Una terribile vigilia

La cena tradizionale era finita, e sulla tavola, ancora luccicante di argenterie e di cristalli, i liquori, attraverso i sottili calici, avevano riflessi d'oro e di rubini.

Venivano, dalla via, or più sonori or più fiochi, per il vento che soffiava, a tratti, i rintocchi delle campane di mezzanotte.

— Che notte gelida! – mormorò la contessina Doletti, con un brivido che la scosse tutta e le fece cacciare il nasino fra le piume del boa. – E pensare che tanta gente è costretta a passare la vigilia di Natale all'aria aperta, al freddo, alla neve, mentre noi, qui...

— Al diavolo la retorica! – interruppe il babbo Doletti, che aveva ben pranzato e non voleva guastar la digestione con riflessioni melanconiche.

Ma da parte delle signore si protestò: lo champagne metteva nei cuori una certa tenerezza e si sentiva il bisogno di commuoversi un poco, di avere un lieve velo di lacrime nelle pupille, sorbendo il caffè.

— La mia opinione è – volle proclamare allora il commendatore Giorgi, a cui nessuno aveva chiesto di manifestarla – che in questa notte non c'è un cane che non s'ingegni a fare il suo bravo Natale come può. Chi mi parla di sofferenze e di sciagure «in questa solennità dell'anno così universalmente celebrata», fa della poesia.

— Cioè... – interruppe una voce che fino a quel momento non aveva preso parte alla discussione, e poi si tacque, prudentemente.

— Chi parla? – chiesero tutti, in coro. E subito dopo si gridò gaiamente: – Toh! È il dottor Galba! Il dottore che ha da ridire sulla teoria di Giorgi! Parli! Parli! Si spieghi! —

L'accesso di filantropia melanconica era svanito come per incanto: la gaiezza del buon pasto fatto dava una vivacità esuberante a tutti i commensali. Le bocche si spalancavano, le mani picchiavano in cadenza sulla tavola, in un tintinnare di bicchieri e di tazze cozzanti.

— Parli! Parli!

— Ecco, signore mie, – ripigliò lentamente il giovane ed illustre anatomico, rivolgendosi alla parte più eletta del suo uditorio. – Io non volevo smentire il commendator Giorgi; volevo, solamente, fargli notare che v'è, almeno, qualcuno che ha passato la notte di Natale nel modo più orribile che possa mai immaginarsi, e che non può ricordare questa «solennità dell'anno così universalmente celebrata» senza un fremito di terrore...

— Lo conoscete?— chiese, con la sua vocina dolce, la contessina sbarrando gli occhioni color di mare, mentre gli altri tacevano, aspettando.

Il dottor Galba sorrise, guardando macchinalmente la bottiglia sottile nella quale riluceva una chartreuse trasparente come l'ambra, poi disse, brevemente:

— Sono io stesso.

* * *

Alle insistenze di tutti, si decise, e parlò, con la voce chiara e piana con la quale faceva le sue lezioni all'Università.

— Otto o nove anni or sono – egli incominciò – ero semplice coadiutore all'ospedale di Santa Margherita: un ospedale grigio, triste, un vecchio convento di frati, dalle facciate piene di crepacci e forate da numerose finestre, con una lunga fila di archi, al pianterreno, e un giardino incolto, scapigliato, tutto pieno di buche e di sassi, tutto irto di rovi e di erbacce.

Ogni tanto, solchi minacciosi si aprivano alle pareti, pezzi di cornicioni cadevano, e bisognava far riattare alla meglio dai muratori. Questo stato di cose durava da moltissimo tempo, ma le autorità provinciali, dalle quali l'ospedale dipendeva, non se n'erano mai soverchiamente preoccupate.

Un giorno, ai primi di dicembre, giunse uno sventurato, un pastore che era stato morsicato da un lupo arrabbiato. Il professore Chimenti, che dirigeva l'ospedale, lo presentò alla sua scolaresca ed a noi, suoi coadiutori, come un caso importantissimo, tanto più che non c'era speranza di salvarlo, e ci parlò delle teorie di Pasteur, che allora erano recentissime, del virus e del tempo in cui si svolge la sua azione fatale e della orrenda agonia che è serbata a tutti gli infelici che non ricorsero in tempo al soccorso della scienza.

— Quest'uomo, – egli aggiunse, nel silenzio profondo della sala – è condannato. Fu morsicato sei giorni fa; l'incubazione può essere di settimane o di mesi interi, ma ogni rimedio, oggi, arriva troppo tardi. —

Le parole suonavano limpide, recise, inesorabili. Innanzi a noi tutti, medici e studenti, il soggetto, sdraiato in una poltrona, era guardato a vista da due giganteschi infermieri. Il grosso capo arruffato di montanaro era chinato sul largo petto, che un respiro profondo e lievemente affannoso scuoteva con ritmo eguale, e gli occhi, sbarrati, fissavano stranamente il vuoto; due occhi glauchi, buoni occhi sereni di chi non conobbe che il suo armento e la sua montagna e che, ora, qualche cosa di tragico e di fatale aveva resi cupi, torbidi, come atterriti da una lontana visione di strazi senza fine... Stava, così, immobile, senza vederci e senza sentirci: solo, le mani, brune e nodose mani innocenti di contadino, avevano un movimento eguale, meccanico, schiudendosi e richiudendosi quasi per afferrare una cosa che fuggisse...

Istintivamente il cerchio degli ascoltanti si era allargato, a poco a poco, ed anche gli infermieri si erano allontanati di un passo. Il professore Chimenti ci guardò tutti ed ebbe un lieve sorriso di superiorità.

— In questo stato – egli disse, accarezzandosi la barba bianca, quietamente – non è pericoloso. Verrà, più tardi, il periodo acuto, il periodo terribile, complicato dagli attacchi di epilessia, di cui soffre; ed allora – qui il sorriso schernitore ritornò sulle labbra sottili – non consiglierei a nessuno di avvicinarlo. Lo stesso lupo che lo ha morsicato ne avrebbe paura... Fortunatamente il gabinetto che lo rinchiuderà, allora, è bene imbottito e la porta ne è solida...

Fantoni, Cima, – concluse, volgendosi ai due infermieri – riaccompagnatelo. Signori, oggi all'Università parleremo di questo caso patologico. Signori coadiutori – disse poi a me e al mio collega Becci – a domani.

Salutò gravemente e andò via, col suo passo misurato di scienziato rispettabile.

Dietro a lui, i due infermieri ricondussero il morsicato, reggendolo per le braccia. Ed egli non si volse, allontanandosi; camminava pesantemente, trascinando gli scarponi ferrati, e il grosso capo gli penzolava sempre sul petto, abbattuto, come vinto dal peso di una condanna fatale.

* * *

Che terribile mese, fu per me quello! Come se non fossero bastate le occupazioni di coadiutore e le lunghe ore passate a studiare febbrilmente ed incessantemente, per prepararmi all'esame di pareggiamento, che vagheggiavo da un pezzo e a cui mi incoraggiava, con grande benevolenza, il professor Chimenti – che mi aveva concesso di alloggiare nell'ospedale stesso, per potermi servire dei cadaveri della sala anatomica – ecco che, una mattina, una visita inaspettata di ingegneri della provincia si accerta dell'urgenza di alcuni importanti lavori di riparazione ed ordina che l'ala destra dell'edificio sia sgombrata da cima a fondo e che i malati si rifugino tutti, provvisoriamente, nelle poche sale disponibili dell'ala sinistra.

Si trattava di adattarsi alla meglio per qualche mese, finché le riparazioni più urgenti non fossero compiute. Dovevo sloggiare anch'io dalla stanzetta assegnatami, e mi ci rassegnai a fatica.

In poche ore lo sgombro fu fatto: per le scale fu un continuo andare e venire di barelle, di ammalati in camiciotto e berretto bianco, di convalescenti trascinantisi sul bastone, di infermieri carichi di coperte, di materassi e di bottiglie d'ogni sorta. Poi, mentre tutte le porte si chiudevano paurosamente, ed ammalati, convalescenti e perfino i medici di guardia si mettevano in salvo, una specie di grosso involto, una grossa coperta di lana rossa, stretta intorno a qualche cosa che si dibatteva, passò, sorretta da quattro infermieri, sotto gli archi del pianterreno, come una visione paurosa, e disparve dietro la fila delle colonne.

— Abbiamo improvvisato una cella in un vecchio ripostiglio dei frati, in fondo a un corridoio oscuro e deserto, al primo piano – mi spiegò più tardi Fantoni, ancora agitato da un lieve tremito – e lo abbiamo portato a braccia là. Ma non è la cella che gli era destinata, la solida cella ben chiusa e ben garantita... Non è la cella che occorre per lui, ora specialmente che la cosa terribile è cominciata... Fortunatamente, fra qualche giorno andrà via, all'Ospedale Maggiore, e respireremo. —

Lo guardai in volto: era assai pallido e grosse gocce di sudore gli rigavano la faccia: di un sudore che non era soltanto per la stanchezza.

E un fremito strano, una specie di brivido bizzarro, che ora non saprei descrivere, mi assalì, quando l'infermiere riprese, rispettosamente:

— Ed ora, dottore, posso mettere a posto anche le vostre cose: il direttore vi ha assegnato, provvisoriamente, una stanza in quel corridoio...

Ripresi subito il dominio di me stesso, e dissi, brevemente:

— Fate pure.

E la sera stessa mi istallai, con i miei libri e i miei strumenti, nella nuova cameretta: una antica cella che metteva, come tante altre, chiuse e vuote, nel lungo e oscuro corridoio, a capo del quale era la stanzuccia dove la cosa terribile avveniva, senza che forza umana potesse scongiurarla...

* * *

Voi non potete immaginare, amici miei, che cosa triste e strana, insieme, sia il Natale in un ospedale. La festa della famiglia, così dolce e così cara, assume un carattere infinitamente pietoso, fra le lunghe file di letti bianchi, dove si soffre e si agonizza.

Agli altarini eretti in fondo ai corridoi brillano le candele, le vetrate sono lustrate coscienziosamente, si cerca di dare un'aria di gaiezza alle squallide sale; ma il cuore si stringe, a pensare che, fuori, la gente si affretta per le vie, con le braccia cariche di fagotti, per portare la strenna di Natale ai parenti ed agli amici, anelante di trovarsi al caldo, in un bel salotto luminoso, in una sala da pranzo gaia e affollata, e che nelle cucine ardono i focolari, e gli spiedi girano allegramente, e le campane cantano la dolce nenia del bambino Gesù.

Avevamo, quell'anno, pochi ammalati, alla vigilia di Natale: parecchi se n'erano andati, in quegli ultimi giorni, felici di tornare alle case loro, altri, dopo lo sgombro dell'ala destra dell'edificio, erano stati inviati a un altro ospedale, all'altro capo della città: così che, dopo la consueta visita mattinale del professor Chimenti, avevo ottenuto di lasciare l'ospedale, durante la giornata, alle cure degl'infermieri, per tornarvi a tarda sera, dopo la cena, per la quale ero stato invitato in casa di un mio collega ammogliato.

Soltanto, siccome prevedevo che, al mio ritorno, gl'infermieri sarebbero stati, ad onta del rigoroso divieto, un po' troppo allegri, perché, tanto, non si poteva impedire che bevessero qualche bicchiere, fra loro, per celebrare la festa, avevo disposto che avessero trasportato nel corridoio in cui s'apriva la mia stanzuccia i due cadaveri che si trovavano da poche ore nella sala mortuaria, per potermene servire per gli studi speciali che andavo compiendo sull'anatomia del cervello e del sistema spinale, il giorno seguente, di buon'ora, prima che il carro funebre venisse a prenderli per sotterrarli.

Quando fui sicuro che tutto fosse a posto, che nulla mancasse agli ammalati, che le prescrizioni fossero state rigorosamente osservate, ripassai per la mia stanzuccia, dove custodivo i miei libri e i miei strumenti, la chiusi con cura, intascai la chiave e, attraversando quella parte del lungo corridoio che metteva alla scala, andai via in fretta, ansioso di respirare una boccata d'aria libera.

Ero agli ultimi scalini, quando giunse fino a me un gemito lungo, straziante e pauroso, come un latrato, e, insieme, un furioso scrollar d'uscio: mi fermai un istante, rabbrividendo, ma il gemito e il rumore si quietarono.

— È lui, – pensai, con un certo rimorso, perché, andando via, ero passato innanzi alla sua porticina senza rivolgergli neppure un pensiero pietoso. – È lui, nell'ora terribile... Dio lo assista...

E subito dopo, percorsi i viali sassosi e intricati di rovi del giardino, infilai il portone ed uscii all'aperto.

Com'era azzurro quel cielo di dicembre, e come pareva che, intorno, le cose e gli uomini fossero felici, in quella limpida e fredda vigilia di Natale!

* * *

La cena si protrasse assai più di quel che avessi supposto, ed un vino d'Abruzzi piacevolmente frizzante mi trattenne molto volentieri alla tavola del mio amico. Era circa la mezzanotte quando, con un passo che era, certo, frettoloso, ma che non potrei giurare fosse molto sicuro e rettilineo, rientravo all'ospedale. Il portinaio, che mi venne ad aprire, era anche meno sicuro della sua perpendicolare e, da alcune bottiglie vuote che scorsi sulla sua tavola, nella cameretta destinatagli, mi accorsi che non aveva dovuto festeggiare da solo la vigilia: forse, i due infermieri di guardia gli avevano fatto compagnia, da buoni camerati, ed ora dovevano dormire in qualche poltrona, chi sa in quale cantuccio di corsia.

D'altra parte, Dio buono, non tutti i giorni è Natale, e un medico dev'essere abbastanza filosofo da saper chiudere un occhio quando un infermiere li chiude tutti e due per russare...

Non vi so dire come mi sembrasse interminabile e pieno di ingombri, al buio, quel viale che conduceva alla parte più lontana e solitaria dell'edifizio, dov'era la mia stanzuccia. Finalmente, quasi a tentoni, potei infilare la scala e, con l'aiuto di una mezza dozzina di cerini, percorrere il primo tratto del corridoio e raggiungere la mia stanza.

A pochi passi dalla porta, nel corridoio, indovinai due corpi ricoperti da un panno, su due barelle: erano i cadaveri che avevo richiesti.

Come entrai, chiusi in fretta l'uscio a chiave, accesi una candela e caddi a sedere sul letto, un po' stordito: confesso che quel vino d'Abruzzi mi aveva messo uno strano lavorìo nel cervello, ed io, che non ho avuto mai paura dei cadaveri, quella notte provavo una strana sensazione di sgomento all'idea di quei due corpi immobili, lì, a pochi passi dall'uscio.

Provai a pigliar sonno, ma non vi riuscii: avevo un continuo ronzìo negli orecchi e mi passavano innanzi agli occhi strisce di fuoco ondeggianti e raggruppantisi in figurazioni fantastiche...

—Animo! – dissi fra me. – Ricorriamo ai libri.

E subito dopo, spalancato un grosso trattato di anatomia, tedesco, mi sprofondai in una lettura macchinale.

Da quanto tempo leggevo? Non potrei dirlo: ricordo, però, che gli occhi mi si cominciavano a chiudere sopra una noterella in caratterino fitto, quando mi parve di sentire un rumore nel corridoio. Ascoltai: il rumore cessò. Ma, dopo una breve pausa, ricominciò, più distinto, come se si avvicinasse. Era una specie di gorgoglìo, come un sibilo trattenuto nella strozza: pareva il rantolo di un moribondo che si trascinasse senza nessun calpestìo...

— I morti! – pensai, balzando in piedi, in un primo momento di terrore, dovuto, evidentemente, allo stato di allucinazione in cui mi aveva piombato il vino. Poi, riflettendo a mente più calma, aggiunsi: – Che qualcuno di essi si sia riavuto da uno stato di catalessi? —

I casi ne erano frequenti, e, più che l'amore del prossimo, il mio dovere di medico dell'ospedale mi imponeva di assicurarmene.

Il sibilo continuava, a tratti, ma, ascoltando meglio, io lo sentivo ancora lontano dal mio uscio; e i due cadaveri, invece, erano abbastanza vicini.

— Che sia qualche infermiere che russi? – ripresi, con la mano alla chiave nella toppa e l'orecchio teso.

Ma subito dopo un'altra idea mi rassicurò: il corridoio, disabitato da diecine di anni e non interamente esplorato da noi, doveva dar ricetto a bestiacce di tutte le specie, dai grossi topi ai gatti inselvatichiti.

— Aver paura di un topo! – dissi a me stesso. – Via, ritorna uomo! E spalancai d'un colpo l'uscio. Ma nello stesso tempo la candela si spense. Un soffio di vento, come venuto da qualche altra porta spalancata nel corridoio, mi sfiorò il viso e mi fece sussultare. Quale porta poteva essersi aperta, se tutte le celle erano disabitate?

Tutte,... tranne una: la cella dell'idrofobo!

A questa idea le mani tremanti lasciarono cadere la candela spenta: e, invece di tornare nella mia cameretta, perdetti la testa e mi slanciai nel corridoio, al buio, senza sapere dove andassi a finire.

Avevo fatto appena pochi passi quando inciampai in un ostacolo e caddi: su me cadde qualche cosa di greve e di stecchito, che mi si rovesciò addosso. Sentii, con ribrezzo, che era uno dei due cadaveri. Ma, nello stesso tempo, un corpo umano vivente si slanciò su me e sul morto, e un mugolìo feroce, come d'un cane che ringhi, mi suonò all'orecchio. D'un balzo mi cacciai sotto l'altra barella, mentre sentivo uno scricchiolare di denti rabbioso... Quel cadavere mi aveva salvato la vita; per il momento, almeno!

Mi risollevai pian piano, con la fronte bagnata d'un sudore gelido, e cercai di allontanarmi senza far rumore, mentre lo scricchiolìo orribile delle mascelle continuava, nelle tenebre.

Dove mi sarei rifugiato? Come mi sarei salvato? In quell'angolo deserto dell'edifizio nessuno poteva sentirmi: nell'altra parte dell'ospedale, abbastanza lontana da me, tutti dormivano. Ero solo, completamente solo, in un corridoio oscuro e a me perfettamente sconosciuto, non avendolo mai esplorato per tutta la sua lunghezza, nelle sue infinite svolte che si perdevano sotto le arcate piene d'ombra e di mistero, dove da diecine di anni creature umane non erano più passate; solo, di fronte a un idrofobo, nell'ora più terribile della sua crisi fatale!

Per un pezzo lo scricchiolìo continuò: lo sentivo sempre più lontano, mentre io mi avanzavo sul pavimento sconnesso, con passo vacillante, tastando, con le mani che mi tremavano, le porte delle celle, inesorabilmente chiuse.

Mi ero appena arrestato un istante, appoggiandomi a un pilastro, stringendo fra le mani le tempie che mi martellavano spaventosamente, quando un latrato acutissimo e orrendo suonò sotto le arcate e sentii il rumore secco di qualche cosa che cadeva d'un colpo a terra. Egli aveva lasciato cadere il cadavere: la caccia al vivo ricominciava...

E la fuga fantastica, la tremenda fuga nelle tenebre, incalzata dal pericolo più atroce che possa mai minacciare umana creatura, fu ripresa, per il corridoio infinito...

Avanzavo a piccoli passi, trattenendo il respiro, strisciando lungo il muro, tastando disperatamente le porte delle celle, scivolando dietro i pilastri, inciampando nei mattoni smossi, con quel rantolo alle spalle che, a volte, diveniva un ringhiare feroce, a volte un mugolìo sommesso, scoppiando talora in un urlo lugubre come l'ululato del lupo. Ma la cosa più spaventosa e terribile era la mancanza assoluta di ogni scalpiccìo: quell'essere, che non era più un uomo, non camminava, trascorreva sull'impiantito come un fantasma... Lo sentivo sempre più vicino, indovinandolo dal rantolo... E quell'inseguimento senza rumore di passi, quella caccia muta e instancabile, mi atterriva come una cosa soprannaturale, dalla quale non potessi mai scansarmi, e che dovesse durare per un tempo infinito, come un supplizio infernale per il quale si morisse a goccia a goccia, consunti dal terrore più folle...

Non finiva mai più, dunque, quel corridoio? Altre arcate si succedevano a quelle arcate? Altri pilastri a quei pilastri? Altre celle a quelle celle?

D'un tratto, a una svolta, intravidi una luce: un pezzo di cielo stellato incorniciato da un finestrone, in fondo al corridoio.

Mi slanciai a quella volta, deciso a precipitare da quel finestrone, piuttosto che a finire dilaniato dall'idrofobo. Scavalcai risolutamente il davanzale e mi accorsi, con gioia inaspettata, che sotto di esso correva una impalcatura che serviva, durante il giorno, ai muratori incaricati di restaurare quell'ala dell'edifizio.

L'impalcatura non era molto lunga, ma una trave orizzontale, avanzo del resto dell'impalcatura già disfatta, sporgeva da essa ancora per alcuni metri: sotto, era il giardino dell'ospedale.

Raggomitolato sulle tavole, attesi col cuore in tumulto: le stelle brillavano, nella notte serena, ed era un gran silenzio, intorno. E il pensiero, in quell'ora terribile, corse alla mia famiglia lontana, che in quella limpida notte di Natale dormiva, ignara del pericolo che incombeva su me...

Improvvisamente, sentii che le tavole cedevano al peso di un altro corpo, ed al lume delle stelle lo vidi, allora, diritto, col grosso capo chino sul petto e le mani che annaspavano nel vuoto, fermo al principio dell'impalcatura. Dalle labbra semiaperte il rantolo sibilava, sommesso, e gli occhi, nella notte, brillavano come quelli del lupo. Mi cercava. Carponi, celato da un incrocio di travi, ero nascosto al suo sguardo. Egli stette un istante, immobile, poi ebbe un altro ululato, si contorse, tese le braccia innanzi e si avventò...

Non avevo altra salvezza che in quella trave sporgente: una trave non più larga di un palmo ed alta una dozzina di metri dal suolo. L'arrischiarmi su quella poteva essermi fatale, ma anche all'altro poteva costare la vita, tanto più che le sue contorsioni frequenti potevano fargli perdere facilmente l'equilibrio.

E d'un balzo, strisciando carponi come un gatto, mi avventurai su quello stretto sostegno che finiva nel vuoto. Il giardino, sotto, si apriva come un baratro oscuro: pareva, nella notte, una bocca gigantesca spalancata per inghiottirmi.

A metà del percorso mi rivolsi cautamente, con le braccia e le gambe strette alla trave, che a quel punto già cominciava ad oscillare.

Egli era là, alla fine dell'impalcatura, dondolandosi lentamente, col movimento stupido di un orso, annaspando convulsamente con le mani; ne vedevo distintamente, alla luce delle stelle, il grosso capo arruffato, che penzolava sul petto...

Quanto tempo restammo così, in una tregua paurosa? Fu un minuto, un'ora, una notte intera?

Il ricordo preciso della cosa mi sfugge: ho sempre negli orecchi, però, il rantolo angoscioso, sempre più fioco, dell'infelice, e sento ancora, come se fosse in questo momento, l'oscillazione della lunga trave sotto il peso del mio corpo, tremante come per febbre.

Pareva che egli non avesse più la forza di muoversi, e ansimava, accosciato sulle ginocchia, già vicino, forse, a morire, quando una novella crisi lo scosse, una crisi tremenda ed improvvisa. Si levò allora in piedi, dimenando le braccia, squassando il grosso capo, ruggendo, con un urlo che si spegneva in una specie di sogghigno e, cosa strana ed orribile, parve che cominciasse a danzare. Era una danza raccapricciante, un ritmico piegarsi e scattare delle ginocchia, un roteare del corpo, un piegarsi del busto, quasi volesse battere il capo in qualche ostacolo... E sempre l'inesplicabile fenomeno della mancanza d'ogni rumore di passi: una danza spasmodica e silenziosa sotto le stelle, sull'orlo di una impalcatura di tavole sospesa in aria...

Non potei reggere a quello spettacolo atroce, e chiusi gli occhi; ma subito dopo li riapersi, trasalendo: la trave, a cui ero aggrappato, aveva delle brusche oscillazioni... E sentii , allora, senza rivolgermi, senza osare di girare il capo, che egli era là, ormai, sulla mia stessa trave, a qualche passo da me, e che io non avevo più scampo...

Istintivamente, mi trascinai più innanzi, pur sapendo che la trave terminava di netto a meno di un metro di distanza e che di là c'era il vuoto, e sotto, a dodici metri, il giardino con i suoi fossi e le sue macerie... Ero già a un palmo dall'orlo della trave, quando sentii qualche cosa sotto le dita: era una corda che penzolava, attaccata a una carrucola... Seguii con l'occhio il cammino di quella corda: sotto, si apriva un largo foro, di cui l'orlo di pietra biancheggiava alla luce delle stelle: era la cisterna, dalla quale i muratori attingevano l'acqua durante i lavori, servendosi della trave per punto d'appoggio; e la carrucola era rimasta ancora lì, per un caso provvidenziale, quantunque quel tratto d'impalcatura fosse quasi interamente disfatto.

Un'idea mi traversò rapidamente il cervello: se avessi avuto il tempo di tirar su una secchia d'acqua, sarei stato salvo. L'acqua, gettata bruscamente in viso a un idrofobo, produce una reazione che può esser fatale; lo atterra d'un colpo: talvolta lo uccide.

Mi raccomandai a Dio, in quel supremo momento, e afferrai la corda: sentii che qualche cosa si muoveva, nella cisterna: la secchia c'era!

Ed allora tutta la mia vita si riconcentrò in quel semplice gesto macchinale di tirar su una secchia d'acqua, febbrilmente, prima che egli mi raggiungesse...

La trave oscillava più che mai; curvo sul vuoto, tiravo la corda disperatamente, senza vedere, senza sentire più nulla... Un attimo che passa, un secolo d'angoscia...

D'improvviso, un alito infuocato parve soffiarmi sulla nuca... Ma nello stesso tempo la secchia, con uno sforzo sovrumano, era giunta presso la carrucola. Fu un lampo: la ghermii nervosamente, mi volsi, a cavalcioni della trave, e ne lanciai il contenuto, senza saper dove, né come...

Udii un ruggito, e subito dopo una brusca scossa alla trave mi avvertì che qualche cosa era piombata nel vuoto... Ma anche a me le forze mancarono, perdetti la coscienza e sentii solo che le dita si erano aggrappate alla corda e che precipitavo io pure rapidamente in un abisso senza fondo...

* * *

— Come vedete, signore mie – concluse il dottor Galba – non son morto. Gli infermieri, all'alba, mi trovarono privo di sensi sull'orlo del pozzo. A due passi da me era il cadavere di quello sciagurato, orrendamente sfracellato...

Ad onta della febbre, ebbi un capriccio da scienziato, e volli vederlo...

Ebbi allora la spiegazione dello strano fenomeno che mi aveva tanto sorpreso durante la notte. L'infelice, secondo una speciale disposizione regolamentare, che a quel tempo ignoravo, calzava scarpe sottilissime di feltro. L'agonia degli idrofobi non deve disturbare gli altri ammalati, e le scarpe ferrate sono troppo rumorose...

...Ed ora, amici, vi domando scusa se vi ho raccontato un episodio così lugubre in una notte come questa. Volevo provare al commendator Giorgi che la notte di Natale si può passare in tanti modi diversi... Ciò che non esclude, certo, che il miglior modo di passarla sia il nostro, in una compagnia come quella di stasera, e che nessuna chartreuse valga la vostra, signora contessa. Un altro bicchierino, se non vi dispiace...

Share on Twitter Share on Facebook