LA MALA EBREZZA VENDEMMIAIO

(19 OTTOBRE 1909)

M. de Talleyrand – la frase, mi pare, è sua – aveva ragione quel giorno in cui, guardando il grigio cielo di Parigi dalle vetrate socchiuse, ebbe ad esclamare: «Il pleut; il n’y aura pas de révolution».

L’ombrello è inconciliabile con lo spirito rivoluzionario; ecco perchè io penso che se i ministri spagnuoli avessero aspettato un paio di settimane per giustiziare l’anarchico Ferrer sarebbe stato tanto di guadagnato per tutti: per Ferrer, che avrebbe vissuto altri quattordici giorni, nei quali poteva anche pentirsi di qualche cosa aveva fatto in sua vita, e per la pace in mezza Europa, che è stata turbata dal dilagare improvviso di tutta la marea anarchico-massonica, montata alla riscossa intorno a una tomba sulla quale sarebbe stato assai meglio deporre qualche fiore solitario, pietosamente. Novembre è il mese della pioggia per eccellenza: sin da quando i primi crisantemi sbocciano sui lunghi steli, schiudendo le corolle filiformi che sembrano chiome scarmigliate di donne piangenti, le nuvole si adunano a congresso in permanenza, e l’ordine del giorno non reca che questa sola parola: piovere. In novembre, dunque, non c’è da temere disordini. Invece s’è anticipato e si è cascato nel bel mezzo del mese più compromettente: ottobre.

Troppo odore di mosto, è nell’aria, nel mese che il calendario della rivoluzione francese chiamò Vendemmiaio; troppo ne stilla dai colmi cesti nelle capaci tinozze, colorate in rosso dal sangue dei grappoli. Il vermiglio è dovunque e su tutte le cose: sui tralci, dove le ultime foglie si tingono di porpora, sui grappoli, che hanno tonalità trionfali di rubini, nel cielo, che i tramonti accendono di fiamma. Che meraviglia se l’acuto profumo del vino nuovo, prigioniero appena delle botticelle giovani che si gonfiano alla prima fermentazione, turba i cervelli?

Vendemmiaio è mese traditore; il fascino del rosso invade tutto e dovunque il mosto gocciola ed esalta. Il carro di Tespi non solca più i campi spogli e non più i commedianti dal volto impiastricciato di sanguigno caprioleggiano sulle aie dove l’ultimo grappolo è stato premuto; ma v’è qualcuno che ha sostituito le schiere bacchiche e ne ha presa la maschera purpurea, e si è tinte le braccia di un succo che forse è sangue, e v’è chi ha spinto nei solchi un altro carro, sul quale ha inalberato un vessillo rosso. La commedia della vendemmia ha mutato di personaggi e di stile e si è fatta tragica. Ma il coro degli spettatori è rimasto quello di un tempo: un coro di gente che il succo dell’uva ha turbata e che acclama intorno, e spinge con le spalle malferme le ruote cigolanti.....

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Tu sei stato il gran colpevole, Vendemmiaio! L’insurrezione che l’eco delle schioppettate di Montjouich ha destata in fondo alle straduzze e nei covi delle logge massoniche, ha trovato troppo sollecita e facile eco nelle piazze. Il tranquillo borghese che, rincasando a tarda sera, guarda con segreta compiacenza la lucerna amica del carabiniere o il pentolino del questurino che gli appare sul cammino, ha sentito risvegliarsi nel suo seno non so quali epici istinti di ribellione. Egli non conosceva Ferrer, e della Spagna sapeva quel tanto appena che gli ridestavano nello spirito sereno i ricordi della «Carmen»; ma il turbine lo ha preso, lo ha vinto, lo ha trascinato. Ed è ritornato a casa con gli occhi lucidi, col cappello di traverso e il bastone brandito come una spada; ed ha gridato alla serva, varcando la domestica soglia: –Non sai? La tirannide clericale ha fucilato l’apostolo! – Dopo di che, è caduto a sedere sulla consueta poltrona sventrata, ed ha gridato, con la voce che ridesta le folle alla riscossa, nei giorni di barricate: – Portami le pantofole!

Più tardi, la teppa sguinzagliata per le vie si è data alla solita strage di fanali e di insegne di magazzini; e la plebaglia che voleva onorare un morto si è disonorata più del necessario, saccheggiando e bruciando, e accoppando a coltellate i carabinieri e le guardie. Ma il borghese a quell’ora dormiva, col berrettino di cotone cacciato fin sul naso, e un pugno sporgente dalla imboccatura del lenzuolo: forse sognava di cacciare i gesuiti dalla Spagna, o di spingere fuori d’Italia l’ambasciatore e i consoli della sorella latina. Dormiva, e non ha sentito il rumore dei vetri infranti, lo scalpitare della cavalleria, l’esplosione dei colpi di rivoltella. L’ubbriacatura era stata troppo grande; la sbornia di laicismo, assorbito a dosi troppo alte, era stata troppo solenne. Cosicchè quando, il giorno dopo, la consorte, porgendogli una tazza di camomilla, gli ha detto: – Sai, quei mascalzoni hanno devastato tutto..... – egli si è levato a sedere, col fiocco del berretto sul naso, ed ha esclamato, sublime: – Gli spagnuoli sono entrati in città?

Ed è corso a prendere le molle del caminetto, per dare una lezione solenne ai figli del Cid.

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Una sbornia non dura che ventiquattro ore, ma lascia un grande stordimento. Ora, il borghese riposa. Lasciamolo riposare, e prepariamogli una tazza di acqua con alcune gocce d’ammoniaca.

Probabilmente più tardi egli dimenticherà tutto; dimenticherà perfino di aver gridato con gli altri contro la «reazione imperante»; dimenticherà perfino di aver chiesto, con gli altri, che una via o una piazza della sua città si intitolasse col nome di Francisco Ferrer. E, forse, domani quando qualcuno gli dirà: – Ma sai tu chi è stato Ferrer? Sai tu che egli ha dato il suo danaro e la sua attività alla propaganda regicida? Sai tu che se monaci e suore furono bruciati vivi a Barcellona, due mesi fa, quelle fiamme omicide furono alimentate con l’opera sua e forse col suo denaro? – egli risponderà, stropicciandosi gli occhi: – Ferrer? E chi è costui? Non ricordo di averlo sentito nominare ancora.....

Vendemmiaio! Vendemmiaio! La Spagna ha buoni vigneti anch’essa, a Malaga, ma oggi non beve che acqua pura, per mantenersi sana e forte. Ed è così che vince i nemici esterni, al Marocco; ed è così che vince i nemici interni, tra le sue mura. Il fiotto di rettorica urlante che è cozzato contro i Pirenei non ha potuto scavalcare l’alta barriera che la protegge. Essa rimane tranquilla e sdegnosa al suo posto e compie l’opera sua di purificazione senza preoccuparsi dell’ora di ebrezza che ha vinto le sorelle latine.

E Cervantes, dal mondo di là, vede oltre i confini tutta una fila lontana di pallidi cavalieri erranti cavalcare nella notte, senza mèta, e sorride, pensando che la razza di don Chisciotte non è morta, ed ha trovato il paese straniero miglior teatro alle sue gesta che non l’arida terra della Mancia, su cui da tre secoli e mezzo non si allunga più l’ombra allampanata di Ronzinante.

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