3.

Dimenticandosi di pranzare, D’Amblanc uscí in strada e si avviò verso la casa della signora Girard. Sfilò davanti alle fucilaie che lavoravano nella bottega di un falegname dall’altra parte della strada. Il falegname era alla guerra, difendeva la patria, e nella bottega le donne costruivano fucili per la Repubblica. D’Amblanc porse il saluto, ma senza applaudire, come facevano quelli che supplivano con un ostentato entusiasmo alla mancanza di convinzione. Le donne risposero con lazzi e apprezzamenti scurrili. Poco distante, la giornalaia continuava a lanciare il suo richiamo, sventolando il foglio di Hébert.

– La gran rabbia di papà Duchesne contro il re di Spagna, amicone dei Capeto e di tutti gli aristocrassi! La sua gran gioia per la guerra dichiarata agli Spagnardi. Un nemico in più per la Francia è un trionfo in più per la libertà!

Sulla prima pagina spiccava la vignetta con il papà Duchesne, «mercante di stufe», armato di una pipa e di una carota di tabacco. Sotto, il motto: «Io sono il vero papà Duchesne, fottetevi!»

D’Amblanc prese a camminare svelto. Non aveva bisogno di porre attenzione al percorso, poteva lasciare che i pensieri si aggrovigliassero e dipanassero liberi. Era come se fossero visibili, come se fosse avvolto in una nube che costringeva i passanti a scansarsi. E ognuno, in strada avrebbe potuto dire: «Largo a un uomo che sta ragionando su un vero problema, qualcosa da cui potrebbe dipendere il destino altrui».

Soltanto uno si provò di appellarlo e invogliarlo a fermarsi, sospendendo quel vorticare di idee. Appena voltato l’angolo, D’Amblanc quasi inciampò nelle masserizie di un rigattiere, che in quel punto invadevano la strada. L’uomo lo salutò. Era un confidente della polizia. Faceva buoni affari con merce insolita: gigli di Francia staccati da chissà dove, statue di santi, corone, mitrie, stucchi. D’Amblanc scavalcò uno stemma nobiliare deposto per terra, tra la ruota di un carro appoggiata al muro e un san Sebastiano dipinto su tela. I colori, un tempo vividi, si erano ridotti a sparse croste sul legno. Al santo mancavano il naso e un pezzo del viso.

– Cittadino, vogliate fermarvi, – lo invitò il rigattiere.

– Date un’occhiata. C’è ogni ben di dio, è il caso di dire.

Lui rispose senza fermarsi, un cenno della mano e poche parole.

– Grazie, cittadino, ma vado di fretta.

Non più in fretta dei pensieri, comunque.– Girato un angolo, fini impelagato in un gruppo di curiosi di varia estrazione, uomini e donne, che assistevano a uno spettacolo di strada. Un sedicente scienziato andava a dimostrare i prodigi dell’elettricità. Per farlo, utilizzava dei passeri.

C’era una macchina a frizione, con un disco di vetro che girava dentro un telaio e sfregava su quattro cuscinetti di cuoio. Attraverso la rotazione impressa da una manovella, la macchina si caricava di fluido elettrico e un tubo di ottone lo trasferiva in una bottiglia di Leida. La bottiglia immagazzinava il fluido, finché l’uomo smetteva di girare la manovella e afferrava un bastone di legno. Un’estremità del bastone era collegata alla bottiglia, mentre l’altra terminava con due punte di rame. L’imbonitore la avvicinava al passero e una scarica elettrica lo tramortiva. L’uomo descriveva con paroioni appropriati l’azione appena condotta e i suoi effetti, poi riprendeva: manovella, bottiglia, asticciola e passero folgorato.

D’Amblanc osservò l’uccello perdere i sensi e poi rianimarsi, tremante, all’interno della piccola gabbia. Lo scienziato annunciò il gran finale parlando della dimostrazione «completa» delle potenzialità del fluido. Il gran finale si dimostrò semplicemente una scarica abbastanza forte da sbalzare il passero e mandarlo zampette all’aria, stecchito, sul fondo della gabbia. Il pubblico applaudì e lo «scienziato» fece girare il cappello, che raccolse qualche moneta.

D’Amblanc si decise a proseguire. La moda scientifica che aveva imperversato negli anni precedenti alla rivoluzione non sembrava spegnersi, almeno a livello della strada. Affrettò il passo> e tornò a pensare alla conversazione di quella mattina. Fini per associare l’immagine della borsa di Chauvelin a un vaso di Pandora. Qualcosa che forse sarebbe stato meglio non aprire.

Alla sua proposta D’Amblanc non aveva detto né si né no. Aveva preso tempo. Per leggere i rapporti e riflettere sul da farsi.

Si sforzò di scovare nelle parole di Chauvelin un significato recondito, un messaggio cifrato, senza riuscire a scalfirne la superficie.

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