I tre merdegliosi avevano un secchio di vernice nera e un grosso pennello. Uno li portava e ogni tanto si fermava a scrivere, gli altri facevano da scorta. Di rado incrociavano qualcuno. Se capitava, lo guardavano torvo e quello girava al largo, rapidissimo. Prima uno sgraziato, poco dopo una battona. Della cagnaccia, nessuno. Giravano indisturbati dall’autorità, in ossequio alle disposizioni di Fréron.
Scaramouche li seguiva a distanza da almeno mezz’ora, avvolto nel mantello per essere tutt’uno col cuore della notte, ogni tanto prendendo scorciatoie per attenderli più avanti, passando nelle vie più strette e oscure, tra rifiuti, escrementi, carcasse di gatti macilenti.
Già da un po’ Léo aveva adocchiato quelle scritte. «Arriva l’Armata dei Sonnambuli», «Viva l’Armata dei Sonnambuli». Si era chiesto che volessero dire, e chi mai le stesse scrivendo. Sinceramente, non avrebbe mai pensato ai muschiatini. Che cazzo avevano in mente?
I tre si fermarono e ripresero a scrivere. «Viva l’A...»
E pó bon!, pensò Léo, che ne aveva abbastanza. Era il momento di entrare in azione.
– Non saRà oRa di andaRe a doRmiRe, scRibacchini?
I tre si girarono di scatto, ma – strano a dirsi – non sembravano stupiti. In viso avevano espressioni impenetrabili.
Nondimeno, Léo scattò.
Scaramouche esordi entrando con il rostro nell’occhio di uno dei tre. Senti il bulbo esplodere, pop. Quello però ebbe solo un istante di esitazione: fece un passo indietro, poi riprese a mulinare i pugni avanti a sé. Scaramouche arretrò e colpì con lo spirito di Marat le gambe dell’avversario. Un colpo al centro della coscia in grado di azzoppare un mulo. Il gecco lo assorbì, ugh!, buttando fuori giusto un po’ di fiato in più, ed ecco che gli furono addosso.Léo stava per finire sotto il mucchio quando ebbe l’idea di utilizzare il bastone in una traiettoria montante, dal lastricato al mento di uno dei lezzosi. La mascella schioccò e il collo frustò all’indietro, giusto in tempo perché Léo uscisse di corsa dal mucchio di corpi e dalla tempesta di colpi, ma quello, il muschiato, anche dopo aver subito un calcio in bocca continuò ad avanzare, barcollando un passo o due. Scaramouche arretrò ancora e si mise in guardia. La paura c’era, l’avvertiva, era in fondo al coccige, ma se rimaneva li poteva essere un motore. Infatti, Léo si scopri lucido come uno specchio. Se invece la paura sale e tocca le viscere, ecco che ti caghi addosso.
Mentre lottava per non far salire la paura dal perineo alla pancia, Léo ebbe un’intuizione.
Automi.
Esseri caricati a molla.
Del resto, per imitare alla perfezione i movimenti di un uomo, basterebbe un buon orologiaio. La cute si fa con qualche pelle ben conciata. Gli occhi, con gemme o pezzi di vetro, a seconda di chi sei e che posto hai nel mondo.
E quegli occhi somigliavano davvero a pezzi di vetro.
Léo senti i peli della schiena rizzarsi. I colpi, i gesti, i respiri, i corpi, i minimi atteggiamenti delle membra sembravano eseguire una coreografia. Forse i muschiatini erano in preda all’effetto di qualche droga o farmaco che li rendeva capaci di intuire i colpi altrui e ignorare il dolore.
Eran disposti a triangolo. Quello al centro avanzò. Scaramouche gli sferrò sul ginocchio un coup depied bas. Bernard glielo aveva insegnato alla perfezione e lui lo portava in modo sciolto, lungo, così che la parte interna della scarpa, di taglio, segasse la gamba sul molle, sul cedevole dell’articolazione.
Il muschiatino cadde in avanti. Prese a trascinarsi con le braccia, l’arto colpito piegato in modo contrario al disegno divino. Léo si diede del coglione, si, era stato un coglione solenne a lasciare sdegnosamente a terra la pistola, notti prima, arma che avrebbe costituito una parte legittima del suo bottino di guerra. Ora l’avrebbe usata, eccome. Perché la guerra è guerra, e se la cominci o ti ci trovi in mezzo devi andare fino in fondo e vincerla, quale che sia lo spiegamento di forze o la crudeltà che il nemico possa allestire o mettere in atto.
Léo bestemmiò, deciso a vincere in ogni modo. Perché la morte, sua, sarebbe stata l’altro esito probabile dell’impresa.
Zó bot!, pensò nel suo dialetto. Lo spirito di Marat si abbatté sulla tempia dell’avversario di destra, che cadde tramortito. Esistono punti colpiti i quali la macchina implode. Sferrò un calcio poderoso al basso ventre dell’altro. Nemmeno una piega. L’avversario mostrò solo una piccola titubanza nel compiere il passo successivo, per finire però investito da una gragnuola di mazzate. Il muschiatino non potè reagire, ma continuò a rimanere in piedi finché gli avambracci a protezione del volto non cedettero e la faccia scomparve, sepolta, maciullata.
Léo respirò affannosamente. I suoi avversari erano battuti. Anche quello con la gamba rotta fu raggiunto e finito a bastonate, rumore da far gelare il sangue.
Li guardò come si guarda un prodigio nefasto. Senti, improvviso, il dolore dei colpi subiti. Collo, costole, braccia. Uno dei muschiatini biascicava qualcosa, mandando bava dalla bocca. Léo si avvicinò e tese l’orecchio. Sembrava una serie di numeri, una sciarada ritmica di cui non si coglieva sillaba. Si, erano macchinari rotti, difettosi. A renderli umani, solo l’odore, il lezzo dei corpi, il ricordo di com’è fatto un uomo visto da fuori.
Mentre riguadagnava il fiato, vide che uno dei tre corpi si muoveva. Non erano gli spasmi di un moribondo: si stava rialzando, nonostante la fronte squarciata si stava rialzando, mani puntate a terra si stava rialzando.
Léo senti la paura montare dal coccige e invadere le viscere. Avrebbe potuto finire anche quello, ma era esausto, schifato, atterrito da quel che aveva visto.
A fatica, Léo armeggiò con la chiave. La stava ancora girando nella toppa quando l’uscio si aprí e, nel chiarore dell’alba, apparve Bernard. A quell’ora usciva per comprare da mangiare. I due si guardarono e, per la prima volta da da quando Léo lo conosceva, il marsigliese ebbe un sussulto di sorpresa. Non doveva essere un bello spettacolo: pallido come zuppa di latte, mezzo storto e visibilmente dolorante, in mano un fagotto lercio. Avrebbe dovuto lavare a fondo il costume, se voleva tornare in azione.
Del resto, aveva tempo. Il corpo aveva bisogno di riposo, e la mente di quiete per riflettere.
– Facciamo che io non so quello che fai di notte, – disse Bernard. – Siamo intesi?
– Siamo intesi, – rispose Léo, poi scostò il suo padrone di casa e si trascinò oltre la soglia.