2.

Lungo il corteo funebre piangevano tutti. La scena avrebbe smosso il cuore più coriaceo. Léo partecipava del sentimento generale, e tuttavia non si sentiva davvero triste, quanto piuttosto estasiato dallo spettacolo. Mentre camminava in mezzo alla gente, strascicando i piedi per non pestare quelli altrui, ammirava la magnificenza della scena. Il maestro di cerimonie, il pittore David, che adesso raccoglieva i composti saluti di coloro che gli sfilavano davanti, aveva superato sé stesso.

La bara era adagiata su un giaciglio sfarzoso, a sua volta collocato su un alto feretro, affinché la folla potesse vederlo, sorretto da dodici uomini – tanti quanti gli apostoli – e circondato da bambini vestiti di bianco, come angeli. Ogni bambino teneva in mano un ramo di cipresso, l’albero dei morti. Dietro il feretro venivano i deputati della Convenzione, poi quelli del comune, e a seguire i club dei patrioti, infine la gente di Parigi, la città intera, perché la fiumana sembrava interminabile. Facce, occhi, nasi, bocche, orecchie, mani, spalle, coccarde, fasce, voci, gonfaloni, fiori, lacrime. Tante lacrime.

Era magnifico, pensò Léo. Grande senso della scena e del patetico, ogni uomo e donna presente era attore e spettatore al tempo stesso. Eccolo il Nuovo Teatro della rivoluzione. Come sarebbe stato possibile tornare a recitare un vecchio copione al chiuso di una sala, quando il teatro si era fatto storia sotto il cielo di Francia?

Ma la tristezza non lo sopraffece anche per un altro motivo. Una vena di rabbia pulsava sottopelle. Quello era un funerale degno dell’uomo che Marat era stato. Il maestro Carlo Goldoni avrebbe meritato un funerale altrettanto imponente, invece non aveva avuto nulla. A malapena l’omaggio di un gruppo di attori, che era stato all’origine di tutti i guai di Léo. Era uno scandalo di cui i Francesi avrebbero portato il peso nei secoli a venire.

Il corteo si era mosso dalla casa di Marat, vicino al club dei cordiglieri. Aveva sfilato in via di Thionville fino a Pontenuovo. Il cannone adesso sparava una salva ogni cinque minuti. Cosi erano buoni tutti a farlo sparare, in onore del grand’uomo, pensò Léo.

Passato il fiume, il corteo funebre aveva preso il Molo delle Ferraglie, attraversato Ponte dei Cambi, ed era ritornato indietro passando per il Teatro Francese – scelta azzeccata – fino ai cordiglieri, mentre La Marsigliese si innalzava dalla folla.

Anche Léo cantava, e intanto si ritrovava ad abbracciare gente di ogni tipo, a sorreggere uomini sconfortati, a inneggiare alla difesa della patria guardando negli occhi i sanculotti più sgarrupati, come fossero fratelli. Più di tutti si disperavano le donne del popolo. Le donne invocavano Marat, mentre protendevano le braccia verso il feretro, come se chiedessero alla morte di renderglielo indietro. Quelle braccia levate, quelle voci, le lacrime... Erano tantissime e il loro pianto era quello straziato delle amanti, anche se probabilmente nemmeno una di loro aveva giaciuto con Marat. Léo era certo che non facesse parte della messa in scena di David, era davvero il Nuovo Teatro che si manifestava in tutta la sua potenza. Era anche la massima del maestro che si concretizzava davanti ai suoi occhi. Per la seconda volta, quel pomeriggio, Léo tornò con la mente a Goldoni.

Il loro primo incontro, a Villa Albergati, non era nemmeno un ricordo sfocato di bambino. Il secondo, invece, risaliva soltanto ad alcuni anni prima.

Leonida Modonesi, da poco giunto a Parigi in cerca di fortuna sulle orme del maestro e intenzionato a fare l’attore, si aggirava per i caffè di Palazzo Egualità, perché aveva saputo che Goldoni passeggiava li ogni pomeriggio, talvolta accompagnato da un domestico.

Lo aveva trovato seduto da solo al Caffè meccanico, un luogo stravagante, pieno di automi e alambicchi. Anziché essere servito da camerieri, il caffè usciva da tubi nascosti nelle gambe dei tavoli. Léo non aveva mai assistito a una scena come quella.

Il vecchio che si era trovato davanti non aveva che una pallida corrispondenza con l’immagine dei ritratti in casa Albergati. «Permettete, Maestro?», aveva esordito Léo, in italiano. Si era presentato e aveva evocato i giorni bolognesi, senza suscitare particolari reazioni nel vecchio avvocato veneziano. Aveva accennato al sogno di diventare attore all’Opera-Comica, o addirittura alla Commedia Francese. Si rendeva conto di non poter subito puntare tanto in alto, ma era pronto a fare tutta la gavetta necessaria. Gettando il cuore oltre l’ostacolo, aveva chiesto al maestro di scrivergli una referenza, una malleveria da presentare a teatri e compagnie, spendendo una buona parola per il fantolin che tanto aveva riso sulle sue ginocchia, ma soprattutto per il giovine uomo che tanto lo ammirava da aver seguito il suo esempio ed esser venuto a Parigi.

Un occhio acquoso e l’altro di più lo avevano guardato dagli incavi di una maschera di rughe. In tono lamentoso, Goldoni gli aveva parlato dei suoi acciacchi, di quanto aveva faticato per avere una pensione, delle occasioni mancate quand’era a corte, a Versailles, perché non aveva mai saputo esser cortigiano, non era mai stato bravo nell’intrigare, nello sgomitare per avere un privilegio... Aveva parlato, più volte perdendo il filo, senza fare alcun accenno a Bologna, né tantomeno alla richiesta di una referenza, come se non avesse udito nulla e l’uomo di fronte a lui fosse un tizio qualsiasi. Infine, aveva pronunciato una frase accompagnandola con un gesto dell’indice artritico, come a voler sottolineare un memento.

«Un òmo de importansa se conosse dal codasso de mone che’l se tira drio».

Folgorante. Con gli occhi della mente, Léo aveva visto una processione, una vera e propria parata di fighe seguire un grand’uomo, e quel grand’uomo era lui.

Ecco, di fronte alle madame d’ogni età che marciavano in corteo e piangevano sotto il feretro di Marat, Léo non poteva che leggere una conferma. La quantità di gnocca è il segno distintivo di un grand’uomo.

Dal vecchio maestro al tramonto non aveva ricevuto malleverie o raccomandazioni, ma la lezione di vita di quell’aforisma gli era rimasta nel cuore.

Proprio in quel momento vide la sarta, Marie Nozière. Camminava a fianco di altre donne, nello spezzone dei club. Sullo stendardo che portavano c’era scritto «Società delle cittadine repubblicane rivoluzionarie». Piangeva anche lei.

Il costume. Léo aveva lasciato trascorrere qualche giorno, per darle il tempo di cucirlo, e quando si era risolto a tornare, sempre prima dell’alba, nessuno aveva aperto l’uscio. Aveva aspettato finché non gli era parso chiaro che in casa non c’era nessuno, né madre né figlio.

La seconda volta invece lo aveva anticipato un’altra donna, una pazza monarchica che aveva assassinato Marat. Parigi era esplosa e tutto il resto era stato spinto sullo sfondo. Adesso quel funerale solenne era l’unico modo di far confluire la piena di rabbia in un alveo regolato e utile a rinsaldare lo spirito rivoluzionario.

Léo vide Marie disporsi insieme alle altre sotto il palco da cui il presidente della Convenzione avrebbe pronunciato l’orazione funebre. Scendeva la sera, si accesero torce. Il tocco finale.

Léo pensò che prima o poi Marie sarebbe tornata a casa e decise che l’avrebbe aspettata là, per essere sicuro di non mancarla. Cosi spintonò e sgomitò sino a guadagnare il margine del corteo.

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