5.

D’Amblanc non avrebbe saputo dire quando aveva perso il senso del tempo. A Buzancy i giorni diventavano settimane e le settimane mesi, a un ritmo regolato soltanto dallo studio e dalla pratica sui pazienti.

D’Amblanc era rapito. Di giorno magnetizzava insieme a Chastenet, riempiva quaderni di appunti, sonnambulizzava Jean. Niente poliziotti, niente politicanti né boia. Poteva prendersi cura di una giovane vittima, invece di torturarne una.

D’Amblanc impiegò alcune settimane prima di ammetterlo a sé stesso, ma alla fine dovette cedere: si sentiva libero. I dolori alle vecchie ferite erano scomparsi del tutto e lo sguardo sereno di Chastenet si rispecchiava nel suo, conteneva la soddisfazione di una profonda comunione d’intenti.

Soltanto al risveglio, nella manciata di minuti che precedeva l’inizio della giornata, D’Amblanc percepiva una vaga ansietà, come una leggera stretta allo stomaco che non avrebbe saputo a cosa attribuire. La sensazione svaniva non appena iniziava l’attività quotidiana coi pazienti e diventava un remoto ricordo alla sera, per poi ripresentarsi puntuale all’alba. Domandò a Chastenet di sonnambulizzarlo, e ne trasse giovamento. Tuttavia, l’ansia non scomparve del tutto.

Nel frattempo l’estate irrompeva nella tenuta: fiori e frutta e bagni nella grande vasca antistante la magione, e ancora lunghe sedute di magnetizzazione collettiva intorno al grande albero nel parco.

«Curare la gente è meglio che decapitarla». Era la massima che Chastenet ripeteva spesso e che avrebbe persino fatto incidere sulla facciata del suo palazzo, se non fosse suonata compromettente agli occhi dell’autorità repubblicana. D’Amblanc osservava il giovane Jean e si lasciava lusingare dall’idea di averlo tratto in salvo e portato li, in quel luogo di pace, dove niente avrebbe potuto nuocergli. Eppure sospettava che il malessere che tormentava i suoi risvegli avesse a che fare proprio con lui, con il suo destino e ciò che rappresentava.

Una notte di fine luglio, poco prima dell’alba, D’Amblanc fu visitato da un sogno che in seguito non avrebbe saputo ricordare con precisione, fatta eccezione per le parole, la voce inconfondibile...

Also, mein Freund, alla fine del tour avete trovato ihren Platz... il vostro posto. An der rechten des guten Königs... alla destra del buon re. Ein wundertätiger König... Un re taumaturgo che cura i suoi fedeli untertani. Cercavate una via e avete trovato einen Führer... una guida, si. Keine Wunden, kein Krieg, kein kranko. È questa la vostra Revolution? Non avevate bisogno di lasciarmi per trovare dasesto. Non c’era bisogno di tagliare la kopfa del re di Francia.

Il gallò cantò. Un trillo acuto e subito strozzato, lugubre. D’Amblanc si svegliò di soprassalto, la stretta allo stomaco più forte del solito, l’eco della voce di Mesmer ancora nella testa. Andò a sciacquare il viso nel catino, quindi si vesti in fretta e scese dabbasso, in cerca del padrone di casa, ignorando i domestici che confabulavano tra loro. Doveva essere accaduto qualcosa. La porta dello studio di Chastenet era aperta ed egli era in piedi, avvolto nella sua lunga veste orientale, accanto alla finestra, intento a leggere una lettera.

– Robespierre e Saint-Just sono stati giustiziati, – disse in tono grave.

D’Amblanc impiegò alcuni istanti a immaginare la scena e accettarne la sostanza. Due uomini, uno dei quali molto giovane, in piedi accanto alla ghigliottina. Quindi i loro colli nel buco. La lama che cala. Le teste che rotolano nel cesto.

– Robespierre... – riuscì a bofonchiare incredulo.

È questa la vostra Revolution?, ripetè Mesmer nella sua testa.

Dovette sedersi. La notizia aveva appena infranto il muro delle sue intenzioni, che rimanevano li, ma come se fossero crollate a terra e dovessero essere raccolte.

– Com’è possibile? – mormorò.

Chastenet guardò oltre il vetro.

– C’era da aspettarselo. Hanno tirato troppo la corda. Credo che in fondo fosse la fine che cercavano. L’unica che li mantenesse all’altezza dei loro ideali.

D’Amblanc dovette fare uno sforzo ulteriore per seguire quel ragionamento.

– Cosa intendete dire?

– Ora sono martiri della rivoluzione, – prosegui Chastenet. – Come Marat, Danton, Hébert...

D’Amblanc scacciò quelle parole scrollando la testa.

– Devo tornare indietro, – riuscì a dire.

Chastenet si volse verso di lui.

– Perché? Non c’è più nulla per voi a Parigi.

In quel momento D’Amblanc comprese di avere usato Jean per fuggire, per ritirarsi. Era giunto lì con la prova vivente che le teorie di Chastenet si reggevano su un falso assioma e non ne aveva ancora tratto le conseguenze. Tantomeno Chastenet sembrava interessato a farlo. Dopo l’apparizione violenta di Jean del Bosco si erano concentrati esclusivamente sul recupero dell’equilibrio del ragazzino, nel tentativo di stabilizzarne la personalità.

Un re taumaturgo che cura i suoi fedeli sudditi.

– A voi non importa di Jean e di ciò che rappresenta, –disse D’Amblanc.

Chastenet alzò la mano in un gesto vago.

– Voglio curarlo, proprio come voi.

D’Amblanc parve non averlo nemmeno sentito.

– Fin dall’inizio non siete stato incuriosito dal suo caso. Voi lo sapevate già. Voi sapevate che è possibile volgere il magnetismo al male. Non è così?

Chastenet si appoggiò alla cornice della finestra e fu avvolto dalla luce del mattino. Con la veste orientale, rosso vino, e i tratti del viso sfumati, poteva sembrare Mesmer in persona.

Per trovare questo non c'era bisogno di tagliare la testa del re di Francia.

E quella di Robespierre? Quanti anni aveva Saint-Just? Ventisette? I grandi uomini non muoiono nel loro letto. Era stato lui a scriverlo.

La voce di Chastenet fece evaporare i fantasmi.

– Il cavaliere d’Yvers mi scriveva. Avevamo una discreta corrispondenza, prima della rivoluzione. Mi raccontava i suoi esperimenti. O almeno alcuni di essi.

Si lasciò cadere sulla poltrona e vi sprofondò dentro, come se volesse farsi ingoiare.

– Mostratemi le lettere, – disse D’Amblanc.

– Le ho bruciate tanto tempo fa, – rispose l’altro. – Non gli credetti. E certo non mi interessava mettere alla prova quanto affermava. Uno scienziato, un terapeuta, deve avere un’etica al servizio dell’Uomo. Aiutare gli altri. Curare il corpo della nazione. Ritrovare l’armonia universale.

D’Amblanc senti una fitta al costato, ma riusci a stringere i denti e a non darlo a vedere.

– Yvers usava i contadini come Galvani le rane, – disse.

– E se questo è possibile, noi non possiamo tenerlo nascosto. Non possiamo seguitare a dire che in quanto facciamo non è insito un rischio; è proprio l’etica a imporcelo.

– Noi facciamo il bene e tanto basta, – disse ostinato Chastenet. La voce si era irrigidita, ma gli occhi erano sfuggenti.

– Noi? – insistette D’Amblanc. – Cosa siamo voi e io? Un tempo mi diceste che i magnetisti non esistono, esiste solo il magnetismo, e che chiunque può essere terapeuta. Non è ciò che vedo all’opera qui. I vostri pazienti sono guariti? Qualcuno di essi è mai tornato a vivere meglio? O non ha avuto sempre più bisogno delle vostre magnetizzazioni, quindi di voi?

Chastenet parve accusare quelle parole.

– È così brutto ciò che vedete? – domandò.

Sembrava non avere alcuna intenzione di difendersi, quanto piuttosto di evitare lo scontro.

– Nient’affatto, – rispose D’Amblanc. – Nondimeno, devo diffidarne.

Aveva perso la foga iniziale e sedeva ricurvo in avanti, le braccia conserte, come avesse paura di rompersi in tanti pezzi.

– Se tornate indietro adesso, presto o tardi finirete al patibolo anche voi, – disse Chastenet sconsolato. – Restate. Non siamo rimasti che noi due.

D’Amblanc si alzò, ancora le braccia incrociate sullo stomaco.

– No. Ce n’è almeno un altro –. D’Amblanc gli rivolse un mezzo inchino. – Abbiate cura di Jean.

Chastenet annuí senza più aggiungere nulla.

L’indomani, Chastenet mise a disposizione il proprio calesse, affinché D’Amblanc potesse raggiungere il villaggio per la prima corriera del mattino. Si presentò al commiato con l’aria più serena che gli riuscisse, reggendo tra le braccia una cassetta avvolta in un telo.

– Permettetemi di aggiungere al vostro bagaglio un regalo d’addio.

Chastenet aprí il fagotto e gliene mostrò il contenuto.

– Il folgoratore? – domandò sorpreso D’Amblanc.

– Non voglio usarlo di nuovo, – disse Chastenet e indicò una cartella che faceva da coperchio alla scatola di legno.

– Questi sono i miei appunti sugli esperimenti che ho condotto con l’elettricità. Potete proseguirli, se vi sembrano interessanti, e magari scrivermi che cosa scoprite. Io preferisco dedicarmi al bene dei miei pazienti.

– Grazie, – disse D’Amblanc caricando la cassetta insieme ai suoi bagagli. – Vorrei prendere commiato da Jean, adesso.

Lo andò a cercare nel parco e lo trovò che stava aiutando il giardiniere a togliere le erbacce dal prato. L’attività all’aria aperta era considerata salutare per tutti i pazienti di Chastenet.

– Addio, Jean. Sono venuto a salutarti. Devo tornare a Parigi. Qui starai bene. Scriverò per avere tue notizie.

Gli rivolse un sorriso che avrebbe voluto essere rasserenante e che il ragazzino non ricambiò. D’Amblanc si volse e fuggi l’imbarazzo incamminandosi verso il viale. Pochi passi e si senti tirare per la manica.

– Portatemi con voi, – disse Jean.

Lo aveva raggiunto e si era aggrappato alla sua giacca con la stessa foga di un naufrago che agguanta una gomena.

L’imbarazzo di D’Amblanc crebbe fino a farlo arrossire.

– Non posso. Parigi non è più un posto sicuro, capisci?

Gli occhi del ragazzino erano lucidi, ma non scendeva una lacrima. La sua espressione sembrava covare più rabbia che amarezza.

– Non lasciatemi qui, – implorò.

D’Amblanc gli accarezzò una guancia.

– Qui ti cureranno. Starai bene.

La risposta di Jean suonò come una sentenza.

– Sarò solo.

– Non è vero, c’è chi si prenderà cura di te.

– Sarò solo, – ripetè Jean.

D’Amblanc liberò la manica con quanto più garbo potè e si forzò a proseguire. Riusci a fare qualche altro passo, prima di fermarsi.

E io?, pensò. Non sarò solo?

Tornò a volgersi verso Jean.

Il ragazzino era immobile in mezzo al prato, la testa appena inclinata verso il basso, le braccia lungo il corpo.

Il vetturino fece schioccare la frusta e il morello parti di buon trotto, lanciato verso la campagna verde e dorata della Piccardia. D’Amblanc lanciò l’ultima occhiata alla grande magione dei Chastenet e a tutto ciò che racchiudeva. Stava lasciando la vita che aveva sognato ed era certo che fosse la cosa giusta da fare. Non sapeva cosa avrebbe trovato a Parigi, ma, come aveva detto Carra prima di infilare il collo nel buco, voleva vedere come sarebbe andata a finire. Non se lo sarebbe perso per niente al mondo.

Sorrise a Jean, stretto fra lui e il vetturino, e questa volta venne ricambiato.

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