Non c’era bisogno di fare domande.
Bastava passeggiare lungo la gran via, fermarsi agli angoli con le strade laterali, entrare nelle botteghe di ebanisti e tessitori, mettersi in fila per un cartoccio di carote bollite.
I dettagli sul rogo della Gran Pinta volavano intorno a D’Amblanc come coriandoli nel vento. Al suo fianco, Jean li attraversava naso all’aria, senza capire bene quale motivo li avesse spinti fin li.
«Tu tieni sempre gli occhi aperti, – gli aveva detto il dottore, – ché se ti capita di riconoscere il cavaliere d’Yvers, gli facciamo una bella sorpresa».
Jean si era ormai abituato a quel gioco di rimpiattino. D’Amblanc glielo proponeva ogni volta che uscivano insieme. Diceva che il cavaliere non gli aveva ancora dato un appuntamento, ma di sicuro era a Parigi e poteva anche darsi di incontrarlo per la via. Quel mattino, però, Jean era più distratto del solito, come se le voci di Sant’Antonio fossero davvero coriandoli, o farfalle.
Le fiamme. Gente strana. Come a San Marcello. No, peggio che a San Marcello, là c'erano state solo pacche, mica il fuoco.
I nostri li bastonavano e quelli niente. Férault è morto arrosto. Bastien si è salvato perché si è buttato nel pozzo. Erano tanti, almeno una quarantina. Seee, almeno un centinaio! L’Armata dei Sonnambuli. Quella delle scritte. Ma chi cazzo sono? Fortuna che l’incendio non s’è allargato. Ma chi diavolo sono ’sti gecchi bastardi? Treignac ha rimediato una brutta botta. Gioventù Dorata. I fecciosi di Palazzo Egualità. A Syran dovranno tagliargli un braccio. Te lo ricordi, Syran? Bisogna fargliela pagare. Ci vorrebbe Scaramouche. Ci penserà Scaramouche. Mi sa che cercavano Scaramouche. Dov’era Scaramouche? Hanno sfidato Scaramouche.
Quella mattina, al caffè, D’Amblanc aveva sentito leggere la notizia dell’incendio a Sant’Antonio. I giornali ancora non avevano fatto in tempo a stamparla, ma già circolava su quei fogli scritti a mano che portavano le informazioni da un quartiere all’altro, nel giro di poche ore. Tutti parlavano dell’Armata dei Sonnambuli.
Prima della rivoluzione, un medico mesmerista di nome Malin aveva compiuto diversi esperimenti sull’anestesia magnetica. Aveva sonnambulizzato un uomo di quarant’anni e lo aveva operato di cataratta senza che sentisse alcun male. I suoi scritti avevano suscitato grande interesse. Nessuno, però, era mai riuscito a ottenere analoghi risultati. I sonnambuli avevano una percezione attutita del dolore, questo era noto, ma quel che si diceva dell’Armata dei Sonnambuli era tutt’altra pietanza. Subivano le bastonate come fantocci di carne, continuavano a battersi con un occhio maciullato da un ferro da calza...
– Nemmeno un urlo.
– Li colpivi e andavano dritti per la loro strada, come se quel che avevan da combinare era più forte delle botte che gli mollavi.
– Solo a spezzargli le gambe andavano giù.
– L’Armata dei Sonnambuli.
– Cazzo, si! Le avete viste anche voi le scritte, vero?
– «Arriva l’Armata dei Sonnambuli». Dici che sono gli stessi gecchi?
– E chi altri, sennò? Gli stessi di San Marcello.
– ’Sti qui però non eran pomponnati da teste di cazzo...
– Si saranno vestiti più sdozzi per arrivare fino all’osteria senza dare nell’occhio...
Coriandoli o farfalle, fu inseguendo lo svolazzare di voci che Jean e D’Amblanc giunsero di fronte alla carcassa nera della Gran Pinta. Il tetto di legno era crollato, ma i due comignoli in pietra erano rimasti in piedi, dritti e composti come sentinelle del disastro. Sulle pareti delle case attigue si allargava un’ombra scura, ma le strutture apparivano intatte. La strada era un andirivieni di uomini e donne, come parenti nella camera di un defunto. C’era chi voleva toccare la salma e annerirsi le dita e chi si toglieva il cappello in segno di rispetto. Qualcuno aveva addirittura lasciato il suo sui gradini dell’ingresso. Un capannello di anziani fissava l’osteria, forse nel tentativo di riedificarla con lo sguardo.
Probabile che nelle loro teste quella ricostruzione stesse già avvenendo, pensò D’Amblanc. E per crederla più vera, ci versavano sopra lunghe sorsate di vino, la bottiglia girava tra le mani, i pensieri afferravano assi e piantavano chiodi. Pochi passi più in là, un tizio teneva banco raccontando di come s’era salvato la pelle e descrivendo la morte dell’oste Férault straziato dal fuoco. Una voce domandò se già si sapeva per quando fosse il funerale. Un’altra chiese quanto ancora si sarebbero trattenuti.
– Hai freddo Jean? Vuoi tornare a casa?
– Questo posto non mi piace, – spiegò il ragazzino. – E poi avevate promesso di insegnarmi come si usa la macchina elettrica.
– Non te lo avevo promesso, Jean. Ti avevo soltanto detto che lo avrei fatto, è una cosa diversa.
Il piccolo alverniate tacque. D’Amblanc avrebbe voluto avere più tempo per prendersi cura della sua educazione. Invece, tra gli impegni coi pazienti, la caccia ai sonnambuli, lo screzio con Chauvelin e la riapparizione della signora Girard, non era riuscito a dedicare molte energie al suo nuovo ospite. Spesso gli toccava lasciarlo da solo o in compagnia della cuoca nell’osteria sotto casa. Altre volte lo coinvolgeva in un’attività interessante, ma presto si vedeva costretto a sospenderla, per poi riprenderla quando ormai l’entusiasmo di Jean era spezzato. Gli aveva mostrato le meraviglie del folgoratore, usandolo per produrre scintille o anche per drizzarsi i capelli sul capo con una carica leggera. Jean si era molto divertito e aveva espresso il desiderio di imparare tutto sull’elettricità. Quando la richiesta di apprendere viene dall’allievo, rimuginava D’Amblanc, per il maestro è un successo, ma non bisogna farsi fuggire l’occasione.
Il dialogo tra due uomini che contemplavano i resti dell’osteria lo distolse dai ragionamenti pedagogici.
– Era come se si muovevano senza bisogna di guardare, –diceva uno col braccio fasciato. – Come se erano ciecati, però colpivano sempre il punto giusto.
– Cioè dove?
– Non un punto preciso, scemo. Era come se sapevano prima quello che avresti fatto. Giusto un attimo prima.
– Allora non erano ciecati.
– Col zullo, ci vedevano eccome. Però tenevano gli occhi mezzo chiusi, come quando uno ha trincato troppo e non gli sta su la zucca.
– Quindi erano sbronzi?
– Macché sbronzi, se erano sbronzi li cacciavamo nella Senna a pedate. Quelli erano svegli, però avevano l’aria di chi si vuole imbrandare.
– Non ci capisco un zullo.
– Perché sei uno scemo, va’. Te lo spiego da capo.
D’Amblanc decise che ormai non aveva bisogno di altre conferme. Tutti i dettagli rafforzavano l’idea che l’Armata dei Sonnambuli fosse formata di veri sonnambuli. Insensibili al dolore. Capaci, come lo erano i sonnambuli, di prevedere le azioni altrui. Tutti mossi da un’unica volontà, come membra di un solo cervello. Un cervello che era in grado di metterli in quello stato per poi mantenere il contatto a distanza di tempo e di spazio. Come questo fosse possibile, ancora non l’aveva capito. Ma era chiaro che il cavaliere d’Yvers – o il «cittadino Laplace», come s’era fatto chiamare a Bice tre – praticava magnetizzazioni di gruppo. Altrimenti, per sonnambulizzare uno alla volta decine di uomini, avrebbe impiegato una giornata intera.
D’Amblanc ripensò a quel che gli aveva raccontato il dottor Pinel: una cinquantina di folli, schierati nel cortile di Bicêtre e determinati a tenere la posizione a ogni costo. «Gli inservienti hanno dovuto bastonarli e sollevarli di peso».
– Vieni, Jean. Possiamo andare, adesso.
– Davvero? E mi farete vedere...
– Sì, Jean. Ti mostrerò come produrre il fulmine, contento?
– Evviva! – batté le mani il ragazzino.
Perché chiaramente, ricominciò a ragionare D’Amblanc, il vantaggio di un’armata di sonnambuli stava proprio in questo: per formarla bastava una magnetizzazione collettiva, mentre per sgominarla bisognava colpirne i soldati uno alla volta. Bastonarli alle gambe per farli cadere. O magari smagnetizzarli. Di solito non è difficile svegliare un sonnambulo: basta distrarre il magnetista che lo controlla. Ma se quel magnetista è lontano, se il suo dominio agisce a distanza, allora diventa impossibile spezzarlo.
– È vero che col folgoratore si può uccidere un topolino? Mi piacerebbe provare. Potremmo catturarne uno lungo la Senna e poi fare un esperimento.
– No, Jean, – rispose D’Amblanc soprappensiero. – Non è divertente veder morire un animale.
Nel teatro della mente, rivide la scena di un ciarlatano che torturava un passerotto con l’elettricità. Rivide Chastenet che folgorava Jean del Bosco per interromperne la crisi. A dispetto di quei medici che cercavano nelle scariche una terapia, D’Amblanc era convinto che usare l’elettricità contro un essere vivente fosse sempre assai rischioso. Rivide ancora Chastenet, il folgoratore in mano...
– Ma poi, quando mi avrete insegnato, potrò adoperarlo da solo?
Il folgoratore usato per liberare Jean del Bosco dagli effetti di una crudele magnetizzazione a distanza.
– Anche quando voi non ci siete, intendo.
«A mali estremi», aveva detto Chastenet, e il folgoratore si era dimostrato capace di interrompere l’antico dominio del cavaliere d’Yvers sul piccolo Jean.
Capace di disinnescare l’ordigno.
– Vi potete fidare, sapete? Quando imparo una cosa non me la dimentico più. Se aveste una spinetta vi dimostrerei che la so ancora suonare, come quando stavo con il cavaliere.
Le magnetizzazioni collettive sono molto potenti, ma sono anche fragili. «Basta che nur einer, uno solo si disconecta, – disse la voce di Mesmer, – perché alle siano egalmente interupti. Per questo non è buono fare magnetismi colectivi con persone ancora troppo distratte e inesperte».
Dunque, pensò D’Amblanc, se il folgoratore aveva liberato Jean del Bosco, allora poteva anche liberare un soldato dell’armata. E se l’armata era ottenuta da una magnetizzazione collettiva, allora la libertà di uno voleva dire la libertà di tutti. Cioè la distruzione dell’intera armata.
– Dottor D’Amblanc, ma non dobbiamo svoltare a destra? Andiamo a casa, giusto? Vi stavo dicendo del folgoratore...