4.

La fine dell’inverno non volle dire la fine della fame.

Il pane dell’egualità, già te lo si è contato: se quello era pane, allora le bovarde sono budini al cacao, ma almeno era un masticone che ci potevi riempire la strozza, non ti stecchiva, e il mattino dopo, con la tua brava cartolina, andavi dal fornaio e avevi diritto a un’altra razione. C’erano delle femmine che per averne di più, di quell’impiastro, si mettevano una padella disotto al vestito e dicevano d’essere incinte, e altre ancora che facevano le finte gravide per evitare le botte, ché ormai le code per accattare il mangiume erano i posti più violenti dell’intera città.

Poi a un certo momento è sparita la carne. Non ce n’era più in tutta Parigi, manco a Palazzo Egualità. E gli operai, i carrettieri, i facchini – tutta la gente che fa uno sgobbo di fatica lontano dalla magione – han cominciato a dire che loro, senza un pranzo di carne, non avevano manco la forza di lavorare.

E intanto, sulla via di Vincennes, capitava spesso che la gente del foborgo fermava il carro di un villano e lo costringeva a vendere le uova hicetnunc, al prezzo massimo stabilito. E il villano ti ripeteva sempre la stessa manfrina, e cioè che lui, la settimana prima, aveva venduto cento uova e ci aveva comprato trenta candele. Solo che adesso, con quella stessa cifra, di candele se ne compravano venti, e allora o si faceva il maximum generale totale – per i vestiti e per le scarpe, per il carbone e per la birra – oppure lui a Parigi non ci metteva più piede.

E noi a dirgli si, quanto ci hai ragione, ma intanto che sei venuto, vendici le uova al prezzo che ti si dice e vedi pure di darti una smossa.

Tu ti chiederai perché stiamo a menarla adesso, ché la fame ormai la si è patita e se non ci s’è ribellati al tempo giusto, non è il rimpianto di oggi che darà da mangiare ai noialtri di allora.

Ma c’è dei momenti che la panza ti fa devoto di Santa Insurrezione, e dei momenti che no, perché lo capisci da solo che per quanto strilli, c’è poco da cavarne: hai avuto il maximum, hai avuto la legge contro i monopolatori, hai il rasoio nazionale che spaventa i gianfotti come i fantocci per i passeri che beccano il grano, hai il giardino del Lussemburgo trasformato in orticello, che altro t’inventi per mettere insieme la cena? La fila dal macellaio, non quella davanti alle Tegolerie per mandare via certuni e farne venire certaltri che dicono d’essere più bravi.

Ecco perché nessuno è andato dietro a Hébert, quando s’è messo a dire e a scrivere che ci voleva una rivolta contro la Convenzione e che si aveva bisogno di un dittatore che riportasse l’abbondanza.

A dirla tutta, «Il Papà Duchesne» ci aveva pure un po’ rotto il cazzo, e certe spesse volte, leggendo il giornale di quel suo gran nemico, «Il Vecchio Cordigliere» di Camillo Desmoulins, ci si scopriva a far di si con la testa, specie quando scriveva che per un sanculotto la vera rivoluzione non è rimanere sanculotto, cioè senza brache, o portare gli zoccoli per risparmiare il cuoio e farci gli stivali da dare all’armata. La vera rivoluzione dovrebbe dire al popolo: vi ho trovato sanculotti e vi ho culottati. Invece Hébert, sul «Papà Duchesne», aveva passato almeno due mesi a contarci di quanto gli piaceva il sanculotto Gesù, il primo giacobino della storia, uno che ai poveri ci voleva bene.

Cosi quando Hébert s’è svegliato e ha chiamato la rivolta, s’è ritrovato da solo con i suoi pochi amici. Li hanno arrestati, li hanno accusati, li hanno mandati a chiedere l’ora al vasistas, e nessuno ha mosso un muscolo, se non la lingua, per domandare notizie di come andava il processo e poi raccontarlo in giro.

S’è detto che la carestia era colpa del barone di Grèche, che pagava i villani per tenere la ciccia lontano da Parigi, e che il barone era d’accordo con «Il Papà Duchesne»: io ti affamo il popolo e tu lo inciti ad abbattere la Convenzione e a mandare in vacca la Repubblica.

Hanno fatto pure una grossa inchiesta, per demascare il complotto, ma l’unica cosa che hanno scoperto è che di complotti non ce n’era uno soltanto, ce n’erano migliaia, migliaia di piccoli micmac di piccoli contadini e bottegai e sanculotti che non rispettavano la legge sul massimo, più qualche profittatore che faceva i soldi con il mercato nero.

Allora s’è detto che il barone aveva messo in piedi pure un altro complotto, quello della liquidazione della compagnia delle Indie, un brutto casino che non te lo stiamo a spiegare, ma insomma ’sto qua aveva corrotto alcuni deputati, apposta per infangare tutta la Convenzione, di modo che Hébert potesse incitare il popolo ad abbatterla e a mandare in vacca la Repubblica. Ma anche qui, non è che siano venute fuori delle prove schiaccevoli. E allora vaffanculo, niente barone, si son tolti la spina dal piede. Hanno accusato Hébert di aver incitato il popolo a rovesciare la Convenzione, e buonanotte all’orchestrina.

Fatto fuori lui, pareva che la battaglia l’avevano vinta san Giorgiacco Danton, il patrono dei bottegai, e l’amico suo fedele Camillo Desmoulins.

Invece fa tempo appena a passare una decade', ed ecco che Danton è sotto processo, Saint-Just lo accusa e Robespierre si domanda se la Francia sarà bastante coraggiosa da abbattere un vecchio idolo, ché oramai dentro è tutto marcio e verminoso.

Anche lui lo tirano in mezzo a una faccenda di quattrini, dicono che ha preso i quibus della compagnia delle Indie e pure quelli di Luigino e degli Orléans. Ma a buon gatto, buon ratto: con la sua parlantina da legale, Danton restituisce colpo su colpo, pare un lottatore alla barriera dei combattimenti.

E va bene che i vermi e il marcio cominciavano a puzzare anche da fuori, va bene che Danton voleva far la pace con l’aristocrazia, ma per i noialtri di allora era pur sempre l’eroe del 10 agosto. Lascia stare che adesso dicono che lui manco c’era, per strada, il 10 agosto: non è una questione di giorni. La questione è che Danton significava la Repubblica, e a vederlo col collare Corday faceva davvero una brutta impressione.

Eppure, anche lí, nessuno s’è mosso. Il giorno dopo siamo tornati in fila dal macellaio, a dirci che oramai quel rotolare di teste ci aveva dato l’abitudine, e per farci venire la bocca tonda e il brivido giù per la schiena ci voleva qualcosa di più grosso, qualcosa di enormissimo, tipo che pisciassero sulla tomba di Marat, o tagliassero la zucca a Robespierre.

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