7.

– Siete sicuro di voler partire stamane, mousú? Avete una pessima mina, restate ancora qualche giorno.

D’Amblanc avrebbe voluto rispondere che no, non era affatto sicuro di voler partire e che non s’era mai sentito tanto stanco in vita sua. Aveva passato l’intera notte a magnetizzare Jean del Bosco, per riportarlo a essere Jean del Castello. Ci era riuscito, il cambiamento sembrava stabile, e lo aveva pure convinto che alla fine del viaggio, a Parigi, avrebbe incontrato il suo buon mentore. Lo aveva ingannato e si sforzava di credere che fosse per il suo bene. D’altra parte, se il condizionamento magnetico era riuscito... No, inutile fingere ancora di credere al dogma di Puységur. Non dopo quel viaggio in Alvernia. Ormai ne era convinto: il magnetismo funzionava anche a fin di male.

Il ragazzo dormiva, spossato, la testa appoggiata sulla schiena di Radoub, in sella al cavallo strigliato di fresco. D’Amblanc avrebbe dato un sacco d’oro per poter fare altrettanto, invece gli toccava stare sveglio.

Il sole era appena spuntato dietro le montagne, l’aria era ancora fresca, più fresca del solito, un chiaro annuncio di fine estate. Li attendeva l’autunno, grigio e scontroso, della capitale. E centocinquanta leghe a cavallo dentro il cuore della Francia.

D’Amblanc fissò la strada, bianca, spalancata di fronte a loro, e provò a leggere nelle sue curve un accenno di speranza. Ma era fin troppo facile vedercela scritta prima di partire, in un mattino limpido. Difficile sarebbe stato ritrovarla una volta arrivati.

– Grazie, cittadino, – disse porgendo la pano. – Grazie per il vino, le provviste, i cavalli. Siete stato un ospite squisito e vorrei potermi trattenere ancora, ma davvero non è possibile. Entro la metà del mese dobbiamo essere di ritorno a Parigi, e siamo già in ritardo. Vi farò avere notizie del vostro Jean, non dubitate. Addio, Eglizot, e viva la Repubblica.

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