3.

L’interno buio faceva somigliare il vecchio magazzino alla stiva di una nave. L’uomo in nero, che non si faceva più chiamare Laplace, segui con gli occhi La Corneille mentre camminava saltellando lungo il perimetro, accendendo i candelabri con un mozzicone di cera. La luce era importante. Il suo scranno era l’unico punto illuminato dello stanzone. Su una sedia impagliata, più in basso, tra lui e il pubblico, sedeva Malaprez. Il bruto biondastro riposava composto, le braccia sulle cosce, la schiena arcuata. Guardava il nulla davanti, e respirava rumorosamente.

Ora che la luce delle candele mandava ombre lunghe sui muri, il cavaliere d’Yvers pensò che chi entrava avrebbe avuto l’impressione di accedere alla cripta di un chiesa antica.

Anche questo era un effetto studiato. Il mistero, il sacramento che si compiva aveva a che fare con un nuovo ordine del mondo.

Poiché era il tempo della Grande Parodia, i primi guerrieri contro la barbarie dell’uguaglianza non potevano che sorgere dalla stessa schiuma, dalla stessa acqua di scolo dei giacobini.

La feccia fece il suo ingresso. La Corneille doveva averli indottrinati, perché muschiatini e altri reietti della borghesia si muovevano con attenzione, circospetti, come se avessero deposto l’arroganza fuori della grotta iniziatica. Quegli esemplari sfoggiavano il loro pomposo, ridicolo vestiario. Salutavano e si sedevano, si guardavano intorno, parlottavano in un brusio costante ma non scomposto né sguaiato. Prima delle funzioni, i fedeli in una chiesa di campagna avrebbero tenuto forse il medesimo comportamento.

La scenografia, per semplice che fosse, funzionava. Ogni potere ha bisogno di una forma di gloria, di apparato teatrale, di trombe e ori e stucchi. Come le vasche e le armoniche a bicchieri e gli accessi convulsionari ai tempi della voga mesmerista. La penombra, le luci, la prospettiva, l’aura misterica, stregonesca: gli elementi adatti alla messinscena di quei giorni convulsi.

Una volta, nella cattedrale di Chartres, Yvers aveva avuto una conversazione con un vecchio prete. Aveva percorso il labirinto sul pavimento della navata centrale, e osservava dipinti e vetrate. Il prete gli si era avvicinato e lo aveva invitato a guardare ciò che raramente attirava l’attenzione. Aveva indicato col dito una sezione oscura. Una pletora di figure antiche, bassorilievi romanici. Insignificanti rispetto allo splendore di altri apparati: estasi di santi, le sofferenze del Salvatore... Il prete invece indicò una figura di acrobata, un saltimbanco. Si reggeva su palmi e avambracci e guardava chi lo guardava. Il corpo, in alto, era inarcato in modo che la verticale si tramutasse in una curva, le gambe piegate, i piedi che toccavano la testa. Da una prospettiva diversa, il corpo si sarebbe potuto inscrivere in un cerchio. Uroboro umano.

Il vecchio prete lo pregò di riflettere sul senso di quel che vedeva, e di tenere presente che il saltimbanco stava per la perfezione. La condizione di chi vive pienamente nella grazia, e la condizione nella Gerusalemme celeste.

Ora Yvers capiva che quel saltimbanco era un’istruzione diretta. La condizione dei corpi non guidati da una volontà pura e ferrea non era propriamente umana. Se l’uomo è immagine di Dio, allora la perfezione è la tendenza di chi è veramente uomo. Chi non tende volontariamente alla perfezione è buono solo come strumento, non dissimile da un animale, selvaggio o domestico. Soprattutto, la perfezione ginnica dell’acrobata nascondeva una profezia. La posa alludeva a un ciclo, a una rivoluzione, a un compimento. La stasi, l’inerzia della pietra ne rivelava l’equilibrio e riusciva altresí a evocarne il movimento.

Ora i piedi stavano più in alto della testa, e occorreva trattare con gli strumenti che il destino gli poneva di fronte: i rivoltanti e promettenti esemplari di muschiatini che La Corneille aveva radunato.

Di tutta la progenie mostruosa vomitata dalla rivoluzione, quei figli delusi erano i più interessanti, pensò Yvers. Chi sa cosa rimproveravano ai loro padri. L’aver creduto di poter vivere senza un sovrano, ed essere finiti, per questo, impoveriti. Erano figli di artigiani e commercianti. O magari di qualche funzionario.

Sei tappezziere o ebanista o commerci vino e formaggi e ti vedi sopravanzato, o minacciato, da qualche pezzente che crede di aver trovato la voce solo perché si strepitano parole d’ordine. Non si era parlato di questo, quando si cianciava di virtù repubblicane.

Se sei funzionario, poi, nessuno tocchi la divisa. Tu per un po’ ti accodi, ma questi vogliono la tua stessa quantità di piaceri, stesso vino e formaggio e copulare più di ogni tanto, e scopri che tu sei tu perché sei diverso da loro. Uguaglianza dei piaceri? Non sia mai detto.

O forse uno dei tuoi, un fratello, è crepato al fronte per difendere la vostra, la loro cosiddetta patria. Ogni potere ha bisogno di gloria, del resto, a maggior ragione se si tratta di un potere illegittimo. Il sacrificio umano ne è il culmine. Credi alle sirene, ne intendi le voci e ti fai irretire da un canto ambiguo, e poiché senti parlare di ragione ti atteggi a scimmia razionale, perché speri convenga agli affari. Ma in simili temperie, caro muschiatino, prosperano solo i delinquenti, quelli veri, di vocazione. E oltre a una simile vocazione devono averne altre, di doti, e così si vede che la rivoluzione ha giovato agli affari di ben pochi. Tutti delusi, tutti pronti alla reazione.

Yvers studiò il più eminente dei convenuti, mentre La Corneille spendeva il fiato in un pistolotto introduttivo.

Il vestito del muschiatino rifletteva delusione, rancore, una maldestra utopia. Il lezzo adatto a una meretrice, odore di disagio simile a una ferita. La ferita in suppurazione, la Francia, impegnata in un folle tentativo di igiene. Pile di teste, maschere sogghignanti, e quei muschiatini, eroi adatti ai tempi, gioventù dorata, Ragazzi–gloria, Incredibili, Mervegliosi, teppa sgargiante. Vermi brulicanti entro le proprie stesse ferite. Cosi era quella l’idea di nobiltà prevalente tra quei figli delusi. Una parodia. La fazione perdente, quella dei sanculotti, dei democratici, una volta sacrificati gli uomini di spicco, ora doveva guardarsi dall’imitazione di una nobiltà decaduta, logora, che si diceva incarnasse una reazione.

Yvers doveva, o meglio voleva, per necessità di teatro, additare ai capi dei muschiatini scopi e obiettivi, adombrare una strategia, come se ne esistesse una al di là dell’esperimento, della prova che avrebbero presto subito.

Prima di avere una strategia, però, occorreva la massa di manovra. Indurre i molti ad abdicare alla volontà in modo volontario è un risultato che si può ottenere se si dispone della retorica giusta, ma soprattutto se l’idea che ti muove è vera. I muschiatini non avevano nulla a che fare con l’idea di ordine che l’antico regime, anche nei suoi giorni più vili, aveva incarnato. Erano loro la rivoluzione: il precipitato dell’insensatezza, della follia. L’aggressività e il vittimismo li rendevano truppa provvidenziale. Progenie imperfetta, le loro azioni insensate avrebbero preso forza all’interno di una Visione. Che altro è una redenzione, se non questo?

E la strategia che avrebbe delineato era questa: attaccare il serbatoio del popolino, l’utero che aveva partorito tanti sanculotti e stracciaculi, il fomite dello scandalo dell’eguaglianza, che non conviene a nessuno come ogni buon muschiatino sa e dimostra di sapere. Ma non sezioni o luoghi di ritrovo politici: colpire là dove la marmaglia vive.

La parola marmaglia aveva divertito i signori muschiatini. «Si, quella dannata ma’maglia, pa’ola mia!»

– Ed ecco come faremo.

Yvers si leva in piedi e la piccola folla ammutolisce, rassicurata dal vino. Compie qualche passo studiato verso Malaprez. Traccia un gesto davanti al volto del compagno e sussurra qualche parola inudibile.

Malaprez fa sì con il capo e si leva in piedi a propria volta.

Accorre saltellando La Corneille, mulinando un bastone, una luce fredda e infantile negli occhi.

Vibra un colpo sulle reni di Malaprez, poi uno sul costato, secchi, sonori. Colpisce le gambe, finché l’uomo in nero non fa cenno di smettere.

Malaprez è impassibile.

L’uomo in nero guarda la folla. Schiuma. Magnifica teppa. Hanno capito. L’invincibilità, anche imperfetta, anche solo apparente, mera insensibilità al dolore, li attrae, li cattura.

La Corneille stringe mani, si stappa una bottiglia. Questi capibanda, questi signori teppisti sono pronti a coprirsi del manto di gloria che possono permettersi.

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