LE FIGLIE

(22 OTTOBRE 1909)

L’onda irrompente che è passata, in questi giorni, verso le sorelle latine, arse da una grande fiamma ribelle che ha fatto più vermigli i vesperi autunnali, l’onda fervida e tempestosa che è scorsa come un torrente, dilagando oltre gli argini e avventandosi troppo spesso in torbida schiuma lungo i campi ove gli ultimi tralci ramigni intristivano, l’onda che ha mescolato insieme anarchici e conservatori, socialisti e borghesi, fondendo le tinte e associando la bomba al parapioggia, in nome del grande sentimentalismo della razza, è sempre pronta a piangere sull’ultima tomba, voltando la schiena a quella che si chiuse ieri, è passata senza arrestarsi innanzi a due case, a due creature. Oscillavano al vento i vessilli fiammanti, lingue di fuoco sorgenti dalla folla, rogo di spiriti, e le braccia si tendevano minacciose, e le bocche urlavano, e le pupille erano fise laggiù, verso un punto lontano, dove l’anima intravedeva la sagoma bruna del castello di Montjouich, dove ancora pareva di scorgere una bianca nuvoletta di fumo levarsi sugli spalti, ascendere, lieve, e fondersi nella serenità chiara d’un’alba, mentre giù, nel fossato, l’erba si tingeva di sangue: e non c’era il tempo di raccogliere un dolore che aspettasse, accosciato sul ciglio della via, un singulto che tremasse in una casetta oscura, innanzi alla quale si proiettava l’ombra della folla trascorrente. La figura del fucilato, il bianco volto del ribelle, rigato per tre volte di rosso, emergeva, solo, all’orizzonte: intorno la grande rettorica dei tribuni della morte fumava, come incenso; il breve spalto erboso del castello era l’altare. Il novissimo culto che stringeva in un fascio solo sacerdoti e neofiti, leviti e profani, non consentiva distrazioni. Occorreva solo gridare anatema ai giudici, sulla fossa del morto, e osanna alla memoria di lui; occorreva solo preparare lapidi e monumenti per il domani e scioperi per la sera stessa, occorreva solo gridare, protestare, affiggere manifesti incendiarii, gridar guerra ai conventi e fracassare i patrii fanali. Il programma era vasto, e, forse, non diviso da tutti; vi erano, tra costoro, degli spiriti raccolti, delle anime sdegnose, degli uomini che volevano affermare il loro sentimento senza strepiti e senza sassate; ma anche essi sono passati innanzi a quelle due case, senza voltarsi, anche essi non hanno ricordato coloro che il morto lasciava sulla terra, anche essi hanno dimenticato il dolore di due creature che avevano il sangue e il nome di Francisco Ferrer e per le quali la grande manifestazione latina non ha avuto niuna parola di pietà e di affetto: Trinidad Ferrer, Paz Ferrer; le figlie.

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Vi è, anche, una terza figlia, la più giovane: ma non si sa nulla di lei, come non si sa più nulla della madre, della moglie di Ferrer, che una sentenza del Tribunale separò da lui e a cui affidò le tre figliuole, a Parigi. E la grande e turbinosa città ha ospitato, così, le prime due, che, ancora bambine, abbandonate anche dalla madre, che ben presto andò a convivere con un principe in Russia, hanno dovuto aprirsi una via e guadagnarsi il pane. Sole, le due fanciulle, in faccia alla vita; sole, nella immensa città tentatrice, in cui la giovinezza è un pericolo, quando non diventa un’arma di seduzione! E il terribile noviziato della fame è cominciato, con la caccia al lavoro, con la assidua ricerca di un posto, con lo stimolo del bisogno che premeva alle spalle adolescenti. Sole, e inermi, contro ogni insidia! Il padre, lontano, allargava la sua propaganda laica, spegneva a larghi battiti d’ale la fede religiosa nell’anima della signorina Meuniè, investiva il proprio danaro, dapprima, e poi la fortuna di lei nella sua opera di ribellione al dogma; egli non si occupava – come pare – che dell’umanità: troppo vasto compito perchè gli consentisse di occuparsi di due creature deboli, affidate a loro stesse! E, a poco a poco, i vincoli tra lui e le figliuole erano rimasti soltanto epistolari. Qualche soccorso, si dice, veniva, ogni tanto; ma forse era insufficiente al bisogno; forse, esse non osavano chiederlo, o disdegnavano stendere la mano filiale: e restavano nell’ombra, mentre egli allargava la sua aureola di apostolo, in una paternità che abbracciava tutti i rinnegatori della fede di Cristo e che si allontanava sempre più da quelle che avevano il suo nome ed erano rimaste credenti.

E l’una si è data al teatro, e ha fatto i primi passi in una via difficile e pericolosa, nella via che, in Francia, è esposta più di ogni altra alle insidie; e l’altra, più modestamente, era diventata operaia, e lavorava in una fabbrica di bottoni, e guadagnava due lire al giorno; poi, un bimbo le si ammalò di difterite, ed ella per curarlo dovette lasciare la fabbrica e perdette il pane. Triste, tristissima odissea di due sventurate, che non avevano commesso nessuna colpa, che non avevano meritata la loro infelicità, e che hanno dovuto vivere oscuramente, senza nessun affetto familiare, trascurate, obliate, forse, fin nell’ora più grande e più terribile, fin nell’ora in cui le schioppettate del plotone di esecuzione a Montjouich hanno eccitato gli spiriti ribelli e commosso gli spiriti sentimentali e nessuno si è ricordato di loro, e nessuno, fino a ieri, nella tumultuosa voce di protesta, ha pensato di chiedersi se esse avessero bisogno di qualche cosa e se non fosse assai più onesto e doveroso occuparsi delle figlie del morto piuttosto che erigere delle statue e inchiodare delle lapidi per pubblica sottoscrizione.

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È possibile, del resto, che in questo oblio ci sia stato un senso di delicato riguardo alla memoria di Francisco Ferrer e al suo concetto così altamente anarchico della paternità. Il modesto insegnante che l’opera di propaganda, fatta col danaro di una ex cattolica convertita all’ateismo, aveva tratto dall’ignoto e messo di fronte alla monarchia e di cui il giudizio del tribunale di guerra ha fatto, agli occhi della folla, un martire, non ha soltanto disdegnato o trascurato il vincolo paterno in vita, assorbito dalla più vasta visione di tutto un mondo da rinnovare, ma ha costretta questa sua paternità entro una rigida barriera perfino nel testamento.

Egli ha lasciato, come si sa, una parte della sua sostanza, libera, alla signora Soledad di Villafranca, che mise nella sua esistenza travagliata di propagandista il raggio confortatore dei suoi occhi neri, e fece della sua bianca spalla un rifugio al capo di lui nell’ora della stanchezza; ed ha lasciato il resto alle figliuole, pregandole di non accettare il legato e di lasciare che «la fortuna accumulata per l’opera di rinnovamento laico continuasse ad essere impiegata a questo scopo.»

E probabilmente le figlie ascolteranno il supremo consiglio paterno e seguiteranno a vivere del loro lavoro come hanno vissuto finora. Paz, oggi è ricoverata presso alcuni amici, a Tolone: sono degli uomini d’ordine e dei cattolici, come ella stessa ha dichiarato ad alcuni giornalisti; e forse, col loro soccorso lascerà il teatro, o, se vi torna, celerà sotto il maquillage di artista l’ultima traccia delle sue lacrime; e Trinidad, la più povera, la più obliata, narrerà al figliuoletto suo, accanto al suo lettuccio di convalescente, la storia di Bruto, il repubblicano austero che fece morire i figli e fu grande per questo.

E tutta una storia di sacrifizi e di abnegazione resterà celata per la folla, che non vede e non sa, per la folla che protesta innanzi al sangue d’un uomo, dimentica che altro sangue si è versato, prima, sangue di inermi e di innocenti, sangue di poveri frati, di pie suore, trascinati al macello, dimentica che Iddio disse la parola ammonitrice «Non ammazzare» per tutti, e che ogni vita umana è sacra, e ogni tomba è eguale, innanzi alla pietà.

E ignorerà, la folla, che v’è un eroismo piú grande di quello che affronta la morte, ed è l’eroismo di chi resta nella vita a combattere le penose battaglie quotidiane, le battaglie che non hanno fanfare per i vincitori e non hanno raggi di sole sulla fronte dei caduti.

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