2.

Dopo la morte di Marat, le repubblicane rivoluzionarie non si erano fermate un momento. Lunedi sfilavano per Parigi con la camicia insanguinata e la vasca da bagno del grande patriota. Martedì accompagnavano il suo cuore al club dei cordiglieri. Mercoledì inondavano le strade col nuovo numero di «L’Amico del Popolo», il giornale di Marat ripreso da Ledere. Giovedì andavano alla Convenzione per giurare di mettere al mondo cento, mille nuovi Marat. Poi a qualcuna era venuta l’idea di erigere un obelisco in memoria del tribuno. Bisognava curare ogni aspetto dell’impresa, dal progetto alla raccolta fondi. Dovevano inaugurarlo proprio quel 10 agosto, durante la Festa dell’Unità, e invece c’erano stati degli intoppi.

Claire e Pauline dicevano che i simboli erano importanti, che anche così le donne si ritagliavano una parte sul palco della rivoluzione, e una volta salite alla ribalta, sarebbe stato più difficile ricacciarle giù.

A Marie quel discorso suonava bene, ma ai simboli preferiva i gesti. Per esempio legnare un monopolatore per insegnare la lezione a cento compari suoi. O buttare fuori tutti i nobili dall’esercito e dal governo. Ma anche portare la coccarda tricolore sul petto, per dire a tutti quanti che le donne tenevano alla Repubblica e la difendevano ogni giorno, per le strade e in casa, e infino mentre stavano in coda davanti alle botteghe. Le cittadine repubblicane rivoluzionarie invitavano le altre donne a portare sempre la coccarda. In aprile s’era fatta un legge in base alla quale per gli uomini era obbligatorio portarla. Perché le donne no?

– Perché voialtre fate parte del popolo, ma non del popolo sovrano, – le aveva risposto un gecco all’assemblea di sezione.

Quando Marie era andata in giro per il foborgo a raccogliere firme, per estendere la legge anche alle cittadine, tante donne di Sant’Antonio si erano tirate indietro.

– Ma come? – l’aveva sfottuta Georgette. – Vuoi far mettere la coccarda a tutte quante? Pure alle puttane?

Cosi la petizione non aveva ottenuto grandi consensi.

Ora Marie marciava in riga con le compagne, la coccarda bene in vista e il berretto frigio in testa, insieme alle società popolari che aprivano il corteo. Ognuna portava uno stendardo e sullo stendardo campeggiava l’occhio della sorveglianza, che penetrava una spessa nube coi suoi raggi. Claire Lacombe era la portabandiera e di certo non passava inosservata, con la sua redingote da donna, la figura snella e un viso che aveva fatto fortuna nei teatri di Marsiglia e Lione. Sulla testa, al posto del berretto, portava la corona civica che le avevano consegnato per la sua partecipazione all’assalto delle Tegolerie, proprio il 10 agosto dell’anno precedente. L’alloro era ormai secco e marrone, ma su quei boccoli castani faceva lo stesso la sua figura.

Dietro di loro venivano i membri della Convenzione, con in braccio un mazzo di spighe. Al centro del gruppo, spiccava sulle teste l’arca contenente le tavole di marmo con incisi i diritti dell’uomo e la nuova costituzione. Tutt’intorno ai deputati facevano cordone gli ottantasei commissari di dipartimento, che tenevano in una mano un rametto di vimini e nell’altra un lungo nastro tricolore che li univa tutti quanti.

Subito dopo sfilava il popolo, senz’altra distinzione fra gli individui che i segni del loro servizio alla società: i sindaci con le fasce tricolori, i giudici con la toga, i fabbri con il mantice e le pinze, i muratori con la cazzuola, i ciechi trainati su un unico carretto. In fondo a questo spezzone avanzava un calesse, tirato da esseri umani invece che cavalli. Gli esseri umani, due uomini e due donne, erano i figli e le figlie di un’anziana coppia seduta a cassetta: simboli della pietà filiale e del rispetto per la vecchiaia.

Poi marciavano i soldati, e un cocchio di otto cavalli portava in trionfo la grande urna con le ceneri degli eroi morti per la patria. Marie era troppo avanti per poterla vedere, ma sapeva che al seguito c’erano i parenti dei caduti e che lei non era stata invitata a farne parte. Primo, perché Jacques era un disperso, il suo cadavere non l’avevano trovato; e secondo, perché non erano sposati, anche se vivevano sotto lo stesso tetto.

Infine, in mezzo a un distaccamento di cavalleria, avanzavano otto carretti a due ruote, rivestiti di tappeti con sopra i gigli della casa reale, e dentro scettri, stemmi nobiliari, corone, insegne di conti e marchesi, il tutto sovrastato dalla scritta: «Popolo, ecco ciò che da sempre ha fatto la sfortuna del genere umano».

La processione giunse così su viale della Pescivendola e le repubblicane vennero fatte avanzare fino a prenderne la testa.

Marie si trovò di fronte a un arco di trionfo che incorniciava due file di quattro cannoni. Sopra l’artiglieria sedevano a cavalcioni le eroine dell’Ottantanove, quelle che erano andate a Versailles per domandare al Capeto pane, farina e diritti. Vide Georgette, Madeleine, Sophie e le altre. Mancava solo lei.

Il corteo perse la sua compattezza e si dispose in cerchio attorno alla seconda stazione di quella via crucis. Il presidente della Convenzione si fece largo tra i ranghi e consegnò alle donne rami d’alloro.

– Che spettacolo! – gridò nella sua trombetta, da cui usciva una voce stridula e metallica. – La debolezza del sesso e l’eroismo del coraggio! O libertà! Ecco i tuoi miracoli! Grazie a te, mani delicate spinsero questi bronzi, queste bocche da fuoco che fecero arrivare all’orecchio di un re il tuono, annuncio del cambiamento dei nostri destini. O donne! La libertà, attaccata da tutti i tiranni, ha bisogno, per essere difesa, di un popolo di eroi: spetta a voi partorirlo. I rappresentanti del popolo sovrano, al posto dei fiori che ricompensano la bellezza, vi offrono l’alloro, emblema del coraggio e della vittoria: voi lo trasmetterete ai vostri figli.

Marie pensò che l’alloro al posto dei fiori era il genere di simbolo che le andava a genio e che forse Pauline aveva ragione: alla fine, le settimane trascorse a celebrare Marat erano servite. Ora il coraggio delle donne veniva celebrato e tutto il popolo ricordava le loro gesta.

– Te gira alla larga, ve’! Com’è che non t’hanno messo dentro col tuo amico Brissot?

– Eddài, Jeanne, lasciala perdere. Non lo vedi com’è ridotta?

Marie si girò in direzione delle voci. Erano Jeanne e Françoise, due ragazze di Sant’Onorio entrate da poco nel club, a rinforzarne la fazione più vicina a Robespierre.

Ce l’avevano con una donna vestita all’amazzone, che portava un fodero vuoto in cintura. In testa, l’acconciatura, che doveva risalire a mesi prima, sfatta e scarmigliata, mostrava solo un rudere dell’architettura iniziale. La faccia era bianca di cipria e disseminata di nei posticci, tanto da sembrare la caricatura di un vezzo ormai fuori moda.

Il gruppetto stava già attirando altre donne e anche Marie decise di avvicinarsi, finché non riconobbe Théroigne de Méricourt, così diversa dallo spettro che popolava le sue notti. Erano passati appena tre mesi dal loro violento incontro fuori dalle Tegolerie, eppure sul volto della «puttana di Brissot» sembrava essere passato un decennio.

– L’alloro non è per voi... Non è per voi...

La sua voce da cantante lirica s’era fatta chioccia, velata, e Marie non potè fare a meno di ricordare gli strilli che aveva lanciato mentre la fustigavano.

– E per chi è, sentiamo. Magari tuo? – la interrogò Jeanne con aria di sfida.

Théroigne indicò il drappello di donne presso i cannoni. Restò con il dito puntato, come se non le riuscisse più di parlare.

Intorno, la folla fluiva e andava a ricomporsi in corteo sotto gli alberi del viale, indifferente come l’acqua di un rivo che aggira un masso.

– Per quelle dell’Ottantanove, non di adesso. Non per voi. Per loro –. Frustò l’aria con l’indice teso. – Per loro.

– Senti, bella, – la rimbrottò Jeanne. – Oggi è la Festa dell’Unità, capito? Non c’è noi e loro, questa e quell’altra. Siamo unite. Infino te sei potuta venire qua a farti vedere, ché se non fosse per l’unità ti si dovrebbe cacciar via a calci nel culo.

– Su, Jeanne, vieni, – insistette un’altra. – Rovinarci la festa è proprio quello che vogliono. Non facciamo ’sto favore ai nostri nemici.

– Non è per voi. È per i figli, per gli eroi. Non per voi, capite? Non per voi.

Jeanne fece col braccio un gesto eloquente, come a buttarsi quelle parole dietro le spalle, quindi si allontanò, convinta dalle altre a lasciar perdere e a proseguire la festa, mentre Théroigne de Méricourt continuava a ripetere il suo ritornello.

– Non per voi... non per voi...

Marie restò in piedi a fissarla, incapace di voltarle le spalle. L’aveva tenuta stretta, insieme alle altre, mentre Georgette le faceva il sedere a strisce. Ricordava la sensazione di quella forza disperata, stretta fra le sue mani, e senti un morso allo stomaco, come ogni volta che riviveva quella scena, nei sogni o nel pensiero. Si ripetè ancora che il loro gesto era stato giusto: avevano colpito una privilegiata, una che grazie alle sue amicizie occupava un posto sulle tribune della Convenzione per sostenere il traditore Brissot, e quando certa gente busca quel che merita c’è solo da brindare. Eppure non riusciva ad andarne fiera, per quanto non capisse che cosa glielo impediva. L’intervento finale di Marat, proprio lui, a separare le furie dalla loro vittima, era senz’altro una parte del boccone indigesto. Ma che cosa fosse e che sapore avesse di preciso, ancora non avrebbe saputo dirlo.

Per questo continuava a fissare la donna, sperando che i suoi vaneggiamenti finissero per darle una risposta.

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