3.

La prima parola che raggiunse Marie nella nebbia del dormiveglia fu un nome.

– Yvers...

A pronunciarlo era una voce infantile, e il pensiero corse a Bastien, mentre un brivido la scuoteva. Forse stava ancora sognando. Perché aveva sognato, anche se non ricordava cosa. Di certo erano stati incubi, perché la sensazione che l’avvolgeva era terribile. La voce parlò ancora. No, non era la stessa, era quella di un uomo adesso, calma, profonda. Marie attese che i brividi passassero e provò a tirarsi su. Si ritrovò seduta su un letto, in una stanza sconosciuta.

Tese l’orecchio: le voci provenivano da un ambiente attiguo, attraverso la porta socchiusa. ,

– Non mi ricordo, signore.

– Non sono il tuo signore, Jean.

– Il cavaliere era il mio signore.

– Ti ha abbandonato, però.

Seguì un lungo silenzio. Nell’accento del bambino, Marie aveva riconosciuto qualcosa di familiare.

– Lui era buono...

– Lo ritroveremo, devi avere pazienza.

Marie si alzò, incerta sulle gambe, e riuscì a raggiungere la porta. Rimase ancora qualche istante in attesa, prima di aprirla piano.

Seduti a un tavolo, l’uomo e il bambino si volsero insieme. Il primo si alzò e le andò incontro senza foga, come se temesse di intimorirla.

– Ben svegliata. Prego, sedete qui.

La accompagnò a una seggiola standole vicino, pronto a sorreggerla. Il bambino la seguì con gli occhi grandi e scuri. Quando si fu seduta, l’uomo le porse un piatto con due patate bollite.

– Mangiate qualcosa. Dovete recuperare le forze.

Il volto dell’uomo appariva segnato dalla preoccupazione, forse dimostrava più dei suoi anni. Lo sguardo era sincero.

– Chi siete? – chiese Marie riconoscendo a stento la propria voce.

– Sono il dottor Orphée d’Amblanc. Vi ho soccorsa a Palazzo Egualità... Avete avuto un mancamento, ricordate?

Marie frugò nella nebbia che andava dissipandosi e lasciava intravedere qualcosa. Era svenuta, sì, dopo che quei ceffi acchittati e profumati l’avevano presa in mezzo.

– I miei ferri da maglia...

D’Amblanc, imbarazzato, si guardò attorno, ma fu il ragazzino a raggiungere una mensola e portarli a Marie.

Lei li prese e li strinse in grembo, come fossero la cosa più preziosa che aveva. Con l’altra mano impugnò la forchetta e iniziò a mangiare. A ogni boccone, che masticava lentamente, sentiva lo stomaco ringraziarla e le forze tornare.

– Come vi chiamate? – chiese il dottore.

– Marie Nozière.

– Avete un posto dove tornare?

Marie annuì in silenzio.

– Bene. Quando vi sentirete meglio posso accompagnarvi a casa, cittadina Nozière.

– Faccio da me.

Il dottore non aggiunse nulla.

Fu invece Marie a parlare di nuovo, rivolgendosi al ragazzino.

– Vieni dall’Alvernia?

Marie notò lo stupore sul viso dell’adulto.

Il ragazzino annuí.

– Si, signora.

– Da quale paese?

– Yvers.

– Lui è Jean, – intervenne D’Amblanc. – Anche voi siete al verniate?

– Lo ero tanti anni fa, – rispose Marie tornando a concentrarsi sulle patate.

– Anche oggi andiamo a Palazzo Egualità a cercare il cavaliere? – domandò Jean.

D’Amblanc gli passò una mano sulla testa, un gesto affettuoso che smosse qualcosa nell’animo di Marie.

– No, Jean, oggi no. Dobbiamo accompagnare a casa la cittadina Nozière.

– Non c’è bisogno. Vi ho detto che me la cavo da me.

Marie fece per alzarsi, ma per un istante la vista si offuscò, le ginocchia cedettero e ricadde sulla sedia.

Si accorse che D’Amblanc la sorreggeva per il gomito. Sentirsi toccare le provocò un’ondata di paura e disgusto, e d’istinto sollevò i ferri.

D’Amblanc fece un passo indietro e alzò le mani in segno di resa.

– Vi prego, cittadina... Non intendo... Sono un medico, ve l’ho detto. Perché non vi stendete nuovamente sul letto? Tornerete a casa quando vi sentirete in forze.

Marie obbedì controvoglia e quando si fu stesa piombò in un sonno agitato, dove figure incerte, sfocate, la circondavano e la toccavano, lacerandole i vestiti e togliendole il respiro.

Quando si risvegliò, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, ma la luce del giorno era diminuita. Teneva ancora in pugno i ferri da maglia e qualcuno le aveva messo addosso una coperta.

Ai piedi del letto era seduto il ragazzino. La osservava immobile, un’espressione vacua sul viso.

– Dov’è quel signore? – gli chiese. – Non è tuo padre, vero?

Jean sfiorò la coperta con la mano, osservandosi le dita.

– No, è un dottore. Siccome dormivate, è uscito. Mi ha detto di badare a voi.

Marie si alzò. Si sentiva leggermente stordita, ma almeno era in grado di reggersi in piedi. Pensò di tornarsene a casa, ma si rese conto che questo avrebbe significato lasciare il ragazzino da solo. Doveva avere suppergiù l’età di Bastien.

– E a te chi ti bada?

Lui fece spallucce.

– Quanti anni hai?

– Non lo so, signora.

Marie gli lanciò un’occhiata stranita.

– Mi stai perculando?

Il ragazzino arrossì e si portò l’indice alla fronte.

– La testa... Non funziona bene, signora... Il dottore mi cura. E mi aiuta a ritrovare il cavaliere.

Marie fece qualche passo nella stanza fino a raggiungere la finestra e sbirciò fuori, in strada. Era quasi buio. Le pareva che il ragazzino fosse un po’ tocco.

– Questo cavaliere è un tuo parente? – domandò senza voltarsi.

– Nossignora.

Marie guardò la notte che scendeva oltre i vetri opachi e avverti il richiamo della vecchia soffitta di Claire, dove sarebbe corsa a rintanarsi e magari a sbronzarsi con qualche avanzo di vino, fino a dimenticare tutto. Ma c’era qualcosa che la tratteneva. C’erano, a pochi passi da lei, quello strano ragazzino e i suoi occhi grandi, la sua storia e la sua presenza. C’erano gli incubi tornati a tormentarla dopo molti anni. C’era il bisogno disperato di aggrapparsi a qualcosa, o lasciarsi morire. C’era andata vicino. Ma era stata raccolta, riportata indietro. Per specchiare la sua solitudine nello sguardo di Jean, così diverso da quello di Bastien.

– Voi avete una famiglia, signora? – chiese Jean.

– Non più, – rispose lei in tono vago.

– Allora potreste rimanere qui.

Sentirono aprirsi la porta di casa. Marie si spostò nell’altra stanza, seguita da Jean, giusto in tempo per vedere rientrare D’Amblanc con l’aria di chi ha camminato a lungo.

– Buonasera, – disse. – Sono lieto di vedervi in piedi. Jean vi ha tenuto compagnia?

Marie si sforzò senza successo di rivolgergli un mezzo sorriso.

– Si.

– Forse dovreste mangiare qualcos’altro, sapete? Prima di andare.

Quel dottore doveva avere ben capito che ormai da un pezzo saltava i pasti. Marie pensò ancora alla soffitta di Claire, dove si era ripromessa di aspettare la sua amica tante di quelle volte da non aspettarsi più niente. Una sera si sarebbe addormentata sul vecchio divano sfondato e non si sarebbe più svegliata. Non c’era altro davanti a lei.

– Ho recuperato un po’ di ossi per il brodo, – soggiunse D’Amblanc sfilando un cartoccio da sotto la giacca. – Renderà morbide e saporite le gallette. Poi friggerò qualche cipolla. Che ne dite?

Marie guardò il ragazzino, poi di nuovo l’uomo e infine appoggiò i ferri da maglia sul tavolo.

Quand’ebbero finito di cenare, Jean diede la buonanotte a entrambi e si ritirò a dormire nell’altra stanza.

D’Amblanc prese a caricare una pipa dalla lunga cannuccia. L’ambiente era immerso nel buio, rotto solo dalla luce di due candele.

– Che ha il ragazzino? – chiese Marie toccandosi la fronte con il dito, nello stesso gesto che aveva visto fare a Jean.

D’Amblanc accese la pipa tirando ampie boccate. Attese che le volute di fumo salissero verso il soffitto, formando strane figure mobili negli aloni di luce.

– Gli hanno fatto del male. Quando era molto piccolo.

– Dice che lo aiutate a trovare un cavaliere...

– Per la verità, è lui che aiuta me.

Marie lo guardò stranita.

– Beato chi vi capisce, – commentò con un’alzata di spalle.

D’Amblanc sorrise e seguitò a fumare.

– Perché mi aiutate? – chiese lei dopo un po’.

D’Amblanc parve riflettere.

– Voi credete a quel che sta scritto sugli stendardi della Repubblica? Fraternità...

– Forse prima, – rispose lei. – Ma adesso... Non so. Voi fate così? Prendete su le persone?

– Sono un medico.

Lo disse senza enfasi, e non aggiunse altro.

– Ce ne fossero, come voi... ma la buona volontà non basta, – obiettò Marie. – Serve pure la giustizia. Quei gecchi che mi sono venuti contro sono... – Non trovò le parole.

– Quelli li con gli stendardi della Repubblica ci si puliscono... – si trattenne, imbarazzata.

– Si. C’è gente che non si fa scrupoli.

– Come quelli che a Sant’Antonio hanno bruciato La Gran Pinta con l’oste dentro, – disse Marie.

Le tornò in mente la visita di Bastien, quando era andato a trovarla per dirle quello che era successo al foborgo. Il ricordo era vago, fitto di nebbia. Quel giorno era ubriaca.

– A Sant’Antonio ci sono andato, – annuí D’Amblanc.

– Ho visto quel che hanno fatto e tutti confidavano che Scaramouche li avrebbe vendicati.

– Eh, bella speranza. Uno da solo non basta mica.

– A volte mi viene da pensare che non esista, che sia solo una leggenda inventata dal popolo per farsi coraggio.

– Invece esiste eccome! – proruppe Marie e per un attimo si rivide stretta a Léo Modonnet, nella vecchia casa. – Io l’ho conosciuto, – aggiunse.

D’Amblanc la guardò con aria incredula.

– Scaramouche? Quello che chiamano l’Ammazzaincredibili?

– Non lo so se è lo stesso. Però l’anno scorso, a Sant’Antonio, c’era un attore italiano che andava a legnare i bottegai furboni, travestito da Scaramouche.

D’Amblanc abbassò la pipa e si protese verso di lei.

– Perché non dovrebbe essere lo stesso? – domandò ansioso.

Marie ci pensò su, cercando di decifrare la curiosità del dottore.

– Già, perché no? Io credo che sia lui.

Per un po’ D’Amblanc rimase zitto. A Marie parve che stesse decidendo se confidarsi con lei. In fondo, perché avrebbe dovuto farlo? Era soltanto una derelitta raccolta sul lastrico di Palazzo Egualità. Eppure Marie sentiva di doverci sperare. C’era qualcosa, proprio li, davanti a lei, come l’estremità di una corda che attendesse d’essere afferrata e tirata, per fare cadere un velo, ritrovare l’intenzione di vivere, imboccare un cammino che però, lo sapeva, non avrebbe portato verso la luce, ma nell’angolo più buio della memoria.

– Sto cercando una persona, – disse infine D’Amblanc.

– Una persona pericolosa. Ma come dite voi, la buona volontà non basta. Ho bisogno di alleati.

Ecco, pensò Marie. Devo soltanto alzare la mano, stringere il pugno e tirare.

– Questa persona che cercate è quel cavaliere... Quello che ha mollato il ragazzino?

D’Amblanc annuì.

– È un controrivoluzionario imboscato e sono sicuro che si trova qui a Parigi, – disse. – Credo sia il capo della banda che ha incendiato La Gran Pinta. L’Armata dei Sonnambuli –. Dopo un istante aggiunse: – Pensate che questo Scaramouche, questo italiano, mi aiuterebbe?

– Non lo so, – rispose Marie assorta. – A fare cosa?

– Ad arrivare fino alla testa del serpente.

Marie tornò a guardarlo.

– E tagliarla?

D’Amblanc non disse nulla, non ce ne fu bisogno. Marie si chiese se era davvero questo che voleva per sé stessa: una pista, una caccia, la vendetta dei pezzenti. La sua parte. Aveva già perso tutto, non aveva nulla da rimetterci, se non quella triste esistenza trascinata un giorno dopo l’altro. Il destino le metteva davanti l’occasione.

– Vi dico come si chiama e ci metto pure una buona parola. A una condizione, – disse, e soltanto ora le parve di avere ritrovato la propria voce. – Che prendete anche me come alleata.

– Voi? – disse D’Amblanc stupito. – Voi avete bisogno di cibo e riposo. E poi siete...

– Una donna, – lo anticipò lei. – E anche una cattiva madre, s’è per questo. E trinco forte, sacrodio. Ma la mia condizione è questa o sbrisga.

– D’accordo, – disse D’Amblanc. Le strinse la mano, come fosse un uomo. – Come si chiama questo attore?

– Léo Modonnet.

– Bene. Immagino sarà opportuno iniziare a chiedere nei teatri. Qualcuno che lo conosce salterà fuori.

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