Quando senti nelle orecchie la voce della Convenzione, Marie Nozière non potè fare a meno di trattenere il fiato.
La Sala del Maneggio era un rettangolo lungo e stretto. La forma si doveva alla sua antica funzione: quella di far sgroppare cavalli, senza che i nobili fantini si bagnassero il capo nei giorni di pioggia. Sui due lati corti, una sopra l’altra, si arrampicavano le tribune popolari, gremite di teste. Marie riconobbe il grande stendardo che le donne di Versailles avevano portato in processione: «Vogliamo una legge sul prezzo dei grani», c’era scritto in caratteri maiuscoli, con lettere alternate rosse e blu.
Dalla volta del soffitto, alta quanto la navata di una chiesa, pendevano tre maestosi lampadari e un tricolore di Francia.
Le grida e le chiacchiere del pubblico rimbalzavano là contro e grandinavano giù con violenza, mentre per le parole degli oratori era tutto l’opposto, sembravano salire e dissolversi come nebbia estiva. Sui lati lunghi sedevano i deputati, e al centro della sala, intorno a diversi tavoli, prendevano posto i ministri e i membri dei vari comitati. Di fronte a questi, dietro un parapetto di legno, si apriva lo spazio per le delegazioni popolari che presentavano richieste, denunce, accuse.
I quaranta di Sant’Antonio stavano là dentro come buoi al mercato, in piedi, spingendo per avanzare di qualche posizione, affacciarsi alla barra, riconoscere questo o quel deputato.
Anche Marie cercava di guadagnare un buon posto, ma non per smania di stare in prima fila. Voleva piazzarsi di fianco a Muzine, l’uomo che avrebbe letto la petizione a nome di tutti, per esser certa di afferrare bene le sue parole. L’oratore ufficiale del foborgo, il tintore Gonchon, si era sentito male la sera prima, ed erano rimasti con la merda in tasca. C’era chi diceva che quel malore improvviso gliel’avevano suggerito alcuni amici, delusi dai suoi discorsi più recenti, a favore di una pace tra Gironda e Montagna. Altri dicevano di averlo visto sbafarsi quindici rane e che di sicuro erano state quelle, a ballargli nello stomaco tutta notte. Sia come sia, era saltato su Jean-Claude Muzine, uno della cagnaccia, a dire che lui ce l’aveva già tutto in testa, un discorso bello forte, che senza dubbio non avrebbe fatto rimpiangere l’oratore titolare. In tanti allora l’avevano sostenuto, dicendo che lo stesso Gonchon, tra uno scacazzo e l’altro, l’aveva designato per rimpiazzarlo. Cosi lo sbirro aveva ricevuto l’investitura, e Marie non voleva perdersi il suo discorso.
Raggiunse a fatica la meta dei suoi compermesso, mentre l’oratore si schiariva la voce per cominciare.
– Cittadini, – sgolò, – siamo qui a presentarvi una petizione degli abitanti del quartiere di Sant’Antonio.
Il nome del foborgo più rivoluzionario di Parigi strappò applausi di simpatia dalle tribune e dai banchi della Montagna. Muzine annuí soddisfatto, come se l’entusiasmo fosse rivolto a lui e al suo timbro di voce grave e compunto.
– Essi sono qui fuori, – continuò, – in numero di novemila, e domandano di sfilare davanti alla Convenzione, con tutto il rispetto che si deve ai rappresentanti del popolo, tranquillamente e senza portare armi.
Di nuovo gli applausi gonfiarono il petto dell’oratore.
– Incaricati del popolo sovrano, – riprese. – Da molto tempo, occupandovi solo di interessi particolari e di denunce degli uni contro gli altri, voi avete ritardato il cammino che dovreste intraprendere. Riuniti in questo consesso per fare il bene di tutti, per redigere leggi repubblicane, rispondete, che avete fatto? Avete fatto molte promesse e non avete mantenuto nulla.
Un brusio di dissenso si alzò senza distinzioni da Montagna e Pianura, destra e sinistra dello schieramento. Da dietro le spalle di Marie, invece, arrivavano esortazioni a mezza voce: «Bravo Muzine!», «Cantagliele secche!»
– Noi di Sant’Antonio, – si inalberò l’oratore con un bel vibrato, – siamo pronti a partire per la Vandea e a buttare a mare i rivoltosi. Bruciamo dalla voglia di mostrare ai tiranni che i repubblicani francesi sono più forti delle loro congiure. Ma le nostre donne e i nostri bambini non hanno né cibo né vestiti: come possiamo lasciarli? Affamare il popolo significa non meritare più la sua fiducia. Fateli anche voi, dei sacrifici: la maggior parte di voialtri dimentichi di essere proprietaria di terre. Se approverete il maximum, noi difenderemo le vostre proprietà e più ancora quelle della patria. Ma non basta, mandatari: ascoltate un membro del vostro sovrano, il popolo. Le tre sezioni del foborgo di Sant’Antonio hanno stabilito quanto segue.
A quel punto, Muzine cominciò finalmente a leggere la petizione, così come stava scritta sui fogli che teneva in mano. Anche se la conosceva a menadito, Marie si accinse ad ascoltarla come fosse la prima volta, chiedendosi quale effetto avrebbe avuto sulla sala.
Ascoltò Muzine chiedere la partenza immediata per il fronte di tutti i soldati di stanza a Parigi, nonché dei firmatari di petizioni antirivoluzionarie, dei sospettati di incivismo, dei preti del culto cattolico, degli uomini tra i diciotto e i cinquant’anni, dei vedovi senza figli. E se non fosse bastato, si doveva tirare a sorte fra i cittadini sposati.
Le truppe così composte avrebbero poi eletto i loro generali. E per armarle al meglio, si doveva istituire una tassa sui cittadini più ricchi.
– Ecco, mandatari, ciò che domandano gli uomini liberi e repubblicani, del 14 luglio e di oggi, in aggiunta al maximum sul prezzo del grano. Finora la rivoluzione ha pesato soltanto sui poveri, ma è tempo che il ricco e l’egoista siano pure loro repubblicani, e che sostituiscano al proprio tornaconto il coraggio.
Questa volta gli applausi giunsero solo dai banchi della Montagna e dell’estrema sinistra.
– Mandatari! – li sovrastò l’oratore con un grido da mercato. – Questi che vi abbiamo indicato sono i soli mezzi per salvare la cosa pubblica che noi riteniamo efficaci. Se voi non li adotterete, noialtri che intendiamo salvarla davvero, la Repubblica, ci dichiareremo in stato di insurrezione. Diecimila uomini sono alla porta di questa sala...
La voce di Muzine scomparve sotto una valanga di urla, improperi, rumore di sedie. Marie distinse con chiarezza diverse voci, che per chissà quali rimbalzi spiccavano sul baccano generale, invocare l’arresto dell’intera delegazione per oltraggio all’assemblea. Decine di deputati erano in piedi e agitavano le braccia, chi all’indirizzo dell’oratore e chi in direzione del presidente Lasource, il quale scuoteva una campanella muta nel tentativo di riportare ordine.
Alla fine dovette alzarsi in piedi, richiamare per nome diversi colleghi, battere i pugni sul tavolo, e nonostante questo, la sua voce giunse a fatica fino alle orecchie di Marie.
Un predicozzo soporifero, pieno di elogi e rimproveri per tutti. Un ebanista di nome Joseph diede di gomito a Marie e le sussurrò che Lasource stava in campana, da quando il suo nome era finito nella lista dei ventidue brissotini che trentacinque sezioni di Parigi chiedevano di espellere dalla Convenzione.
– Ecco perché adesso ci liscia il culo, – commentò l’uomo, mentre il presidente concludeva il suo sermone e dava la parola a un deputato che fremeva per intervenire.
Questi mosse dai banchi dei girondini e si avviò verso la tribuna a passo deciso, reggendo sottobraccio un plico di fogli, aria da attore consumato. Le voci intorno a Marie lo definirono «Quel gianmerdone di Girard», «Uno di quelli che hanno accusato Marat per i saccheggi», «Culo e camicia con Brissot».
– Cittadini, io voglio credere che questi uomini del 14 luglio siano solo sviati, ma dobbiamo temere lo stesso un simile sviamento. Occorre che la Convenzione, votandosi alla morte per salvare la Repubblica, si preoccupi fin d’ora di non lasciare la Francia senza un’autorità legittima, quando gli assassini verranno a sgozzarci a uno a uno.
Marie si domandò che c’entrasse quel discorso con le richieste della petizione: il maximum, l’arruolamento, la tassa per i ricchi. Ma un applauso solitario catturò la sua attenzione.
Una donna seduta in prima fila, proprio sotto i banchi dei girondini, batteva le mani al cipiglio di Girard. Era vestita da uomo, con un cappello piumato, giacca e pantaloni.
– Domando pertanto che un’assemblea di sostituti, – prosegui Girard, – si riunisca subito a Tours o a Bourges, in modo tale che, nel caso la Convenzione venga annientata, essi siano là per tenere l’autorità e non lasciarla nelle mani del comune di Parigi, che già altre volte ha tentato di usurparla.
Una Convenzione di riserva a Tours? Marie non credeva alle proprie orecchie. Un deputato strillò che Girard se l’era scritta in anticipo, la rapsodia, e che l’oratore di Sant’Antonio era in combutta con lui, e aveva tirato fuori la storia dell’insurrezione solo per dare il destro alla solita lagna brissotina: trasferire la Convenzione fuori da Parigi, lontano dal popolo dei sanculotti e dei montagnardi. Marie studiò la reazione sul volto di Girard, che restò impassibile. Al contrario, l’amazzone in prima fila scoppiò in una fragorosa risata all’indirizzo del provocatore. La donna sembrava sicura del fatto suo. Marie ebbe l’impressione di conoscerla. Dove l’aveva già vista? Diede di gomito a Georgette, che si pigiava accanto a lei, l’unica altra donna nella delegazione del foborgo.
– Chi è quella là?
– Come chi è? Théroigne de Méricourt. La puttana di Brissot. Scalda il letto a lui e a parecchi altri della Gironda. In cambio ha un posto riservato là davanti.
Allora Marie ricordò. Théroigne l’amazzone, quella che un giorno era arrivata nel foborgo a dire che le donne dovevano partire per il fronte, come gli uomini, e a raccogliere su un foglietto i nomi delle volontarie. Alla fine se n’era andata col foglietto bianco e svariate minacce di un calcio nel culo.
Una mano si alzò ancora dai banchi della Gironda e un uomo magro mosse alla tribuna. Marie osservò la faccia lunga, il naso importante, mentre un nome serpeggiava tra le file, a metà tra un sibilo e un mormorio: «Brissot».
Il deputato aveva l’aria di chi si accinge a parlare per lunga pezza, sicuro delle proprie abilità oratorie.
L’amazzone allargò le braccia e intimò il silenzio a chi le stava intorno.
– Cittadini, – attaccò Brissot, – la grandezza consiste nel coraggio, non nel fuggire i pericoli; è così che l’Inghilterra mette alla prova le nostre forze. Il ministro Pitt compra qualche uomo, svia i migliori cittadini e confondendo quelle energie che non può annientare, rivolta contro la libertà gli sforzi di uomini che vorrebbero vivere e morire per essa.
Un coro di «Si, si» sgorgò dai banchi sotto la tribuna, incitato dall’amazzone, che mulinava una mano guantata.
Marie guardò Muzine, che nel frattempo s’era seduto, bianco come un cencio, e pasteggiava con le pellicine ai margini di un’unghia. Se aveva intascato i soldi degli Inglesi, certo era molto bravo a fingersi solo un poveraccio che s’era lasciato prendere dalla fotta di apparire il più dritto del foborgo.
– Se non adotterete le misure che l’oratore di Sant’Antonio vi ha appena dettato, – continuò Brissot in un falsetto ironico, – allora egli, dice, insorgerà contro di voi, cioè contro la nazione che rappresentate. Cittadini, se non fossimo di fronte al culmine di un delirio, l’atto di questi petizionari sarebbe un grave attentato. Essi vogliono marciare contro i rivoltosi, dicono. Ma i rivoltosi sono là, stanno alla barra. I rivoltosi della Vandea, profanando il sacro nome di Insurrezione, hanno levato contro la Convenzione uno stendardo ribelle: i petizionari li imitano. I rivoltosi della Vandea disconoscono la sovranità del popolo: i petizionari li imitano. I rivoltosi della Vandea vi chiedono un nuovo re: l’insurrezione invocata quest’oggi ci riporta alla monarchia. Pertanto, propongo di mettere agli arresti i vandeani di Sant’Antonio, per interrogarli e risalire alla fonte, ai veri ispiratori dei mali della Repubblica, a coloro che provocano le nostre divisioni.
– Ai voti, ai voti! – gridarono dai banchi della Pianura.
– Si voti per appello nominale, così vedremo chi difende questi farabutti!
L’amazzone indirizzò un sorriso di sfida alla delegazione di Sant’Antonio. Marie pensò che, ad averla a tiro, le avrebbe sputato in faccia. Anzi, l’avrebbe presa per il collo.
Brissot levò la mano con gesto papale, a indicare che la sua ramanzina non era ancora terminata.
– Quanto a me, – disse con gli occhi al cielo, – dichiaro ai vili adulatori tanto dei re che del popolo, che possono pure pugnalarmi su questa tribuna, ma non privarmi della libertà, né rendermi spergiuro ai miei stessi giuramenti, né fare di me un oppressore dei miei compatrioti. Morire per la patria è vivere per la posterità.
Marie lo guardò esterrefatta tornare al suo posto, accompagnato dagli osanna dell’amante in prima fila. Non riusciva a capire come si fosse arrivati a quella pantomima, a parlare di pugnali e di assassini, di congiure e di arresti, di fronte alla richiesta di un prezzo massimo sulle derrate e di una tassa per i ricchi. Eppure la paternale dei deputati non accennava a scemare, e per un’altra mezz’ora si alternarono in tribuna Jacques Brival («Questo è dei nostri», «Quello che ha proposto di trasformare in cannoni tutte le statue dei re», «Uno che ha votato contro l’arresto di Marat»), Georges Couthon («Pure lui giacobino», «Abita con Robespierre in casa Duplay») e François Buzot («Un pierculo brissotino», «Però contro Marat si è astenuto», «Dicono sia un invertito»). Tutti costoro, pur con toni diversi, si sperticarono in difesa del popolo e «per questo» chiesero di arrestare i firmatari della petizione.
Giusto un certo Mallarmé («Un mangiapreti patentato», «Uno tosto, anche se viene da Nancy») fece notare ai colleghi il tempo perso dietro una frase innocua. Marie gli riservò un lungo applauso, interrotto dallo scampanellare del presidente Lasource. Fu in quel frangente che il suo sguardo e quello di Théroigne de Méricourt si incrociarono, scambiandosi una promessa d’odio reciproco.
– Cittadini, – annunciò il presidente, – debbo darvi lettura di un messaggio che ho ricevuto in questo istante: «Gli abitanti del quartiere Sant’Antonio apprendono con dolore che la loro petizione suscita scandalo. Una nuova delegazione domanda di essere ammessa, composta da cittadini che vogliono difendere la Convenzione fino alla morte».