Il mattino seguente, dopo un’abbondante colazione, D’Amblanc era intento a scrivere sul taccuino, mentre gli uomini della scorta preparavano i cavalli. Stava seduto su una panca contro il muro della stalla, quando Michel Eglizot uscí dall’edificio principale e gli andò incontro attraverso la corte, accompagnando per mano un ragazzo sulla quindicina.
– Voi me dovete scusà, – disse l’uomo levandosi il cappello, – ma avante che andè via, ve debbo dimandà un favore.
D’Amblanc alzò gli occhi dal taccuino e se lo chiuse sulle ginocchia.
– Dite pure.
– Questo me fiolo, – disse indicando il ragazzo, – soffre di un male al petto, terribile. Sem andà fino a Riom, dal medico, ma no i sta nen da fà. Allora ve volea dimandà se voi gli potete fà una delle vostre cure, come iersera.
D’Amblanc stava per domandare ragguagli sui sintomi del male, ma di colpo si fermò, strinse gli occhi e pose un’altra questione.
– Voi come sapete che quanto avete visto ieri è una pratica terapeutica?
– Una che?
– Si, insomma, una cura, un modo per guarire la gente.
Michel Eglizot parve stupito dello stupore di D’Amblanc.
– Me anca ho fat una cura insí, per via de un mal de cistoma. Me durava da tutt’un anno e il signore me l’ha arsanà in una smana.
– Il signore? Quale signore? – domandò D’Amblanc, ma già immaginava la risposta.
– Adesso lo si deve nominà «cittadino», ma allora l’era il signor d’Yvers. La me familha travagliava per lui, come taglialegna e guardacaccia. E tra tutte le cose buone che ha fat la revolusiú, questa è propi l’unica che ci angustia, che quando il re ha riunito gli stati generali, el cavaliere l’è ’ndà via, e noialtri avem pardu quello che ci sanava i mali.
D’Amblanc aveva riaperto il taccuino e si era rimesso a scrivere, frenetico, mentre il ricordo del cavaliere sembrava infondere a Eglizot una gran voglia di parlare.
– L’era un brav’om, il cittadino Yvers. Qua sem tutti per la Repubblica, badate, e sem ben contenti che adesso il bosco l’è de noialtri e no del cavaliere, però se come nobile l’era un mal’om, come om l’era un bon om, e oltre che sanarci faceva pure altre cose buone, ci imparava a leggere, a scrivere e si prendeva cura degli orfanelli, che da quando l’è andà via lui, no ci pensa più persouna, e alcuni son morti, altri son scappati, altri vivono per i campi e per i boschi, come il povero Jean.
– Jean del Bosco? – domandò D’Amblanc. – Quello che fa gli scherzi agli intrusi?
– Propi lui, avreste dovuto vederlo. L’aveva come adottato, lo teneva nel castello. Gli aveva imparato tutto: le buone maniere, il francese dei libri, e anca a suonà la spinetta. In pochi mesi. Lo portava a cavallo, sempre vestito elegante...
D’Amblanc domandò come mai un bambino educato da nobile si fosse trasformato in un ragazzo selvaggio.
Con l’aria contrita di chi racconta una disgrazia, Michel Eglizot spiegò che il cavaliere se n’era andato a Parigi per gli stati generali, affidando il bambino al custode del castello. Ma il giorno successivo alla partenza di Yvers, il ragazzo era impazzito, aveva spaccato mobili e suppellettili e si era nascosto nel bosco. Per qualche settimana, il custode lo aveva cercato, finché le guardie non avevano trovato lui: era finito in galera con l’accusa di essere una spia. Cosi Jean aveva continuato a vivere nei boschi, si era inselvatichito, e di certo sarebbe morto, se non fosse stato per il cibo che la famiglia Eglizot gli lasciava in una ciotola.
– Lui viene qui a mangiare?
– Tutte le sere, – rispose Eglizot, e un attimo dopo D’Amblanc era girato verso i suoi, per ordinare che interrompessero i preparativi.
La partenza era rimandata all’indomani.