L’orologio a parete non ebbe il tempo di finire i rintocchi che già le operaie si muovevano verso l’uscita in un brusio di chiacchiere ed espressioni di sollievo. Quando si senti chiamare per nome, dalla soglia dello stanzino dove il padrone trascorreva la giornata a far di conto, Marie ebbe un brutto presentimento. Raccolse la propria sacca e raggiunse Duval nello stanzino che puzzava di chiuso.
L’unica sedia era quella su cui stava seduto lui, dietro uno scrittoio tarlato. Marie rimase in piedi davanti a quel volto secco, senza età. Al solito, gli occhi piccoli dell’uomo tornarono a scrutarla dalla testa ai piedi, mentre faceva oscillare la testa, come se annuisse a un pensiero che teneva per sé.
– Dunque per voialtre la festa è finita, – disse in tono compiaciuto.
Marie lo fissò senza capire.
La testa oscillò ancora.
– Mi sono informato sul tuo conto, Marie Nozière. Ho alcuni amici al comitato di sicurezza generale. Sei una testa calda, amica di controrivoluzionarie. Vivi in casa di una di loro, che marcisce in galera –. Tamburellò con le dita sul banco. – Cosi eri una di quelle che volevano portare le brache e combattere come gli uomini.
Si alzò e sovrastò Marie in tutta la sua altezza, passandosi una mano sul ventre. Fece due passi fino alia minuscola finestra da cui lo stanzino prendeva luce. Marie avverti il puzzo di sudore rancido provenire da sotto il cappello che il padrone non toglieva mai. Lo sguardo prese a vagare, come volesse evadere da quello spazio angusto. Vide un calamaio con una penna d’oca spelacchiata; una pila di fogli unti; un tampone; un libro contabile, su uno scaffale; uno scarafaggio che si arrampicava lungo il margine del muro...
– Se ti saltasse in mente di mettermi le donne contro, – disse Duval, – be’, finiresti male. Non voglio rogne con voialtre.
Il guizzo che Marie avverti nei suoi occhi non le piacque per nulla. Doveva andarsene, ma per qualche ragione non riusciva a farlo, si sentiva bloccata, era il peso di un ricordo che lottava per risalire il pozzo dove giaceva da anni.
– Guarda, – disse Duval indicando il vetro sporco.
Marie sbirciò fuori.
Nel vicolo stazionavano tre uomini. Parlottavano tra loro, lunghe pipe in bocca e facce torve da malfattori.
– I miei procuratori, – disse Duval con un ghigno. Marie non capi cosa intendesse, ma seguitò a restare zitta. – Guardali bene. Se pianti rogne, dirò che ti diano una ripassata. Non vanno tanto per il sottile, sai?
Marie senti lo stomaco stringersi fino a diventare una noce. A stento trattenne un conato di vomito. La voce seguitava a non uscirle, il ricordo aveva raggiunto la superficie e stava occupando la sua mente, senza più freni.
– Oppure puoi vedertela con me, – soggiunse Duval scivolandole alle spalle. – Io sarò più gentile di loro.
Lei era giovane, giovanissima, e completamente sola, come adesso. Anche allora era uno stanzino. Un ripostiglio. Poca luce, odori forti, la sensazione di soffocare. Il padrone spesso era già li dentro che l’aspettava, oppure le ordinava di entrare e la seguiva dappresso. Poteva succedere in qualsiasi momento, quando lui ne aveva voglia. Gli altri domestici lo sapevano o avevano intuito, ma fingevano, rassegnati più di lei. Nessuna serva si era mai ribellata. Nemmeno lei l’aveva fatto. E aveva pagato il prezzo più alto: una vita non desiderata che le cresceva dentro, l’allontanamento, la clausura nel convento in una città gigantesca, spaventosa.
Duval si appoggiò dietro di lei e le strinse forte il seno con le mani.
Le mani del padrone, che toglievano l’aria, lo spazio, la voglia di vivere. Duval si abbassò appena sulle ginocchia e spinse con le anche.
Marie si riscosse. Gli piantò un gomito nello stomaco e si voltò di scatto. Era molto più alto di lei e le stava addosso. Duval imprecò, mentre le immobilizzava le braccia. La schiacciò con tutto il peso contro la finestra e prese ad alzarle la sottana. Marie lo azzannò alla spalla. Strinse come avrebbe fatto un cane rabbioso, sentendo il tessuto della camicia cedere sotto i denti insieme alla carne. Duval ringhiò e fu costretto ad allentare la presa, quanto bastò a Marie per scivolargli sotto le gambe. Lui la trattenne per i capelli, sbattendola contro il banco. Marie afferrò il calamaio e glielo spaccò sulla testa. L’inchiostro inondò la faccia contorta di Duval, chiudendogli un occhio, ma con la sua mole occupava ancora tutto lo spazio della porta.
Marie calciò dritto con lo zoccolo di legno, colpendo in mezzo alle gambe.
Duval si accasciò in ginocchio, ululando bestemmie. Lo sguardo di Marie cadde sulla sacca, finita sul pavimento. L’agguantò e ne trasse i ferri da maglia. Li tenne entrambi nel pugno in modo che le spuntassero tra le dita. Duval se li trovò a un pelo dall’occhio sano. L’ansimare di Marie li faceva oscillare appena, producendo piccoli graffi sopra lo zigomo del padrone, che rimase immobile, mentre lei lo scavalcava e raggiungeva la porta. Lui sputò sul pavimento un grumo di saliva, sangue e inchiostro.
– Ti faccio ammazzare, saloppa maledetta... – sibilò tra i denti, mentre ancora si teneva una mano in mezzo alle gambe.
Marie ascoltò quelle parole e si accorse che non gliene importava. I giorni da serva erano finiti per sempre. Sarebbe stato così anche se non ne fossero seguiti altri. Questo le dava una forza che nessuno poteva toglierle e sapeva che Duval glielo leggeva in faccia.
Strinse la sacca e arretrò, tenendo ancora i ferri sguainati. Uscí dalla fabbrica di bottoni per non tornarci mai più.
Passò accanto ai tre ceffi ai quali Duval aveva minacciato di darla in pasto. Camminò spedita fino all’incrocio e solo dopo che ebbe svoltato l’angolo diede di stomaco. Dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Le gambe non volevano sostenerla, ma le forzò a farlo.
Non aveva detto una parola. Non un grido. Come nel ripostiglio, tanti anni prima. Ma il padrone non era lo stesso padrone. E nemmeno lei era più la stessa.