5.

Quella sera, alla luce tenue di un candelabro, D’Amblanc costrinse la nube dentro un paio di pagine del suo quaderno, in una grafia fitta e allungata.

Non poteva negare di essersi sentito attratto dalla signora Girard fin dalla prima seduta di magnetizzazione, anche se era certo che la propria condotta non fosse mai stata meno che professionale. Il dubbio che consegnava alle pagine del quaderno era quello di avere esercitato una qualche forma di involontario condizionamento su di lei, attraverso la magnetizzazione. Non aveva forse immaginato in precedenza di essere toccato da quelle mani? Certo che sì. In quale altro modo si spiegava il fatto che un’irreprensibile donna sposata – a uno degli avvocati più in vista della Gironda, per di più – cedesse all’attrazione per un altro uomo, nel salotto di casa, in presenza di una serva, ancorché assopita?

D’Amblanc ricordava quante signore dabbene raggiungevano una vera e propria estasi erotica durante le crisi convulsive che Mesmer provocava loro. Ma durante le sue sedute non era mai capitato. Forse, si disse, perché non era mai stato tanto attratto da una donna come dalla signora

Girard. C’era qualcosa di conturbante in lei, non solo la bellezza, il profumo. Era la calma, una sorta di accondiscendenza ispirata dal desiderio, un affidarsi ciecamente alle cure, senza che questo implicasse sottomissione, quella che doveva soltanto al marito. Era come il darsi con docilità di una tigre.

Era così? Attraverso le sonnambulizzazioni aveva domato una tigre?

D’Amblanc sapeva che non avrebbe trovato le risposte quella sera. L’accadimento pomeridiano aveva risvegliato un vecchio tarlo.

Riascoltò le proprie parole di quella mattina: «Il magnetismo animale è una terapia. Serve a curare le persone, non a incontrare i santi».

Preparò un foglio e intinse la penna nel calamaio. L’intenzione era di scrivere al suo maestro, ma cambiò subito idea. Non aveva abbastanza elementi per disturbare nel suo ritiro un uomo che nel frattempo era passato dall’esercito alla vita di campagna. Chastenet, già marchese di Puységur, colui che aveva ribaltato la dottrina di Mesmer per farla camminare sui piedi, non avrebbe preso in considerazione meno che un numero cospicuo di indizi, e probabilmente solo per rintuzzare con gentilezza i rovelli di un adepto pedante.

D’Amblanc depose la penna e si rilassò sulla sedia. Notò il faldone di fascicoli dell’agente Chauvelin. Li aveva lasciati sulla sedia quel mattino, senza nemmeno aprirli, e li erano rimasti tutto il giorno, come un paziente in attesa d’essere ricevuto.

E in effetti questo erano quei rapporti, pensò D’Amblanc: storie di persone. Potenziali pazienti.

Prese il primo della risma e lo aprí. Era il caso di una pastorella del Massiccio Centrale che sosteneva di parlare con gli angeli, i quali le avevano preannunciato la fine del mondo e l’avvento del regno di Cristo e dei santi. Quando dialogava con gli angeli, la ragazzina sembrava come addormentata, non percepiva la presenza delle persone intorno a sé, rispondeva soltanto alle domande della madre.

D’Amblanc richiuse il fascicolo e, controvoglia, ne prese un altro. Bernard Jaranton, detto «l’uomo-cinghiale». Un caso di licantropia, a quanto poteva capire.

Un terzo fascicolo riguardava una giovane sonnambula che se ne andava in giro di notte per i boschi e in tale stato sviluppava abilità e forza inusitate.

D’Amblanc accantonò il plico, mentre gli tornavano in mente le parole di Chauvelin: un’altra Vandea. Bande controrivoluzionarie che attraversano le campagne, briganti in agguato nei boschi, esecuzioni sommarie nelle piazze. Il secondo fronte, quello interno.

D’Amblanc era stato medico di battaglione, in un’altra guerra, e le ferite riportate gli sarebbero state sufficienti per tutta la vita. D’istinto lasciò scorrere la mano in corrispondenza delle vecchie cicatrici sul torace e sul costato. Quel pomeriggio, quando la signora Girard ne aveva sfiorata una, un brivido gli aveva percorso le ossa, accompagnato dal suono delle sue stesse urla, scaturito da un angolo della memoria. Baluginare di lame, lembi di pelle sanguinanti. Quando quelle visioni tornavano in superficie, anche il dolore ricominciava. Del resto, pensò, senza quel periodico riaffiorare, non avrebbe mai scoperto il magnetismo animale.

Era stato il suo luogotenente a consigliargli le cure di Franz Anton Mesmer. L’uomo era molto grato a D’Amblanc per avergli salvato una gamba dalla cancrena e, felice di potersi sdebitare, gli aveva scritto una lettera di presentazione, senza la quale la terapia magnetica sarebbe costata un occhio della testa. D’Amblanc avrebbe fatto qualunque cosa pur di non vivere sotto la spada di Damocle di quel dolore improvviso, che lo torceva come un ramo nel fuoco. Cosi era partito per la capitale.

I rintocchi del campanile gli ricordarono che ore fossero e d’un tratto senti addosso la stanchezza della giornata. Si preparò per andare a dormire e quando fu sotto le coltri si concesse di tornare indietro, al passato recente e lontanissimo che aveva preceduto la rivoluzione. Gli albori della ricerca sul magnetismo, le vasche di rame, le convulsioni.

In principio era la voce.

Share on Twitter Share on Facebook