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Nel cortile dell’ospedale, l’uomo chiamato Laplace assisteva al tramonto. La libertà di goderne all’aperto era uno dei suoi privilegi, ottenuti grazie alla fiducia che ispirava al governatore Pussin. In realtà, poiché i padiglioni di Bicêtre schermavano l’orizzonte, Laplace non vedeva mai l’epilogo del dramma solare. Non assisteva tanto al tramonto, quanto ai cromatismi di retroguardia, al mutare dei colori nel riquadro di cielo perimetrato dai tetti.

Il dí 2 di giugno dell’anno del Signore 1793 volgeva al termine, e se allo zenit la volta era intrisa di blu, verso occidente aveva la tinta della carne che inizia a guastarsi. Non era atteso alcun cambio della guardia tra Febo e Selene: la notte prima era stata di novilunio.

Da due giorni affluivano a Bicêtre testimonianze e resoconti del tumulto che animava Parigi. Pussin, il padre Richard, gli inservienti, i visitatori, costoro introducevano nell’ospedale le notizie di fuori.

A breve giro, passando di bocca in bocca, le notizie si trasmutavano in dicerie incontrollate, a misura che gli alienati le arricchivano delle loro angosce e le piegavano alla tortuosità dei loro codici indecrittabili.

A Parigi uomini importanti fuggivano travisati da donne, e venivano arrestati da donne agghindate da uomini.

Tra gli alienati di San Prisco si asseriva che Brissot fosse una donna. Dal suo amore per Marat, che l’Amico del Popolo non ricambiava, erano conseguite sciagure. «Nessuno è più pericoloso di una donna respinta travisata da uomo!», aveva pontificato il Robespierre di Bicêtre, prima di incitare i suoi compagni di ricovero a inseguire l’alienato che tutti chiamavano Brissot, per calargli le brache e vedere se aveva il cetriolo o la patata. Erano intervenuti gli inservienti, e il mistero non era stato risolto. In un angolo, uno dei Marat del padiglione scuoteva il capo, dicendo: «Ho fatto bene a non fidarmi, di quello là».

In particolare una strana storia, entrando nel mondo dei folli, si era gonfiata come una vela percossa dal maestrale. Si diceva che ad accendere la miccia del cannone d’allarme, chiamando il popolo di Parigi all’adunata e alla rivolta, fosse stato un buffo personaggio in costume da teatro, con una maschera di Scaramouche appesa al collo, che si esprimeva in un idioma sconosciuto.

Ora Scaramouche stava radunando un esercito in maschera. Con lui c’erano Arlecchino, Capitan Fracassa e Scapino, che in realtà erano donne, crudelissime donne. A paragone di quanto intendevano fare, i massacri di settembre erano poca cosa.

In tali deformazioni, Laplace rinveniva molte verità, più di quante ne contenesse il racconto che la rivoluzione forniva di sé stessa. Studiare il delirio di chi vive nella Grande Parodia in modo manifesto può aiutare a capire chi, in apparenza più dotato di senno, vi affonda senza esserne conscio. .

Laplace ne era sempre più persuaso: dimorava nel luogo ideale, perfetto per ciò che si proponeva. Da li, poteva contemplare l’ineluttabile decorso della Parodia.

La dinamica rivoluzionaria subiva un’evidente accelerazione. Laplace ne era lieto: tutto doveva farsi più rapido, ogni spinta doveva portare il mondo più lontano dal vecchio ordine, ogni paradosso andava reso più stridente, ogni contrasto doveva acuirsi.

Per poter essere sconfitta, la rivoluzione andava resa irreversibile. Ogni illusione sulla possibilità di restaurare il vecchio regime doveva dissiparsi. Solo così sarebbe nato l’Ordine Nuovo, ossia quello veramente antico, quando ogni tendenza sarebbe finalmente giunta ai confini del possibile e, respinta dall’invisibile barriera eretta da Dio, si sarebbe capovolta all’indietro.

Scaramouche era dotato di poteri straordinari: con un sol balzo poteva salire su un tetto e da li arringare la folla. La sua voce si sentiva a dieci leghe di distanza, e sembrava esprimersi in ogni lingua del mondo, in una sorta di Pentecoste insurrezionale. Tra chi lo ascoltava, i Bretoni lo udivano parlare bretone, i Perpignati in catalano, i marsigliesi in provenzale, i Belgi delle Fiandre in fiammingo.

Laplace intendeva passare all’atto al momento del grande contraccolpo. La controrivoluzione non è l’opposto di una rivoluzione: la controrivoluzione è una rivoluzione opposta. Essa non può che salutare la rivoluzione come si saluta l’errore altrui che nondimeno riapre il gioco e consente di entrarvi per vincere. Laplace si sentiva il prototipo di un nuovo rivoluzionario, la sua re-volutio era (alla lettera) giravolta che conduce all’origine, afferrando il filo di un destino rivelato nei millenni.

Non aveva senso agognare il ripristino del mondo imbastardito di cinque, venti, trent’anni prima: occorreva andare molto più indietro. Per farlo era d’uopo, almeno per il momento, andare avanti.

La mattina del I° giugno, Scaramouche era partito alla volta di Lione, a capo di un battaglione di amazzoni armate di daghe e pugnali. Raggiunta la città ribelle in meno di un’ora, la banda aveva sgozzato e sventrato più di mille girondini, per poi tornare a Parigi prima di cena.

Laplace si sentiva più affine ai Robespierre e ai Barère che agli émigrés di Coblenza. I Capeto e gli Asburgo-Lorena non erano che spettri di vermi. Anche per tutelarsi dal loro ritorno andava fatta la controrivoluzione. Sotto quell’aspetto, quale peccato d’ingenuità era stato arruolarsi coi Prussiani! Laplace non avrebbe mai pensato di giungere a tale conclusione, ma oramai non nutriva alcun dubbio: era l'armée rivoluzionaria il vero strumento del destino.

La follia era cominciata. La crisi avrebbe avuto il suo corso.

Sino ad allora, aveva ritenuto Bicêtre il luogo in cui si inverava la natura parodica dell’ordine rivoluzionario. Bicêtre somigliava al mondo esterno e la microcosmica rivoluzione di Pussin replicava quella macrocosmica di Danton e Marat.

Ora, invece, era il mondo esterno a somigliare a Bicêtre.

Al momento di uscire e agire, la lunga frequentazione coi folli sarebbe stata un vantaggio.

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