Il campanile fu la prima costruzione umana che avvistarono dopo giorni. Svettava candido tra il verde degli alberi.
Malacarne era una manciata di case assediata dalla foresta. A D’Amblanc vennero in mente i funghi che crescono a macchie in mezzo all’erba.
L’intero paese li aspettava sulla porta principale. In piedi, zitti, come fossero statue umane per una raffigurazione sacra: donne, bambini, uomini anziani. Le facce della miseria, poca carne su ossa e muscoli.
Impossibile immaginare chi li avesse avvisati del loro arrivo. Negli ultimi due giorni non avevano incrociato anima viva e la foresta era troppo fitta per consentire avvistamenti alla distanza.
Il mistero fu svelato poco dopo. La donna che parlò per prima, di un’età indefinibile, occhi chiari e viso segnato che serbava qualcosa di simile all’avvenenza, pronunciò parole che non lasciavano dubbi.
– Margot aveva detto che sareste arrivati.
D’Amblanc si stupì per l’ottimo francese della donna, ma finse di non aver sentito, si guardò attorno e chiese del sindaco.
Fu la stessa donna a rispondere.
– Il nostro sindaco non c’è più.
– È scappato?
– No, è morto. Margot aveva predetto anche questo.
D’Amblanc senti una fitta alla schiena e trattenne una smorfia di dolore.
– Vi ha per caso detto anche chi siamo e cosa siamo venuti a fare?
Segui un lungo silenzio, durante il quale gli occhi della donna non si staccarono mai da lui.
– Siete qui per la vostra pena, – disse infine. – Siete venuti guidati dal vostro male.
D’Amblanc incrociò lo sguardo di Radoub. Gli mancarono le forze. Il sergente lo afferrò per un braccio e lo aiutò a smontare da cavallo. D’Amblanc fece il suo ingresso in paese camminando aggrappato all’animale. Gli trovarono un letto su cui farlo riposare, in quella che era stata la casa del curato, anch’egli scomparso. D’Amblanc si coricò con le pistole incrociate sul petto.
Dormí per diverse ore. Non fu un sonno ristoratore, bensì travagliato da incubi terribili. Sognò la voce di Mesmer, il suo inconfondibile accento tedesco, il timbro forte e accattivante al tempo stesso. Non riusciva a distinguere le parole, gli pareva che parlasse da una grande distanza. Cercava di raggiungerlo, attraversando un bosco fitto, con i rami che trattenevano i vestiti. Sentiva il legno graffiare la pelle, aprire ferite. Infine giungeva in una radura, al cui centro c’era Mesmer. La sagoma nota, il lungo abito, il mantello, la chioma fluente. Portava una maschera nera. D’Amblanc gli diceva che i bagni e i massaggi non bastavano più, lo implorava di chiamare il marchese di Puységur, perché aveva bisogno di essere sonnambulizzato e liberato dal dolore. Per tutta risposta l’uomo si toglieva la maschera e rivelava il viso della donna che lo aveva accolto alle porte del villaggio.
«Non c’è nessun marchese, – diceva. – Soltanto il cavaliere».
A quel punto si svegliò. La prima cosa che vide furono le sue pistole appoggiate su una sedia accanto al letto. La seconda fu il crocifisso, sulla parete sopra la sua testa. Un uomo bloccato e sofferente, con una vistosa ferita al costato. D’Amblanc pensò a sé stesso.
No, si disse. Non è questo che sono. Si sollevò a sedere. La stanza era spoglia e a malapena illuminata dalla luce che filtrava dalla finestra semichiusa.
Passò una mano sotto la camicia e la osservò per accertarsi che non vi fosse sangue, rendendosi conto di quanto fosse sciocco quel gesto. Si alzò, infilò giacca e stivali e aprí la porta, solo per trovarsi faccia a faccia con Poulidor.
– Porco diavolo, vi siete tirato su, finalmente. Avete blaterato tutto il tempo...
D’Amblanc sbirciò oltre la sua spalla. Un ampio locale, forse un refettorio, con un grande camino annerito dalla fuliggine, un tavolaccio lungo e le panche ai due lati. La scorta era al completo, tutti li dentro.
Il sergente Radoub raccolse un pentolino e gli versò del liquido caldo in una tazza.
– Bevete. Vi rinfrancherà.
D’Amblanc sedette accanto a lui sulla panca.
– Cosa succede? Perché siete tutti qui dentro?
– Perché non ci piace là fuori, – rispose Radoub indicando la finestra.
D’Amblanc si spostò per sbirciare attraverso l’inferriata.
I paesani erano ancora radunati nello spiazzo davanti alla canonica e guardavano nella loro direzione, immobili. Il pomeriggio era al termine, una luce arancione inondava le case.
– Sono sempre rimasti li? – chiese.
Radoub annuí.
– Cosa fanno?
– Niente, – rispose Radoub scrollando le spalle. – Ci guardano.
– Mi vengono i brividi, – disse Thuillant. – Il sindaco e il parroco sono morti. Qui non comanda nessuno. Non c’è re né Dio, né Repubblica. Facciamo quello che dobbiamo fare e filiamo via.
D’Amblanc tornò in camera a raccogliere le pistole. Le infilò in cintura e le coprì coi lembi della giacca.
Non vi fu bisogno di dir nulla. Gli uomini raccolsero le armi e lo seguirono all’esterno, disponendosi ai suoi fianchi.
D’Amblanc scrutò in mezzo ai volti impassibili dei paesani, cercando la donna che lo aveva interpellato all’arrivo, ma senza trovarla.
– Mi chiamo Orphée d’Amblanc. Vengo da Parigi su mandato del comitato di sicurezza generale, – disse ad alta voce.
– Voglio vedere una bambina che abita in questo paese. Si chiama Margot Tourlan.
Per qualche secondo non accadde niente, poi gli abitanti di Malacarne si volsero e si incamminarono tutti nella stessa direzione.
D’Amblanc scambiò un’occhiata con i suoi e decise di seguire quella gente, tenendosi a una certa distanza.
Giunsero a una casa in fondo al paese, dove iniziava una lieve discesa. Gli abitanti si aprirono per lasciare passare i forestieri. D’Amblanc ordinò agli uomini di rimanere a presidiare l’ingresso. Sali soltanto con Radoub, lungo una vecchia scala che a ogni passo lanciava un lamento legnoso. A D’Amblanc parvero i propri stessi gemiti. Arrivò in cima con un lieve affanno. Sentiva lo sguardo indagatore di Radoub che lo controllava.
La porta si apriva su un’unica stanza, dalla quale sembravano essere stati tolti i mobili. Le travi dal tetto scendevano verso il pavimento, dove il soffitto diventava più basso. Al centro, seduta su una sedia, una bambina. Margot.
La bambina che parla con gli angeli, con la beata Vergine, forse con Cristo stesso. Capelli neri, occhi grandi, spalancati su quel piccolo, angusto mondo. Quanti anni poteva avere? Sette? Otto?
La donna in ginocchio davanti a lei che le accarezzava la fronte era quella con cui D’Amblanc aveva già parlato, quella che era apparsa nell’incubo.
– Siete la madre di Margot Tourlan? – le chiese.
La donna si alzò e annuí.
– Juliette Tourlan.
– Dov’è suo padre?
– Con Dio.
D’Amblanc si avvicinò alla bambina, senza smettere di osservarla.
– Margot, io sono un dottore. Sono qui per visitarti.
– È vero? – chiese la madre.
– Certo, – disse D’Amblanc. – Margot non l’ha predetto questo?
La donna tacque e fu invece la bambina a parlare.
– Chi visita voi?
Aveva una voce che suonava più adulta della sua età.
– Me?
– Si, – disse Margot. – Per la vostra ferita.
Indicò D’Amblanc e una scarica di dolore lo colpì al costato. Sussultò, tossi, ma riusci a rimanere dritto.
– Il Signore le ha dato un dono, – disse la madre. – Margot vede cose che nessun altro può vedere. È figlia degli angeli.
D’Amblanc la guardò come si guarda un alienato in preda al delirio, eppure sembrava assolutamente lucida. Gli occhi però... D’Amblanc se li ritrovò davanti come nell’incubo.
– Uscite, per favore, – disse.
La madre lo fissò senza capire.
D’Amblanc le indicò la porta.
– Radoub! – chiamò.
Il sergente si avvicinò.
– Accompagnate dabbasso la cittadina Tourlan.
Solo quando senti le scale smettere di lamentarsi, D’Amblanc si inginocchiò di fronte a Margot. Le toccò una caviglia e la fronte, per stabilire la catena magnetica. La bambina lo lasciò fare.
– Chiudi gli occhi, adesso. Riposa.
Margot abbassò le palpebre.
– Riposa... – mormorò D’Amblanc.
– Lo faccio già.
– Stai dormendo?
– È come se sto dormendo.
D’Amblanc annuí ai propri presentimenti.
– Ora rispondimi: è vero che parli con Dio?
– No.
– Con chi, allora?
– Con la Signora Bianca.
– Chi è questa Signora Bianca?
– Voi lo sapete.
– Come faccio a saperlo, Margot?
– Portate il suo nome.
D’Amblanc sorrise a quell’ingenuità infantile. Dame Blanche. Un gioco di parole a cui non aveva pensato.
– È solo un nome. Dimmi, chi è lei?
– Non lo so.
– È bella?
– Molto bella, si. Quasi come mia madre.
– Si inginocchia davanti a te?
– Si, mi lava i piedi e poi il viso.
– E ti parla, anche?
– Si. Mi parla di Nostro Signore. Io ascolto.
– Molto bene. Quando vuoi puoi aprire gli occhi.
La bambina sbattè le palpebre e riprese a fissarlo.
Lui ebbe l’istinto di darle una carezza, ma ritrasse la mano davanti all’aria stranita della bambina.
Richiamò dentro la madre e uscí a sua volta nel pianerottolo.
Radoub gli parlò a bassa voce.
– L’avete... sonnambulizzata?
– Non è stato necessario, – rispose con un bisbiglio. – Qualcuno l’aveva fatto prima di me.
– Chi?
– La madre. Quando sono entrato lo stava facendo.
– Cosa significa?
– Significa che la bambina sembra sveglia ma non lo è. È la madre a suggerirle cosa dire mentre è in stato sonnambolico. Dopodiché la bambina non ricorda più nulla, se non che una bella signora le ha toccato i piedi e il viso. Non ci sono né angeli né santi.
Radoub si grattò la testa.
– Come diavolo fa una contadina in questo luogo dimenticato da Dio a conoscere certi stratagemmi?
D’Amblanc si portò una mano al fianco.
– È quello che intendo scoprire, – sibilò tra i denti.
– Voi state male...
– Non importa. Devo parlare a quella donna.
D’Amblanc rientrò nella grande soffitta.