8.

Guardate ora, pensò Yvers, mentre contemplava i sonnambuli ardere come stelle nel firmamento e il terrore impadronirsi della gente. Guardate, ovunque siate, sparsi sulla mappa d’Europa, voi che potete cogliere la sublime grandezza di questo gesto. Mesmer, Puységur... Guardate il successo di chi si è spinto oltre ogni vostra immaginazione. Guardate i guerrieri della nuova èra. Non un gemito. Non un moto di esitazione. Ciò che devono dimostrare dimostrano. E non sono che pochi. Cosa potremmo fare con un’Armata di Sonnambuli che ammontasse a un’intera nazione? Quali potenzialità sprigioneremo nei secoli a venire? Cosa saranno stati i Marat e i Robespierre di fronte a tutto questo? Il loro Terrore è niente di fronte a quello che vedete negli occhi della gente che scappa. Non già da una minaccia, ma dalla verità, da ciò a cui non riesce a dare un senso, poiché non vi è alcun senso. Noi siamo andati al di là, ci siamo proiettati nell’atto che afferma sé stesso senza giustificazioni, senza compromessi. Cos’è il secolo dei lumi che abbiamo alle spalle davanti alla luce che divampa da questi guerrieri, davanti all’affermazione categorica, inappellabile, eterna?

Era giunto il momento. Yvers si rivolse a Malaprez.

– Raduna l’armata. Sanno cosa devono fare. Poi raggiungimi nel posto convenuto.

Malaprez non replicò. Si fece largo in mezzo alla confusione, abbattendo chi si parava davanti.

Sotto la sciarpa, Yvers si concesse un sorriso di soddisfazione. Gli ordini erano stabiliti. I sonnambuli si sarebbero sparpagliati a piccoli gruppi per la città, attaccando briga e creando confusione.

Qualcosa di umido gli sfiorò le dita e lo distolse dai suoi pensieri.

Abbassò lo sguardo e vide un essere che gli leccava la mano. La ritrasse con ribrezzo e si accorse che si trattava di un ragazzino che uggiolava come un cane. Alzò il braccio per colpirlo e scacciarlo via, ma il ragazzo si accucciò ai suoi piedi guaendo, e in quell’istante il cavaliere avverti l’eco di una sensazione remota. Fu come non ci fosse più nessuno intorno. Vide gli occhi che imploravano la pietà del padrone, e si ritrovò nel castello d’Yvers, in Alvernia, prima di ogni cosa successa nel frattempo.

– Jean... Mio Dio... – mormorò incredulo. – Sei proprio tu...

Appoggiò una mano titubante sulla chioma scura. Gli anni erano trascorsi, ma nei tratti del volto riconobbe le tracce del bambino che aveva allevato.

– Sangue dei santi, Jean...

Il ragazzo-cane si lasciò accarezzare la testa e tornò a leccargli la mano. Difficile non leggere in quell’apparizione il segno del destino. Ora che tutto si compiva, tutto tornava all’origine. Jean era stato il punto di partenza. Gli uomini che bruciavano davanti a lui, in mezzo alla folla isterica, erano la tappa successiva. Ma non già il suo trionfo. Ancora poche ore, e allora sì, avrebbe avuto in mano il destino della Francia. Forse dell’intera Europa.

Sentì chiamare il nome del ragazzo, si volse e vide un uomo avanzare in mezzo alla gente. Brandiva un’arma lunga. Lo vide fermarsi quando scorse lui e Jean.

Yvers sentì il fluido accelerare.

Percepì la forza magnetica di quell’uomo.

Lui sapeva.

Conosceva Jean, lo chiamava per nome.

E Jean aveva riconosciuto lui, Yvers, il suo vecchio padrone.

Jean il cane, il segugio.

Accarezzò più forte la testa del ragazzino e lo strinse a sé. Sentì ancora l’uomo urlare, mentre cercava di raggiungerli. Yvers estrasse lo stilo acuminato che portava nascosto nel bastone e con un gesto rapido lo conficcò sotto l’ascella del ragazzino, trafiggendogli il cuore. Lo lasciò accasciarsi agonizzante e si volse verso l’uomo che stava per raggiungerlo. Puntò una mano a palmo aperto verso di lui. L’altro si piegò dal dolore. Yvers tenne la mano puntata sull’avversario, mentre quello si contorceva a terra. La paralisi del fluido l’avrebbe ucciso in capo a un minuto.

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