3.

D’Amblanc fu distolto dai ricordi. Davanti a casa sua c’era un uomo in berretto frigio. Tra le mani rigirava un plico.

– Cittadino D’Amblanc, vengo per consegnarvi una lettera da parte dell’ufficiale Chauvelin.

I due uomini si guardarono, poi D’Amblanc notò che lo sguardo dell’interlocutore tendeva a scendere verso il basso, verso la gallina.

D’Amblanc detestava tirare il collo ai volatili. Porse la gallina all’uomo, mentre con l’altra mano riceveva la convocazione.

– La volete? Ve la cedo volentieri.

Gli occhi dell’uomo brillarono d’interesse.

– Perché no, cittadino? Vi ringrazio, di questi tempi è peccato rifiutare. Gallina vecchia fa buon brodo.

Lo strano scambio fu compiuto e l’uomo si accomiatò fra le proteste della gallina, che batteva le ali, disseminava piume e consumava le scarne energie per dar voce al proprio disappunto.

Entrato in casa, D’Amblanc spalancò la finestra per cambiare aria e un’ape gigantesca si infilò nella stanza. Il ronzio era vibrante, un basso continuo che sembrava tenere assieme, come in un concerto, tutti i rumori della via, la vita quotidiana nel momento di più vasta eccezionalità della storia di Francia. Stridore di ruote sul selciato, brani di canzone, vociare di bimbi, richiami in rima di venditori ambulanti e giornalaie. L’ape, compiuto il periplo dei muri, trovò un’apertura e si perse fuori, nel cielo di Parigi.

D’Amblanc la segui finché non fu sparita dalla vista, poi scorse la lettera che teneva fra le mani.

La rivoluzione aveva cambiato le parole e i gesti con i quali l’uomo comunicava. Chauvelin ora era costretto a una missiva non da funzionario, non da amico, non da compagno di fazione: doveva tenere insieme tutti questi aspetti e allo stesso tempo tradirli un poco, a uno a uno.

Parigi, 25 maggio 1793

Esimio dottor D’Amblanc,
mi auguro abbiate avuto occasione di leggere i rapporti dall’Alvernia che vi ho lasciato durante la nostra ultima seduta. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate e cosa pensate di poter fare in proposito. Il comitato, benché assillato da molte altre questioni della massima gravità, insiste affinché accettiate l’incarico e andiate a verificare personalmente se i casi in oggetto siano ricollegabili all’attività di magnetisti controrivoluzionari. So che siete restio a lasciare i vostri pazienti, ma in tutta sincerità ritengo che essi potrebbero fare a meno delle vostre cure per la durata del viaggio, e tra costoro annovero ovviamente me stesso. In certi casi un mal di testa è preferibile a un male maggiore. Consentitemi di aggiungere che cessare la frequentazione di alcune dimore private in favore di un servigio reso alla Repubblica non può che essere una scelta saggia.
Resto in attesa di una risposta e vi porgo i miei omaggi,

Uff. Armand Chauvelin

del COMITATO DI SICUREZZA GENERALE

D’Amblanc rilesse più volte la missiva, incluso il discreto commiato finale.

La grafia e la sintassi dell’ufficiale dicevano fondamentalmente una cosa: era il momento di scegliere da che parte stare. I segnali, del resto, parlavano chiaro: la battaglia per la Convenzione era cominciata. Brissot, Vergniaud, Roland e i deputati girondini da una parte. I fratelli Robespierre, Marat, Danton e i deputati montagnardi dall’altra. E si poteva stare certi che il comune non sarebbe rimasto a guardare, dominato com’era da Roux e Ledere, e così i parigini, insieme al loro procuratore Hébert, che attraverso il suo papà Duchesne istigava a fare giustizia dei traditori della rivoluzione.

Non era difficile trarre le conclusioni implicite nelle parole di Chauvelin. E c’era dell’altro. Alcuni esponenti della Gironda erano legati alla storia personale di D’Amblanc. Deputati che prima della rivoluzione erano stati mesmeristi, come Carra e Brissot. Membri di un partito che troppo evidentemente lottava per gli interessi di ceti ristretti, non parigini, mercanti, armatori navali legati agli Inglesi, controrivoluzionari in potenza che si nascondevano dietro l’ambiguo velo della moderazione. D’Amblanc li conosceva bene, proveniva dallo stesso ambiente di studiosi del magnetismo, l’ormai dissolta Società dell’armonia universale. Il loro profeta era tornato a Vienna, e chi lo aveva osannato, ora fingeva di non averlo mai conosciuto. D’Amblanc era considerato l’ultimo apostolo rimasto. L’unico in tutta Parigi capace di tenere assieme gli ideali della Repubblica e il magnetismo. Il motivo era presto detto: prima dei trattamenti somministrati da Mesmer, le ferite di guerra lo avevano fatto soffrire terribilmente; in seguito ai bagni e alle crisi convulsive, i dolori si erano diradati, come se una forza compressa avesse trovato una via per scaricarsi. Poi D’Amblanc aveva conosciuto il marchese di Puységur e quell’incontro gli aveva cambiato la vita. Ma anche Puységur rientrava nel novero delle amicizie sospette: era un aristocratico, fratello di espatriati.

D’Amblanc sapeva bene che Chauvelin non nutriva dubbi sulla sua fedeltà alla patria e agli ideali di libertà e uguaglianza che avevano mosso il popolo a compiere l’inusitato, l’inaudito e mai visto prima, a fondare una nuova norma a partire dallo strappo, dal taglio, dall’eccezione. Ma il suo passato di seguace di Mesmer e il suo presente di magnetista potevano comprometterlo agli occhi dei montagnardi. Ed erano costoro a controllare il tribunale rivoluzionario e il comitato di salute pubblica.

Inoltre – il riferimento alle dimore private parlava chiaro – D’Amblanc frequentava la casa di un altro noto brissotino, l’avvocato Girard. Per di più al fine di curarne la moglie. D’Amblanc immaginava quale tipo di voci potessero essere nate intorno a quella circostanza. Voci che certo erano giunte alle orecchie dello scrivente, un solerte funzionario di polizia. Si meravigliò che, a conti fatti, fosse proprio quest’ultima implicazione a fargli più male, forse perché – si disse – era la più fondata, ancorché solo in potenza.

Il consiglio di Chauvelin era levarsi da Parigi per un po’, con un incarico ufficiale del comitato. Mettere le doti di magnetista al servizio della Repubblica. Questo lo avrebbe tenuto fuori dalla mischia e avrebbe segnato definitivamente la sua appartenenza alla fazione giusta.

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