La fama di Bernard la Rana era conclamata e Léo non impiegò molto a constatarlo. Nonostante apparisse un tipo schivo, Bernard conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Le sue giornate trascorrevano dietro l’organizzazione di incontri, la raccolta delle scommesse, e l’immancabile partecipazione a qualunque manifestazione civica. Bernard non si perdeva nemmeno la più piccola commemorazione, funerale patriottico o posa di corona d’alloro. Il motivo era presto detto: sapendo di essere suscettibile all’arresto per via delle scommesse clandestine, in questo modo non solo dava prova di impeccabile civismo, ma rendeva facile per chiunque rintracciarlo. Bastava scoprire quale fosse l’evento del giorno e cercare il patriota che cantava con più fervore, ostentando la coccarda più grande sul bavero della giacca.
Viveva modestamente, al pianoterra di un vecchio caseggiato, in un appartamento di tre stanze, insieme alla figlia, Adèle, una ragazza di poco più di vent’anni, sordomuta. La giovane teneva dietro alla casa, e rare volte si occupava anche di rattoppare graffi e contusioni dopo i combattimenti di Léo. Faccenda che di norma competeva a Bernard, che applicava sui lividi una pomata dall’odore nauseabondo ma in grado di fare miracoli. «Altro che le manine del re», diceva ogni volta che infilava le dita tozze nel barattolo.
Léo era ospitato nel sottoscala, in quello che un tempo doveva essere un deposito, e che dopo Pontenuovo gli sembrava una reggia. Il mobilio era scarso, ma l’ambiente confortevole. Adèle era una brava cuoca, e per quanto possibile Bernard si premurava che Léo venisse nutrito con cibo buono.
Gli incontri che procurava si svolgevano di sera, ora che le giornate estive erano lunghe e faceva caldo anche dopo il tramonto. I luoghi prescelti erano i più disparati, svuotati dalla carestia e dalla guerra: sale da ballo, scantinati, magazzini, granai. A ogni incontro i muschiatini accorrevano entusiasti. Jean-Do non c’era più, girava voce che i pugni lo avessero scimunito. Gli olezzanti scommettevano poco, ma si sgolavano molto, soprattutto contro Léo. L’italiano era l’oggetto di quasi tutti i loro lazzi e degli insulti che piovevano nell’arena. A rodere il fegato non era tanto che avesse spacciato Jean-Do, ma il fatto che Bernard la Rana avesse preso proprio l’italiano sotto la sua ala. Bernard portava Léo agli incontri anche quando non toccava a lui combattere. Serviva a studiare le tattiche, diceva, a conoscere gli avversari, a scoprire nuovi colpi. Léo guardava quegli uomini darsele di santa ragione, vedeva la gente attorno, e pensava che anche quello era un modo di calcare la scena, di tenere il palcoscenico. Solo che le pacche erano vere.
Una sera fu tentato di scommettere anche lui. Un tizio nerboruto della rivagoscia affrontava il campione dei muschiatini, che se ne stavano tutti radunati dietro il suo angolo. Soncourt, si chiamava. Il tizio dei bassifondi era più grosso di lui, e pareva pure più agguerrito, ma dai primi scambi Léo si accorse che se avesse scommesso avrebbe buttato via i soldi. Soncourt infatti aveva più tecnica ed era più efficace nel portare i colpi, calci inclusi. Quello era un lottatore e un pugile tra i migliori che Léo avesse visto.
– Gecco cazzuto, – disse all’orecchio di Bernard.
L’altro annuì.
– Apposta siamo venuti a occhiarlo. È il tuo prossimo avversario.
Un istante dopo furono assordati dal boato di trionfo dei muschiatini, davanti al crollo dell’energumeno della rivagoscia. Soncourt alzò il braccio in segno di vittoria e se ne tornò all’angolo ad asciugarsi il sudore, come avesse sbrigato una faccenda ordinaria.
– Perché hai preso l’incontro? – chiese Léo preoccupato.
Bernard gli fece segno di accompagnarlo fuori e i due si ritrovarono per strada.
– I senzaerre hanno lanciato la sfida. Ho una reputazione.
– E il prezzo della tua reputazione sono io, – si lamentò Léo.
Bernard gli gettò un’occhiata indecifrabile e continuò a camminare fino a casa, senza più aggiungere nulla. La serata era magnifica, il cielo sopra Parigi era limpidissimo, talmente carico di stelle che parevano dover cadere sulla città. E forse era così, pensò Léo. Forse il cielo sarebbe caduto giù. La Rana non era tipo da farsi scrupoli, alla barriera dei combattimenti Léo l’aveva visto puntare su di lui e incassare i soldi dei muschiatini senza battere ciglio.
– Pensi di scommettere contro di me? – chiese quando furono sulla soglia.
– Dimmelo tu. Sei tu che combatti, – rispose l’altro.
Léo rimase zitto e scese nel sottano con la mente affollata di pessimi presentimenti.
Il giorno dopo rimase a letto fino al pomeriggio, a rimuginare sull’incontro a cui aveva assistito e su quello che avrebbe dovuto sostenere la settimana successiva. Lo attendeva una grande prova d’attore, contro un rivale più forte. Poteva anche essere la fine della sua terza carriera sulle scene.
A mezzogiorno senti bussare alla porta. Era Adèle che gli portava il pranzo. Léo le chiese a gesti dove fosse suo padre, lei rispose che era uscito. Sarebbe tornato soltanto a sera, o almeno a Léo parve che la ragazza mimasse il calare del sole. Era piuttosto brutta e segaligna, ma quando prese a togliersi i vestiti fino a rimanere nuda, Léo non potè che constatare che era pur sempre una donna. E non stette a chiedersi i perché né i percome. Tantomeno avrebbe potuto chiederli a lei.
I clamori del pomeriggio lo raggiunsero stravaccato sulla branda, con il corpo della ragazza disteso sopra. Dalle finestre all’altezza del lastrico giungevano grida che rimbalzavano da una via all’altra. Léo si destò e si accostò alla finestrella. Qualcuno, pochi metri più in là stava gridando:
– Hanno arrestato Robespierre! Hanno arrestato Robespierre!
Léo si volse, esterrefatto, per informare Adèle, ma quando se la trovò di fronte, già rivestita, con l’aria da cane bastonato di ogni giorno, si rese conto di non sapere come mimarglielo. Robespierre... Saint-Just... Come lo spieghi a una sordomuta? Ci rinunciò e le diede invece una carezza, come fosse una bestiola, sentendosi invadere dalla pena e dall’imbarazzo.
Si rivesti e corse in strada, dietro le voci di Parigi che lo portarono fino al municipio. Parecchia gente si era radunata là attorno e discuteva fitto, condivideva notizie ed emozioni. Léo orecchiò una magliara dire che Robespierre, Saint-Just, Couthon e Le Bas si erano barricati là dentro insieme ai partigiani del comune. Contemplando l’edificio si chiese cosa avrebbe potuto fare. Gironzolò sul piazzale, raccogliendo notizie ai capannelli, e finendo per bivaccare davanti a uno dei fuochi che si accesero quando scese la notte.
Quando, all’alba del giorno seguente, si sollevò da terra con le membra intorpidite, si rese subito conto che durante la notte non pochi baldanzosi della sera prima avevano pensato bene di tornarsene a casa. I parigini non avrebbero difeso l’Incorruttibile. Qualcuno aveva scritto per terra, col gesso: «Morte al tiranno!» Qualcun altro aveva vergato un’intera frase di Saint-Just: «Chi fa una rivoluzione a metà non fa altro che scavarsi una tomba».
Ecco, si, pensò Léo. Nell’alba fresca sulla quale incombevano i destini della Repubblica, quel palazzo, che era stato il simbolo dell’orgoglio del popolo parigino, adesso aveva tutta l’aria di una tetra tomba. Quando più tardi, nella mattinata, la guardia nazionale irruppe sul piazzale, Léo scappò dalla carica e prese comunque un paio di bastonate, che riuscì ad attutire malamente, sulla spalla. Le guardie circondarono il palazzo e in seguito trascinarono fuori i giacobini, ma a quel punto Léo era già lontano, sulla via di casa, dove giunse stanco e malandato, dopo avere attraversato una città in preda a una sorta di festoso smarrimento. Qualche poveraccio inneggiava all’abolizione del maximum sui salari. Poco più in là, un bottegaio si spingeva a caldeggiare quella del maximum sui prezzi. Léo si domandò se il rinculo della rivoluzione gli avrebbe portato pili guai o più opportunità. Probabilmente gli uni e le altre.
Bernard lo stava aspettando seduto sull’uscio, sbucciando patate. Lo salutò con un cenno, senza smettere di armeggiare con il coltello.
Léo percepì la sua disapprovazione e nondimeno gli sedette accanto, sulle scale, massaggiandosi la spalla dolorante, in attesa di una lavata di testa, che invece non arrivò. Era come se Bernard sapesse tutto, dove era stato, a fare che... Magari persino di lui e della figlia Adèle.
Léo decise di chiedergli l’unica cosa che in quel momento avesse davvero rilevanza nelle loro vite.
– Come lo batto Soncourt?
– Non puoi, – disse la Rana. – Non se combatti di fino.
Léo rifletté sul significato implicito di quelle parole.
– Vuoi che giochi sporco. Pensavo che fossi preoccupato della tua reputazione.
Bernard alzò il serramanico e, per un istante, Léo temette che volesse ficcarglielo in pancia. Invece lo richiuse e lo infilò in tasca.
– Da oggi vale tutto, – disse Bernard con un gesto vago che indicava la città intorno a loro. Si alzò per rientrare in casa, ma prima di varcare l’uscio aggiunse: – E vedi di buttarlo giù subito, perché se aspetti un minuto di troppo ti butta giù lui.