3.

Non si può dire che la sfida con l’olezzante–di–muschio occupasse tutti i suoi pensieri. In realtà, a risuonare nel cranio erano pensieri a nastri, a ciocche, a ridde e tresconi, pensieri vari, mutevoli, triviali o elevati, cacofonia che mischiava stridori e angeliche melodie. Castelli di note sublimi, scivoloni fuori tonalità, brusii, rumori di fondo, immagini a pezzi e frammenti. La faccia di Jean-Do, prossimo avversario, ad attirare voti di vendetta, zirudèle di scherno, freddi piani di battaglia.

Léo si era informato. Le mani nude erano il suo terreno favorito. La merda muschiata aveva preso lezioni da Bernard Macchia, uno dei maestri d’arme che sulla strada, dopo la chiusura delle sale ufficiali, aveva saputo attirare a sé una variopinta congrega di teppisti. Macchia era di Marsiglia e aveva portato al Nord lo stile di combattimento dei marinai del Sud, basato sui calci alti, anche alla testa. Lo soprannominavano Bernard la Rana. Era un pericoloso, vecchio cane da combattimento. Si diceva che sarebbe stato presente alla disfida: gli piaceva scommettere.

Lo sai te cos’è che capita a chi si sente troppo sicuro di sé? Finisce con la faccia spaccata se gli va bene. Non sarai mica uno di quei maronari che gli piace sul serio fare a pacche?

Se avesse avuto dei baiocchi, Léo non avrebbe esitato a scommettere su sé stesso. Se avesse avuto soldi veri, non assegnati. Ne sarebbero bastati pochi: l’entità del successo dipendeva da quanta gente avrebbe scommesso, non dalla posta iniziale, e Léo sapeva coinvolgere il pubblico.

Ascolta, bisogna che capisci bene che si alzan le mani solo per difendersi o per lavoro, come me quand’ero nei soldati.

In realtà, non si curava del denaro. Il punto era l’onore. E, in fondo al cuore, l’odio per quella strana forma di vita che puzzava di finto profumo da ricchi.

Di nuovo, gli tornò alla mente Mingozzi, la sua figura nodosa, i capelli bianchi corti, gli occhi grigi da cane, mani esageratamente grandi, le nocche in rilievo. Mingozzi amava bere e mangiare, ma solo in compagnia. Per il resto, era parco in misura estrema. Amava il pesce di fiume, le trote che venivano dai monti dietro Bologna.

Trote alla brace. Ne senti l’odore insieme a tutta la distanza che lo separava da casa.

Ma occorreva muoversi. Con gli assegnati che aveva, contava di procurarsi dell’acquavite e del vino. Nelle pause, specie se il combattimento andava per le lunghe, era buona cosa tracannare un buon sorso di vino e un sorsetto di distillato. Il vino per dissetarsi, l’acquavite per sentire meno le pacche.

Quando l’avevano cacciato dal ristorante, Léo era tornato a dormire sotto Pontenuovo, e per fortuna che la primavera avanzava. Un paio di notti all’addiaccio gli avevano già messo la luna storta ben bene. La scritta «Vive la Trance» non c’era più. Qualcuno doveva averla cancellata, o forse era stata un parto della sua immaginazione nutrita dalla fame.

«Nutrita dalla fame», mica male come frase. Anche meglio di «Vive la Trance».

Prima di risalire i gradini che portavano sul ponte, Léo estrasse dalla bisaccia mezzo pane nerastro, colloso. Il pane dell’uguaglianza era di grano (poco), avena (un po’ di più), gesso, calcinacci e segatura (in abbondanza). Si diceva che, tirato contro il muro, vi rimanesse appiccicato. Léo non ne aveva mai avuto esperienza diretta. Poco furbo tirare del pane contro un muro, ma era una cosa che si diceva accadesse. Il pane dell’uguaglianza faceva schifo, ma era quel che c’era.

Per l’incontro, gli avevano detto che doveva portarsi un secondo, ma Léo non aveva più nessuno.

S’tvû èser bän sarvé cmanda e pò fà té, – mormorò, poi intraprese la salita.

Sul ponte incontrò il bergamasco, Rota. Si portava ancora dietro il carretto dei libri, anche se dall’ultimo che aveva venduto era passato chissà quanto. Degli ambulanti, ormai era rimasto soltanto lui.

Léo ebbe l’intuizione.

– Va bene, bolognese, – disse il libraio. – Io ci sto, a venirti a vedere mentre fai a pugni. Solo che, con rispetto parlando, in due giorni ho mangiato una fetta di pane con una saracca sopra, sola, rinsecchita, sembrava piangesse di solitudine, chiedeva pietà. Io non ne ho avuta, si intende. Quindi, io vengo, ma devo mettere qualcosa nella pancia. Sacco vuoto non sta in piedi. E bere pure qualcosa, così mi metto allegro e mi godo le pacche.

Léo gli disse che era messo peggio di lui, ma in tasca serbava ancora qualche assegnato, poco più che carta straccia. Di sicuro, alla barriera dei combattimenti avrebbero trovato qualcosa da mangiare.

– Dammi solo il tempo di portare il carretto in deposito, è a dieci minuti da qui.

Léo acconsenti e i due si avviarono lenti, l’ex attore davanti, lo zoppo dietro con la sua libreriola.

Mentre lo portavano via, l’uomo sulla lettiga inveiva e malediceva la sfortuna. Léo si stupì della sua veemenza, perché era davvero conciato male. Sembrava passato attraverso una ruota di mulino. Tutta la pelle in vista, faccia e braccia e mezza gamba, era coperta di escoriazioni. Si allontanava dalla scena della battaglia che lo aveva visto transitorio protagonista, un decadi del mese di fiorile.

– Ecco uno che ci ha rimesso il valsente, – disse Rota.

Léo pensò che il denaro, quello si, è un demone. Lo sfortunato combattente avrebbe fatto meglio a preoccuparsi d’altro. Avrebbe cagato sangue per giorni, dal gran che l’avevano pestato.

Lettiga, barellieri e infortunato passavano tra le ali di una piccola folla. Alle loro spalle, nei prati a ridosso delle mura, c’erano capannelli, accrocchi, brigate di uomini e donne. I volti e le taglie erano una dissonante Babele. Léo notò individui di tetra bruttezza ed esseri che sembravano piovere da un altro cielo, spalla a spalla. La barriera dei combattimenti era un’occasione per sfogare le tensioni di una vita fatta di fame e incertezze.

Il cibo scarseggiava. Il popolo aveva idee contrastanti sulle cause della fame. La tipica risposta: «C’è chi monopola, imbosca, lucra e si sazia!», sembrava sempre meno soddisfacente. Il popolo la sua legge contro i parassiti l’aveva avuta, ma la situazione non era migliorata. Gli odori che accolsero Léo non avevano alcuna parentela con il buon cibo. Odore di cavolo bollito. C’era un vinaio, attorniato da congreghe dall’aria trista, e un venditore di formaggio che puzzava di culo d’asino. Il formaggio. E anche il venditore.

Ciò non impedì a Rota di andare a bagnarsi il becco e prendersi un boccone, che desse compagnia alla saracca del giorno prima.

Il bouquiniste si fermò anche a dare un’occhiata oltre la piccola folla pronta ad assistere a una delle sfide, e provò a scommettere l’ultimo assegnato. A gesti, il tizio che raccoglieva le scommesse fece capire che no, si potevano puntare solo soldi veri. O roba, tipo gioielli, orologi, catenine. Il vecchio fece un dietrofront macchinoso, sventolando a mezz’aria la gamba sciancata in un movimento simile a quello di una porta che gira sui cardini.

Intanto Léo osservava, ascoltava. La gente era divisa in bande, per foborgo e quartiere, cioè per ceto e dunque fazione politica. Le zuffe erano frequenti. I gecchi facevano il possibile per giungere sul teatro dei confronti agghindati al meglio. I vestiti avevano uno scopo e un senso. Se non li avevi ed eri coperto di stracci o quasi, la tua appartenenza era dubbia. Chissà se eri nato povero o se era stata la rivoluzione a impoverirti. Chissà a chi ti saresti venduto. Gente vestita di stracci, a parte i mendicanti, alla barriera non ce n’era.

Il corso dei pensieri fu interrotto dai sensi. Odore di muschio.

Man mano che l’odore si intensificava, montò il fitto chiacchiericcio di una congrega. I muschiatini di Palazzo Egualità in tutta la loro pacchiana, arrogante magnificenza.

Stavano al gran completo e nel miglior arnese possibile, le giacchette striminzite ridondanti di bottoni e brillìi, l’andatura chissà perché curva in avanti, sulle punte delle scarpe, in testa tricorni assurdi che imitavano quelli di antica foggia, bastone da passeggio o randello alla mano. Si muovevano compatti, lanciando sfottò e occhiate svagate.

La formazione dei muschiatini si aprí, disponendosi in un bleso, vociante anfiteatro fetente di muschio. Léo udì la piccola folla che andava aggruppandosi attorno al campo della futura disfida mormorare i nomi dei muschiatini più noti, o famigerati. Léo vide il suo avversario, già a torso nudo. Jean-Dominic. Torso nudo e monocolo: Léo non aveva mai visto una tale combinazione.

Il muschiatino avanzò di un passo, mentre il ventaglio dei suoi zittiva quasi di colpo.

Léo lo accolse con garbo.

– Puzzi come una troia.

Il muschiatino sorrise, mentre i suoi scoppiavano a ridere preventivamente. Quando la risata si placò, Jean-Do articolò meglio che poteva la risposta.

– Ma è inc’edibile, mio ca’o, la coincidenza. Giungo o’ o’a da casa tua. Tua mamma e tua so’ella dicono di non fa’ti del male.

Léo avvampò, non perché si chiamasse in causa la mamma (la povera ragazza Modonesi morta mettendolo al mondo), ma perché si era reso conto che la sua battuta aveva fatto acqua chiara, offrendo il gancio all’avversario per farne una migliore. Léo si maledisse. Si ripromise di farlo uscire dal campo in lettiga, lo stronzo.

Si tolse la giacca e la affidò a Rota. Si guardò intorno. La folla sente subito se c’è aria di pacche serie. E il carisma di un buon attore zittisce le platee più riottose. Non volava una mosca. Léo inspirò profondamente. Era di nuovo sul palco.

La gente aveva già cominciato a scommettere, utilizzando un codice di gesti che Léo conosceva appena. Qualcheduno prese a inveire contro i muschiatini, augurandosi giusta pena per le loro malefatte.

Léo notò che tra i muschiatini c’era un tipo più anziano. Sedeva su uno sgabello, ed era vestito come un garzone di bottega invecchiato, con assoluta noncuranza. Mangiava a morsi una cipolla e beveva della birra. Doveva essere Bernard la Rana. Léo si senti onorato. Prese l’acquavite e ne bevve a piccoli sorsi, guardando di sottecchi l’avversario. Il muschiatino, dopo un’esitazione, chiamò il suo secondo e bevve a sua volta.

Léo sorrise. Jean-Do si tolse la lente dall’occhio e l’affidò al suo secondo, poi si piegò sulle gambe e si risollevò ponendo le braccia in posizione di guardia: testa indietro, peso sulla gamba posteriore. Era una di quelle guardie, busto arretrato e pugni chiusi portati in avanti, che Mingozzi chiamava «all’inglese», anche se non era mai stato in Inghilterra, no sicuro, e dalle parti della laida Bologna Inglesi se ne vedevano ben pochi.

Fu dato il via al combattimento.

Léo si avvicinò piano, in guardia di tre quarti e braccia basse. Studiò i lineamenti dell’avversario, incorniciati da capelli lunghi, radi, biondastri, inanellati. Tratti regolari, fin troppo, labbra carnose piegate in un’espressione di malessere e minaccia infantile. Gli occhi acquosi, blu, sporgenti, quasi da idropico.

Malauguratamente, uno divergeva.

Jean-Do era strabico. Léo non se n’era mai accorto prima, per via del monocolo. Bestemmiò in silenzio, offendendo solo il foro, riunito, della propria coscienza.

E se on l à i ûc’ stôrt, brisa guardèrel!

Se l’occhio destro guarda in fuori, ti può assestare un diretto destro.

Se guarda in dentro, occhio alla sventola e al manrovescio.

Se si mandano a fare in culo l'uno con l’altro, occhio al centro.

Se guardano la punta del naso, occhio ai lati.

Èt capè, marunèr?

Léo fintò un calcio basso. Jean-Do sollevò la gamba, sottraendola all’indietro. L’olezzante individuo sorrise. Sudava già, mandando odore di muschio fradicio. Con la stessa gamba lanciò un calcio di mezza staffa, uno chassé, come lo chiamavano. Era abile, movimenti precisi. Poi avanzò a due mani, menando sventole e manrovesci che Léo riuscì in gran parte a schivare. In gran parte. Mica tutti. Una sberla lo colpì allo zigomo sinistro. Dolore. Ci voleva altra acquavite. I due si fermarono e si studiarono. Attorno, la gente scommetteva.

Dalla folla si alzò un ululato di incitamento. Volevano il sangue. I combattimenti in punta di fioretto erano poco graditi da quando facevano andare Madama Ghigliottina come una spola da telaio. Anche Rota, contagiato dall’umore della plebe, incitò Léo:

– Accoppalo!

La battaglia riprese. Il muschiatino provò una tecnica più lunga, stendendo il braccio di scatto e cercando di ferire Léo agli occhi con la punta delle dita. Léo arretrò di un pollice e il colpo tornò indietro innocuo... ma non il successivo: la punta della scarpa destra, che Léo non aveva visto partire, raggiunse il torace, scuotendo le costole vicino allo sterno.

Il muschiatino ci aggiunse una manata larga, che colse Léo mentre stava arretrando, i polmoni svuotati dal calcio. Vacillò ma si resse in piedi, fuori dal raggio dei colpi. Non andava affatto bene, pensò.

Di nuovo uno di fronte all’altro. La gente, intorno, si azzittí o quasi. Si udiva solo un brusio. Scambiavano pareri all’orecchio, e poi scommettevano. Partirono insulti verso l’uno e l’altro dei contendenti – «Italiano di merda!», «Fammi una pompa, inve’tito!» – e allora la folla riprese a sgolarsi, come svegliatasi a un preciso segnale.

Jean-Do era in vantaggio ma aveva poca pazienza. Sentiva la pressione. Le ingiurie lo infastidivano. Si lanciò all’assalto con un balzo, raggiungendo Léo al volto con un ceffone. Guardia inglese, ma niente pugni. I pugni erano rischiosi. Coi pugni si rompono le mani sulle ossa, in genere una zucca è più dura delle nocche.

Ciapla te, coi pògn, la zoca d’un mudnais.

Vaffanculo, pensò Léo. Con entrambe le braccia cinse Jean-Do sotto le ascelle, lo sollevò e lo gettò a terra. La folla urlava. Léo montò sopra il muschiatino, ginocchia sulla pancia, e prese a tempestarlo di colpi. Alcuni lo stronzo li deviava, li parava, li ammortizzava con le mani, ma molti lo raggiungevano. Léo senti le ossa della faccia sotto i pugni.

Cìapla te, la zoca d’un mudnais.

La folla incitava l’attore italiano.

Léo sorrise e alzò lo sguardo, per bearsi di quell’approvazione. Jean-Do ne approfittò: dalla foresta di braccia emerse un colpo perfettamente verticale, che colse Léo in pieno mento e per poco non gli mozzò la lingua. L’attore sputò sangue. Il grido della folla sembrò rimbalzare sulla volta del cielo e ricadere con rumore di grandine. Il muschiatino dette un colpo di reni, disarcionò l’avversario e la situazione si capovolse. Toccò a Léo difendersi dai colpi che gli calavano sulla faccia.

Bravo, Leonida, bravo.

T’î prôpi un paìâz.

Lingua dolorante, fiato sempre più corto, braccia pesanti, volto raggiunto sempre più spesso dalle nocche e dal taglio della mano del muschiatino. Una mano dura come il marmo, come il travertino.

Ciapla te, coi pògn, la zoca d’un mudnais.

Léo chiamò a raccolta ogni energia e sollevò la testa all’improvviso. Dove un istante prima c’era la faccia, adesso c’era il cranio duro dell’italiano. Troppo tardi perché il muschiatino potesse fermare il poderoso destro che aveva appena caricato a tutta forza. Il pugno colpì poco sopra la fronte. A denti stretti, Léo sostenne l’urto e il dolore, mentre si udiva un rumore al tempo stesso flebile e secco, come di un guscio d’uovo che va in frantumi. Jean-Do gemette forte.

La mano di travertino si era rotta sulla testa di Leonida, l’attore, il guitto.

Di nuovo la situazione si capovolse: Léo sopra, Giando sotto. L’azione, tuttavia, era più lenta. Il muschiatino aveva una mano fuori uso, ed entrambi i lottatori erano stremati.

Di sottecchi, Léo vide che Bernard la Rana scuoteva il capo e rideva. Perché? I muschiatini si agitavano, inveivano, sollevavano i bastoni da passeggio.

Léo chiamò a raccolta gli ultimi residui di vigore e calò sul volto dell’olezzante un paio di ganci terribili, sinistro–destro, che fece sussultare gli astanti come un sol uomo.

Jean-Do aveva perso conoscenza. Il combattimento era finito.

Nel silenzio, si udì solo la risata di Bernard la Rana.

Poi il grido di Rota:

– Sííí!

Soltanto allora Léo si ricordò che c’era anche lui.

Si levò in piedi, mezzo stordito, svuotato. I muschiatini ruggivano, la folla li spintonava, partirono alcune bastonate. Bernard la Rana urlò qualcosa, due uomini raccolsero Jean-Do e lo portarono chissà dove.

Bernard la Rana fini di contare i soldi, poi si alzò e prese lo sgabello per una gamba. Aveva scommesso su di me, pensò Léo. Incredibile.

Si accorse che molti, fra gli astanti, lo avevano riconosciuto. Gente di Sant’Antonio. Ricevette sguardi d’approvazione e di intesa. Ma ora, mentre il fiatone scemava, si accorse del dolore alle costole. Forte. Piegò le gambe, i palmi sulle ginocchia, e lasciò cadere la testa tra le spalle prendendo fiato.

Senti una mano posarsi sulla spalla.

– Tutto bene, italiano? – chiese una voce dall’accento marsigliese.

– Sta peggio quell’altro, – rispose Léo, senza nemmeno rialzare il capo.

La Rana gracidò da baritono. Era di ottimo umore.

– Sei un signor pugilatore, come ti chiami?

– Léo Modonnet.

– Io e te dobbiamo parlare.

– Perché no? – disse Léo mentre si rialzava in piedi.

– Benone. Vieni con me, andiamo a bere qualcosa che non sappia di merda.

Léo guardò Rota, come per estendere l’invito, ma il libraio scosse la testa.

– Io torno a prendere il mio carretto. Qui mi son divertito, ma la panza brontola ancora. Devo provare a vendere i miei buchén, se ci riesco! – E rise di gusto. In bocca aveva solo tre o quattro denti. – Buona fortuna, bolognese.

– Grazie, bergamasco, spero di rivederti.

– Spera di no! Se mi rivedi, vuol dire che sei tornato a Pontenuovo.

Léo guardò il vecchio allontanarsi, dondolante sulla sua gamba storpia.

– Dunque? – fece Bernard.

– Andiamo, – disse Léo, e insieme, muovendosi lenti, attraversarono lo spazio nuovamente invaso dai rumori della barriera dei combattimenti. Richiami intristiti di venditori, risate, invettive, grida di scommettitori, uno strillone che commentava le notizie sul giornale, frammenti di canzoni politiche, canzonacce... e canzoni che erano entrambe le cose.

Nel silenzio bucato dai rumori, Léo vide che il cielo era screziato di nubi a fiocchi, a stracci biancastri, a ricami, a viluppi.

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