un capitano di marina mercantile, sopravvissuto per puro miracolo allo scoppio delle caldaie del suo bastimento, che tre o quattro anni innanzi era saltato in aria con quasi tutto l'equipaggio e con i passeggeri. Alcuni pescatori lo avevano trovato aggrappato a un pezzo di tavola, mezzo morto, circondato da frantumi bruciacchiati e da cadaveri informi, e lo avevano salvato.

Egli scampò la vita; ma, dopo una lunghissima malattia, impazzì. E, nel delirio della sua follia, credette di aver fatto una grande scoperta, destinata a rivoluzionare il mondo: una scoperta per cui i bastimenti avrebbero solcato i mari senza aver bisogno di caldaie, né di macchine, né di motori.

— Il Comune, – aggiunse Salenti, – dopo molto tempo e molte istanze della famiglia lo fece rinchiudere nella casa di salute della Trinità. Ed ecco che egli, che era un pazzo assolutamente inoffensivo, dopo poche settimane assassina il segretario della casa di salute. Naturalmente, immaginerai quel che è avvenuto: le solite inchieste, le solite lungaggini burocratiche e, finalmente, un mese dopo il fatto – lo rilevo dal rapporto – me lo spediscono qua.

Tacque un poco, mi fissò col suo sguardo acuto, un po' ironico, e poi mi disse:

—Ti basta?

— No – risposi, franco. – Voglio vederlo.

— Non posso. Il regolamento...

— Che importa, il regolamento? Se tu vuoi...

— Io? Io? Cosa c'entro io?

— Via, Salenti, amico mio, – insistetti. – Assisterò al tuo interrogatorio. Ciò sarà interessantissimo. Non fiaterò, te lo giuro: sarò il tuo amanuense.

Conoscevo troppo il mio amico per dubitare del risultato. Dopo cinque minuti di disputa, egli si levava dallo scrittoio e borbottava:

— Seguimi.

Un momento dopo mi fermavo, con un lieve brivido, innanzi alla porticina della cella n. 5.

* * *

Il capitano era occupato a tracciare dei disegni su certi pezzetti di carta, quando noi entrammo.

Come ci vide, nascose in fretta ogni cosa in tasca e ci guardò, aggrottando le sopracciglia. Era un uomo un po' basso, tozzo, di spalle quadre, a cui il sole degli oceani aveva dato quella patina di terra cotta che è propria di tutti i lupi di mare e che faceva del suo cranio lucido una specie di calotta di rame. I baffi, che gli si erano lasciati, erano rossicci, incolti, e penzolavano selvaggiamente, come quelli del vitello marino.

— Capitano, – disse il prof. Salenti, col consueto garbo con cui trattava i suoi ricoverati – il mio amico ed io siamo due giornalisti, e veniamo a chiedervi di lasciarvi intervistare.

— Su che cosa? – egli chiese, fissandoci con gli occhietti grigi, irrequieti.

— Sulla vostra scoperta, così importante per la navigazione...

— La mia scoperta? – gli occhietti scintillarono fieramente. – E per che farne? E chi siete voi, che volete penetrare nei miei segreti? E perché dovrei fidarmi di voi? La mia scoperta? Sì, essa è grande, essa è immensa, signori: ma non la rivelerò mai ad anima viva; mai, intendete? Il giorno in cui il mondo la adotterà, voi saprete che cosa essa sia; e voi conoscerete allora il principio dell'energia umana che sostituisce il vapore. Ma io non vi dirò come essa si accumuli e si utilizzi... No, no! Troppo ho sofferto ed ho lavorato per riconquistare il mio segreto, perché oggi mi si possa rubare con la forza o con l'astuzia, ancora una volta...

— Rubare? – chiese l'amico mio, intravedendo in quella parola la spiegazione di ciò che egli cercava.

— Rubare; sì, signore! Ah, voi credete che si possano rubare solo i portafogli e gli orologi? Anche le idee si rubano, signore: ve le portano via a tradimento, di notte, capite? Vi si svaligia di un segreto che avete fra le pieghe del cervello, come di un fazzoletto che avete in tasca... E con quali precauzioni... E quali cure per nasconderlo, perché voi vi dichiariate vinto... —

Fece due o tre passi per la cella, poi venne a piantarsi dinanzi al prof. Salenti, risolutamente, ed incrociò le braccia:

— Ebbene, io sono stato più furbo! Io ho saputo cercare, ed ho trovato. E il ladro non è sfuggito alla mia opera di giustizia; no! Ed ho saputo, – io, io solo, comprendete! – ricuperare ciò che mi si era sottratto... —

S'interruppe. Gli occhietti grigi fiammeggiavano; le mani tozze si stringevano nervosamente. Poi, d'un tratto:

— Voi siete giornalisti, è vero? Ebbene, tanto meglio! Io getto in pasto ai vostri lettori il nome del ladro; io lo consacro all'infamia; domani tutto il mondo saprà che quel che io ho fatto è stata giustizia. È bene che sia così! —

Strinse un momento con la mano convulsa il cranio lucente, poi ebbe un improvviso scoppio di riso, stridulo, bizzarro.

— Ah, ah! E dire che quei signori della magistratura volevano sapere... Come se i loro freddi verbali servissero a qualche cosa... Che pretendevano, essi? Giudicarmi? – La sua voce ebbe un'inflessione di orgoglio smisurato. – Gli uomini come me, sono giudicati dal mondo! —

Girò intorno lo sguardo, poi sedette, tranquillamente, accanto a noi, e disse:

— La storia, dopo tutto, è semplicissima.

* * *

— Vi siete mai accorti, – cominciò, dopo una breve pausa, – di avere intorno, nell'ambiente, nell'aria, invisibili ed implacabili, dei nemici? Ognuno di noi ne ha; ma è la celebrità, signori, che provoca un maggior numero di avversarii accaniti... Così, io sapevo di avere dei nemici; solamente, non li conoscevo. Essi erano potenti, questo sì: tanto potenti che avevano influito sul mio regime di vita e avevano incatenata la mia libertà; erano essi, infatti, che mi avevano fatto rinchiudere in una casa triste, paurosa, una di quelle case che si chiamano di salute per ironia, ma che servono ad uccidere, lentamente, coloro di cui ci si vuole sbarazzare... Ma io, che avevo compreso la loro manovra, non li temevo; avevo con me una forza invincibile, il segreto della mia scoperta, che stavo perfezionando: essa stessa, questa forza, quando fosse stata matura, avrebbe spezzato ogni muraglia e mi avrebbe aperto ogni porta. Frattanto, fingevo di secondare il loro giuoco e mi rassegnavo alla prigionia; non grave prigionia, del resto, poi che mi era consentito di girare per i corridoi e per il giardino.

Io preferivo, però, la mia stanzetta, dove nessuno penetrava, dove mi si portava il pranzo e la cena, due volte al giorno, senza disturbarmi, e dove, infine, la mia grande scoperta si perfezionava, con gli ultimi tocchi sapienti, nel silenzioso lavorio del mio cervello.

Era tutta la mia vita, quella scoperta, e tutta la mia ricchezza; ma quale immensa, superba ricchezza! Io la sentivo, possente, palpitante, riempire il mio cervello come una cosa viva: mi pareva che essa pulsasse nelle mie arterie, che gridasse la sua parola vittoriosa da ogni cellula; e mi carezzava dolcemente l'orecchio, come una musica, quando, alla sera, andavo a letto, e mi squillava la sua diana, al mattino, allorché aprivo gli occhi. Era come un orologio, di cui il tic tac accompagnasse ogni azione della mia vita.

...Orbene, signori, conoscete voi tutto ciò che vi è di funebre, di pauroso, di agghiacciante nel fermarsi improvviso e inesplicabile di un orologio? Conoscete tutto il terrore invincibile che mette nel sangue il silenzio inatteso, assoluto, profondo, di una cosa che poc'anzi viveva?

Ahimè, signori, questo terrore brusco, folle, sconfinato, io provai una mattina, destandomi all'improvviso, con la sensazione che qualche cosa in me non viveva più. Io avevo l'impressione dell'arrestarsi subitaneo di un meccanismo; io sentivo il soffio gelido del silenzio!

Balzai dal letto, schiusi a precipizio le imposte della finestra e attesi, come se la luce avesse potuto fugare quelle tenebre interne che sentivo tutto ad un tratto accumulate in me. E, per prima cosa, lo sguardo mi corse a un foglio di carta che era lì, sul tavolino, un foglio sul quale, la sera innanzi, avevo tracciato gli ultimi calcoli della mia scoperta.

Lo afferrai, con le mani tremanti, macchinalmente, lessi, rilessi; delle cifre, dei gruppi di numeri, dei segni convenzionali... E poi? Il significato di tutto ciò mi sfuggiva; mi pareva che quella scrittura fosse di altro: io non la comprendevo più.

Mi portai le mani al capo, sbigottito... Sentii che nel cervello qualche cosa era svaporata... Ebbi paura di interrogare me stesso, di scoprire, di sapere... Ma, ahimè! l'orribile verità mi apparve subito: il mio cranio era vuoto; vuoto come un vaso di creta dal quale per una fessura improvvisa, tutto il liquido fosse andato via, a goccia a goccia; vuoto di ciò che conteneva, di tutta la sua vita, di tutta la sua ricchezza; vuoto del suo segreto, di quella scoperta che tanti anni e tanti sforzi avevano resa immensa, possente, gigantesca come il genio umano! Non mi restava più nulla, comprendete? Più nulla! Il vuoto, il buio, il silenzio! Il mio cervello era stato svaligiato!...

* * *

Stetti a lungo col capo fra le mani contratte, a fissare quel foglio di carta che per me, ora, non aveva più nessun significato. Poi, a poco a poco, cominciai a pensare:

— La cosa è avvenuta stanotte. Il ladro è venuto di soppiatto, ha profittato del mio sonno ed ha compiuto il suo delitto. Ma lo ha veramente compiuto? No... Egli, nella fretta, non ha pensato di portar via qualche altra cosa: il ricordo della mia scoperta. Io so che avevo una ricchezza, che mi si è involata... Dunque io posso mettermi alla ricerca del ladro, io posso consacrarmi a rintracciare ciò che mi è stato rubato. Era il ricordo, che egli doveva far sparire, col resto... Non lasciarmi niente, niente, un velo di nebbia tra il mio passato e me. Io dovevo ignorare persino di essere stato la vittima di un così atroce furto... Ladro inabile! Ha lasciato il grimaldello nella toppa della cassa forte depredata!...

Non posso celarvi, signori, che questa riflessione mi rasserenò alquanto. Quando il ladro è poco pratico, si lascia scoprire più agevolmente... A volte, anche, ha l'ingenuità di ritornare sul luogo del delitto, per fare sparire le tracce dell'opera sua; ed è allora che cade fra le braccia della polizia.

Ed ecco che un pensiero mi traversò d'improvviso la mente: – Se egli tornasse stanotte, a compiere l'opera sua?

...Io non vi ridirò, signori, qual notte di ansie angosciose io passassi: mi pareva, nelle tenebre, di intravedere delle ombre, di sentire, nel silenzio, uno scricchiolar di cardini, uno scalpiccio di passi... Mi sforzai di star desto, ma una sonnolenza mi vinse, a poco a poco, e verso l'alba mi assopii, dimenticando i miei terrori, e il ladro, e tutto il resto...

E d'improvviso – è la verità che vi dico, signori – una strana sensazione, come di una ventosa che mi si fosse attaccata all'occipite, mi ridestò... Qualcuno mi succhiava il cervello, piano piano... Il ladro era ritornato, e stava per portar via le ultime tracce del suo furto... Domani non avrei ricordato più nulla... Insensibilmente, con circospezione, rattenendo il fiato, raccolsi tutte le mie forze... Fu un minuto di spasimo atroce: sentivo il cuore che mi sussultava, le tempie che mi martellavano; ebbi paura che quelle pulsazioni mettessero in allarme il ladro... E, d'un balzo, saltai sul letto, mi volsi e stesi le braccia.

Le mie mani incontrarono il vuoto: ma un soffio mi sfiorò il viso e, per un istante, intravidi qualche cosa che mi fissava, lampeggiando, nell'ombra: degli occhi gialli, fosforescenti, che si dileguarono subito...

Cinque secondi dopo, la lampadina elettrica rischiarava la mia stanza. Non v'era nessuno. Tutto era in ordine, e uscio e finestra erano ben chiusi.

Si sarebbe giurato che io avessi sognato, se non mi fosse rimasta, ancora, sull'occipite, la spaventevole sensazione di una oscena bocca aspirante...

* * *

...Il mio piano era semplicissimo: ingannare il nemico, fingere che non mi fossi accorto di nulla, ma iniziare un lavoro di ricerca paziente, abile, minuta...

Dove aveva potuto celare il mio segreto, l'ignoto ladro? Ecco la mia prima domanda. Chi era il colpevole? Ecco la seconda.

E il mio lavoro cominciò, con una perspicacia della quale io stesso andavo superbo. Ho detto che mi era consentito girare da per tutto; potevo, quindi, a mio bell'agio, guardare, fiutare, frugare... Dai corridoi alle scale, dalle scale ai cortili, dai cortili al giardino, nulla sfuggì ai miei sguardi scrutatori: non un cantuccio, non un nascondiglio...

E, come le cose, gli uomini che incontravo erano tutti frugati dal mio sguardo, senza che potessero accorgersene. I guardiani, il medico, i ricoverati... Peuh! Tutta gente incapace di commettere un delitto così audace...

Dovevo rivolgere altrove le mie ricerche; ma dove? ma come?

Ricordai, a un tratto, che, a mezzo le scale, attraverso un uscio socchiuso, avevo una volta intravisto degli scaffali in cui si allineavano delle bocce di cristallo. Che cosa si conteneva, in esse?

E, un mattino, assai presto, mi azzardai a scendere per le scale: non v'era nessuno. Riconobbi l'uscio: era chiuso a chiave, ma la chiave era nella toppa.

Piano piano, senza far rumore, apersi: la stanza era vuota: entrai, rinchiusi, e misi la chiave in tasca. Ero solo, e libero di agire...

Guardai intorno: lungo le pareti, allineate su scaffali di abete verniciato, erano delle bocce ricoperte di pergamene e suggellate, ed ogni boccia aveva un cartellino, con un numero ed un nome.

Mi avvicinai, sorpreso: erano dei cervelli, dei cervelli umani immersi nell'alcool...

Un fremito mi scosse: non era, non doveva essere, in uno di quei cervelli, rinchiuso il segreto rubato a me? E dove, dove meglio che in un cervello poteva celarsi ciò che era stato succhiato da un altro cervello?

Una smania febbrile allora mi vinse; avrei voluto sventrare tutti quei vasi, cavar fuori tutti quei cervelli, squarciarli, frugarli, tutti, tutti, ad uno ad uno... Ma ne avrei avuto il tempo? E quei nomi sui cartellini non mi dicevano, forse, che si trattava di altre vittime, di altri sciagurati, derubati, forse come me?

Lo sguardo mi corse, a un tratto, a una boccia che era sul tavolo, in fondo alla stanza; quella boccia era ancora scoperta, e non aveva cartellino... A chi apparteneva quel cervello? Era quello il cervello-nascondiglio che io cercavo?

Sì, sì, quello, doveva essere... Là, doveva trovarsi ciò che era mio. E, senz'altro, mi avventai sul tavolo, cacciai le mani tremanti nell'alcool, ne trassi il cervello, lo esaminai, lo apersi, lo disfeci, con una ebbrezza crescente, guardando, fiutando nelle più riposte cellule, aspettando di vedere, di sentire, di riconoscere qualche cosa. Nulla! Nulla! E le mani stanche lasciarono ricadere la grigia poltiglia umana, che intorbidò l'alcool, dissolvendosi in una nebbia sudicia...

Ancora una volta mi ero ingannato. Era un cervello vivente, che dovevo frugar così. I segreti non possono nascondersi nel cervello di un morto.

* * *

Che cosa ero andato a fare, in quel pomeriggio di sabato, nel tetro giardino del nostro ospizio? Io non lo ricordo: forse, mi aveva attratto la malinconia del crepuscolo, che riempiva il giardino di un volo di pipistrelli: forse, mi aveva chiamato la dolce canzone suggestiva di Domenico, l'inserviente, che spaccava legna nel viale di mezzo, accompagnando gli scrosci della sua scure con un ritornello campagnuolo.

Ma Domenico non era solo: un altro era là, a qualche passo da lui, presso la fontana, e fumava, scambiando qualche parola con l'inserviente, tra una strofa e l'altra, e guardava l'acqua morta della vasca.

Non so perché, ebbi un brivido di freddo e restai inchiodato al suolo. Perché mai quell'uomo fissava quella vasca? Che cosa vedeva, in quell'acqua?

Colui, a un tratto, si volse a mezzo, e mi vide.

— Toh! – disse, – Siete voi, capitano? —

Lo conobbi: era Taddi, il segretario di amministrazione, un giovane cupo e taciturno che non si vedeva quasi mai, rinchiuso nel suo ufficio tutto il santo giorno; uno di quei pochi che io non avevo incontrato più di due o tre volte, da quando ero ospite della casa.

La sua voce mi colpì: mi parve stridula, secca, una voce perversa...

— Ebbene, capitano, – egli ripigliò, tornando a fissare la vasca, con ostinazione. – E la vostra scoperta? —

Trasalii: quella domanda a bruciapelo mi fece l'effetto di un ferro rovente che mi toccasse la schiena. Mi parve, non so perché, che egli sogghignasse.

La mia scoperta? E perché me ne parlava, egli? E perché, parlandomene, fissava l'acqua, l'acqua, – comprendete? – sulla quale la mia scoperta avrebbe regnato, l'acqua, che l'energia umana, trasformata in forza motrice, avrebbe percorsa, dominata, vinta?

Io tacevo, perplesso, ed egli, sorpreso del mio silenzio, si rivolse, e mi guardò.

Vidi allora, chiaramente, nitidamente, brillare, attraverso gli occhiali – egli era presbite, credo – due pupille gialliccie, stranamente luminose, due pupille che, potevo giurarci, nell'ombra dovevano essere fosforescenti, come quelle di un gatto.

Dio! Erano le pupille che io conoscevo!... Ma dunque... dunque io avevo trovato ciò che cercavo, dopo tanti vani sforzi? Dunque il mio scopo era raggiunto? Dunque avevo toccato la meta? E così, d'improvviso, senza che io vi fossi preparato?

Queste domande mi si affollarono nel cervello, mi misero una strana eccitazione nel sangue; sentii che stavo per tradirmi... – Coraggio! – pensai – Giuochiamo d'astuzia. Lo credereste, signori? Provai allora la voluttà indicibile del gatto che ha il topo a portata della sua zampa e che vuole assaporare lentamente l'agonia della sua vittima... Nessuno scatto: la cosa doveva compiersi con delicatezza... Perché affrettarsi?

E cominciai, allora, un discorso vago, un discorso che pareva dovesse menare chi sa dove; e frattanto giravo lo sguardo intorno, per vedere se vi fosse qualcuno, in giardino o alle finestre... Nessuno: anche Domenico si era allontanato, forse per riporre i ceppi spaccati in cantina.

Ma la scure era là, in mezzo al viale, e brillava, brillava come una pupilla che ammiccasse, nella luce crepuscolare.

Ed io parlavo, e parlavo, e, a poco a poco, con una abilità sopraffina, mi avvicinavo alla scure, che pareva mi aspettasse...

Egli taceva. Forse, mi ascoltava; forse, era occupato a guardare l'acqua, con quello sguardo fisso che lo aveva accusato, fin dal primo momento. (Perché, perché guardar l'acqua, se non era lui il ladro? Non è così, signori?) E non mi vide, quando io mi curvai, dolcemente, senza parere, a raccattare qualche cosa; e non mi vide quando, pian piano, con la stessa dolcezza, io mi avvicinai a lui, e gli fui alle spalle.

Ed io parlavo e parlavo... Quante cose dicevo, in quel momento! Ed erano cose sennate, sappiatelo, ed egli, se le sentiva, doveva pensare che io fossi, oltre che un grande inventore, un pensatore di prima forza.

Tutto ciò, credetelo, mi divertiva: una gioia indicibile mi allargava il cuore... Come era facile vendicarsi di lui! Non ritrovavo, forse, nella sua imprevidenza, il ladro inabile di quella notte?

E d'un tratto pensai: – Occorre finirla. – Ero proprio a un passo da lui. Bastava stendere le braccia.

Gridai: – Ladro! – E, con uno scroscio di riso acuto, terribile, pauroso, levai la scure... e colpii.

Un cranio si fende più facilmente di un tronco, signori. Nessuno sforzo, credetelo...

Ed ecco che il suo cervello era là, allo scoperto. Ecco che il nascondiglio del mio segreto era in mio possesso... Dio! Quale urlo di gioia! Quale ruggito sconfinato, che echeggiò in tutto il giardino, come nessun altro ruggito umano!

E fu così che mi trovarono ancora avviticchiato a quel cranio, un quarto d'ora dopo, per terra, accanto alla vasca...

La scure non brillava più. Era troppo rossa di sangue...

* * *

— E la vostra scoperta? – chiese, dopo una pausa, il prof. Salenti, con l'imperturbabilità dello scienziato.

— L'ho ricuperata! – esclamò il capitano, balzando in piedi. – Ed ora essa è qui, qui, sicura, salda, ben custodita, – e si batté con forza il cranio lucido, – e nessuno potrà strapparmela più, mai; e quando vorrò, fra un mese o fra un anno, essa correrà il mondo, vittoriosa, trionfante, immortale!

— La venderete? – chiesi, timidamente.

Egli mi fissò, sorrise e proclamò, con solennità:

— Venderla? Mai! Essa è destinata alla salvezza delle genti! La regalerò all'umanità. La scienza è filantropia!

— Filantropia! – mormorò il mio amico Salenti, nel corridoio, col suo intraducibile accento d'ironia. – Via, per un assassino, la parola non è cattiva!...

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