Il pomeriggio del terzo giorno il diluvio terminò. Il sole asciugò l’umidità e le fitte tornarono a farsi sentire, come se la schiena avesse dovuto scaricare di colpo la tensione accumulata. Brividi di febbre si aggiunsero ai tremori che martoriavano il corpo di D’Amblanc.
Radoub scrutò il cielo e domandò allo Sfregiato quanto poteva mancare prima del villaggio di Clignat.
– Almeno cinque ore, – fu la risposta, e subito il sergente cominciò a guardarsi attorno in cerca di una radura dove passare la notte.
La trovò all’ombra di un faggio secolare, coperto di muschio e grossi nodi, un antico pachiderma con mille occhi e la pelliccia verde. Nessuno si lamentò per la sosta all’addiaccio: dopo l’incubo di Malacarne, la prospettiva di dormire al coperto non era più così allettante.
Poulidor preparò a D’Amblanc un giaciglio comodo e lo aiutò a sdraiarsi, come se avesse per le mani una statua di porcellana. Thuillant accese il fuoco, mentre lo Sfregiato accumulava una catasta di legna asciutta.
Radoub e Feyfeux stesero le mani in direzione delle fiamme, per scaldarle a dovere prima di massaggiare il malato.
Le loro cure, per quanto goffe, riuscivano a infondergli un certo sollievo, e i risultati miglioravano con la pratica, giorno dopo giorno.
D’Amblanc puntò gli occhi alle stelle, oltre i rami del faggio. Riconobbe la costellazione di Cassiopea, ma c’erano molte più luci di quelle che aveva imparato a congiungere. Astri di terza e quarta grandezza, che nel clima umido di Parigi nessuno era in grado di vedere. L’aria era tersa, e il vento aveva spinto le nubi sopra i crinali delle montagne. Dalla sua posizione, D’Amblanc ne scorgeva le cime, disposte a ferro di cavallo di fronte a sé. L’intero paesaggio sembrava la scenografia per un’apparizione divina, col faggio colossale a fare da catalizzatore. Decine di alberi come quello, in tutta la Francia, partorivano ogni anno santi, madonne, demoni e fate.
– Siete pronto per il vostro massaggio? – la voce di Radoub distolse D’Amblanc dalla contemplazione, ma la domanda non ottenne risposta. Quel che ottenne, invece, fu di suggerire al dottore una strana coppia di idee: la terapia magnetica e l’albero della vita.
La coppia, a dire il vero, non gli suonava né strana né nuova, e D’Amblanc ricordò subito dove l’aveva incontrata: nelle memorie scientifiche di Puységur.
Il marchese raccontava di aver usato il grande olmo nella piazza di Buzancy per magnetizzare una folla di centoventi persone. Aveva attaccato ai rami lunghe funi di canapa e i pazienti le avevano afferrate, formando catene umane. Quindi Puységur aveva caricato di fluido il tronco dell’albero, trattandolo come un individuo in carne e ossa. I partecipanti all’esperimento ne avevano tratto un grande benessere, e l’albero era rimasto attivo per un’intera settimana, durante la quale chiunque vi si appoggiasse per una decina di minuti ne ricavava benefici duraturi.
– Oggi vorrei tentare un metodo nuovo, – disse infine D’Amblanc, e prese a istruire gli uomini su come attrezzare la scena, sforzandosi di ricordare bene le parole di Puységur. La pratica del magnetismo vegetale, infatti, gli era nota soltanto per via indiretta, attraverso gli scritti e le spiegazioni del maestro. A Parigi, dove il marchese incontrava i suoi discepoli, non c’erano alberi adatti per tentare l’esperimento, e le risate dei curiosi avrebbero interferito con il passaggio del fluido. Puységur aveva promesso a D’Amblanc di mostrargli «l’albero della vita» in occasione di una visita a Buzancy che alla fine, per un motivo o per l’altro, non s’era mai organizzata. Poi la rivoluzione aveva trasformato l’olmo di Puységur in un «albero della libertà» e da quel momento, sotto i suoi rami, si erano tenute assemblee di popolo e non più terapie collettive.
D’Amblanc si alzò in piedi e controllò che il faggio fosse attrezzato a dovere. Poulidor era salito sulle spalle di Thuillant e stava legando a un ramo l’ultimo tratto di corda. Nessuno degli uomini sembrava sorpreso dal rituale che andavano allestendo. Mesi di viaggio con un medico mesmerista li avevano abituati a quel genere di stranezze. Il fatto poi che il medico fosse anche sofferente e sottoponesse alle cure prima di tutto sé stesso aumentava la considerazione che avevano di lui. Come novelli Cristofori portavano in missione un Cristo laico, guaritore e martire al tempo stesso.
D’Amblanc estrasse dalla bisaccia due barre di rame e ordinò a Feyfeux di conficcarle nel tronco dell’albero, in corrispondenza di nodi o crepe della corteccia. Quindi gli mostrò come afferrarne le estremità e lo invitò a concentrarsi, a immaginare un flusso di energia benefica che dalle sue mani si trasferiva al faggio. Dopo giorni di convivenza, D’Amblanc aveva scoperto che l’alverniate era il più predisposto alla terapia magnetica. Non aveva soltanto un’ottima salute e un fluido in perfetto equilibrio, ma quando lo si coinvolgeva nella cura, eseguiva con grande naturalezza anche gli ordini più bizzarri, quasi avesse un’innata consuetudine con certe pratiche mediche.
Appena Feyfeux prese posizione, D’Amblanc afferrò un capo di corda e se lo annodò stretto intorno alla vita. Quindi pregò gli altri quattro, a coppie, di afferrare due funi e di sistemarsi opposti rispetto al tronco.
– Ora chiudete gli occhi, – disse, – e immaginate di guarirmi dal male con la sola forza della vostra volontà. Dovete volere il mio bene e credere che questo possa farmi stare meglio.
Detto questo, anche D’Amblanc chiuse gli occhi e disegnò con la mente l’immagine dell’albero che si caricava di un fluido verde, caldo e buono, e attraverso la corda glielo iniettava nella schiena. Avverti i sintomi del sonnambulismo artificiale farsi strada nelle membra, e ne assecondò la spinta. Un’onda spumeggiante di energia vitale lo trascinò lontano, come in un dolce naufragio.
Fu la voce di Feyfeux a ridestarlo dal sonno.
– Mi dispiace interrompere, dottore, ma vi dovete svegliare.
D’Amblanc aprí gli occhi. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma intanto la luna era sorta e spiccava alta nel cielo.
Di fronte a lui, a una decina di passi, sei uomini di età molto diverse lo fissavano in silenzio, torce in una mano é schioppi a tracolla.
– Gli altri non si svegliano, – sussurrò Feyfeux, indicando Radoub e Poulidor che dormivano tenendosi per mano.
D’Amblanc gli ordinò di sciogliere le corde, quindi si mise in piedi. Solo allora uno dei nuovi arrivati si staccò dal gruppo e avanzò verso di lui.
Nel mentre, D’Amblanc cercava le parole più giuste per far capire a quella gente che quanto avevano visto non era stregoneria.
L’uomo però stese la mano, si presentò come Michel Eglizot, e parlò in un misto di francese e alverniate.
– Abbiamo veduto il fugo, e sem venù a controlla, – disse, quindi toccò a D’Amblanc fare le presentazioni e mostrare le credenziali del comitato di sicurezza.
Michel Eglizot rimase piuttosto impressionato nel vedere il documento col sigillo della Repubblica. Ci passò sopra il dito e lo studiò con deferenza alla luce della fiamma.
– Abitiamo a dusento passi, – disse alla fine, – e abbiamo el granaro da sistemare per vossia. I è aiga nel pozzo e una stabla per le bestie. Qui non è tanto bene dormire.
Prima di valutare la proposta, D’Amblanc domandò quale pericolo ci fosse.
– Pericolo no, ma forse fastidi. Jean del Bosco viene magari a flirtarvi le cose, disturba i cavalli, ve tiene tutti desveglià. Ma no è cattivo, solo selvatico, comprendé?
D’Amblanc rispose che no, non ci aveva capito gran che, e l’uomo spiegò che il bosco era la dimora di questo Jean, un ragazzo selvaggio che disturbava gli intrusi.
I volti di Radoub e Poulidor emersero dal buio alla luce della torcia. Avevano gli occhi acquosi di chi ha visto in sogno una terra di latte e miele. D’Amblanc li mise al corrente della situazione e il sergente disse che per gli animali, dopo tutta la pioggia degli ultimi giorni, una stalla calda, fieno e ferri nuovi erano manna dal cielo, la garanzia di una migliore tenuta per le tappe a venire. Allora ringraziò per l’offerta e andò a preparare il bagaglio.
Nel piegarsi a terra per raccogliere la coperta, senti la schiena assecondare il movimento come non gli accadeva da settimane, e decise di appuntarsi quanto prima i dettagli della terapia che aveva appena sperimentato.
Una volta a Parigi, avrebbe scritto a Puységur, per illustrargli i risultati e le circostanze della sua prima magnetizzazione vegetale.