Il Paradiso di maestro Piero.

Fu già un tempo ch’io, desideroso di un po’ di solitudine e di quiete, ebbi la fortuna di possedere un eremo, un vero e proprio eremo, alle porte di una piccola città di provincia e, pur tuttavia, in piena campagna. Una stradella, che ben pochi sapevano, si staccava dalla via maestra, quella grande bianca e polverosa, piena sempre da mane a sera di carri e di cavalli, e così, cheta cheta, la stradella, tra le siepi degli orti, portava sino alla mia casetta, nascosta nel verde. Nessuna altra abitazione divideva, con la mia, la completa signoria di quel perfetto angolo della quiete: o meglio, nessun’altra, tranne una piccolissima casa, dietro la mia, del tutto sepolta tra gli alberi degli orti e, dalla mia, protetta o meglio celata affatto alla vista di fuori. Sembrava la figlietta più piccola della mia e, come una buona figlietta, si riparava alla sua ombra e se ne stava quieta quieta e tranquilla sotto la sua protezione, nascosta tra gli alberi da frutta e le pergole di vite. Il solo orticello ci separava.

Ed io tutte le mattine, dalla mia finestra, vedeva il felice abitatore della casetta, il buon maestro Piero, seduto davanti alla porta che metteva nell’orto, sotto le foglie enormi d’una foltissima zucca in fiore che la incorniciava, con un macinino da caffè sulle ginocchia occupato ed attentissimo a stritolare i bei chicchi fragranti ch’egli stesso tostava regolarmente ogni sabato, per prepararsi il «suo caffè.» Maestro Piero, il mio vicino, era un bel vecchietto minuto ed asciutto, tutto bianco, il quale aveva tre grandi passioni: la sua quieta casetta, il suo caffè e la sua spinetta. Oh! di tutto dirò, in particolare. Anzitutto il caffè.... Oh, se amava il «suo caffè» il buon maestro Piero! Era il più vecchio amico, il suo caffè. Giacchè non beveva vino, il maestro Piero aveva riposto nel «suo caffè» tutta la sua ghiottoneria, la sua voluttà, starei per dire la sua sensualità.... Egli se lo faceva, come si è veduto, tutto da per sè. La sua buona vecchia serva che gli faceva i servizi indispensabili e poi se ne scappava per lasciarlo tranquillo, gli comprava in paese il caffè più pregiato – ed egli amorosamente, pazientemente, con somma arte e perizia, lo tostava accuratamente. Maestro Piero aveva consultato, per ben riuscire in questa delicata operazione, i migliori trattati del genere, e quanto era contento, il buon maestro, quando ad operazione finita mi mostrava i bei chicchi dorati, caldi e croccanti, che si sgretolavano stringendoli alquanto tra le dita! Questa preziosa operazione avveniva, come si è detto, il sabato. Negli altri giorni poi, quando sentiva il bisogno di ricorrere al suo tonico amico – e questo, oltre il mattino, occorreva spesso lungo la giornata – il maestro Piero cavava il suo storico macinino – un vecchio macinino ch’ei guardava sospirando, poichè gli ricordava tanti caffè, or tristi, or gai, di sua vita – e riduceva i bei chicchi dorati in polvere minutissima. Quindi le sue mani industriose trasformavano la polvere in liquido profumato e bollente.... Oh, come le rughe del suo volto di vecchietto magro si spianavano e come gli ridevan gli occhi dal piacere, quando avvicinava finalmente la tazzina calda e fumigante del prezioso liquido alle labbra!... Io che andava spesso a trovarlo, aveva finito per godere con lui la voluttà con la quale mi offriva di dividere il suo aromatico amico....

Il buon maestro Piero viveva solo in quella sua piccola casa. Aveva un figlio, a Milano, che si era dato al commercio: una vera testa per fare fortuna, diceva lui, un vero commerciante nato; disceso al mondo, chissà come, da quella sua testa pazza d’innamorato di crome e biscrome.... A lui, maestro Piero, aveva affidato tutto il suo patrimonio, perchè se ne servisse nel suo commercio: pago egli di viversene tranquillo, quieto, obliato da tutti, nel suo cantuccio di verde. Ed egli se ne viveva là, tranquillo e felice, col suo caffè, il suo orticello e la spinetta.... Oh, la spinetta! Era l’altro suo grande amore. Giacchè bisogna dire che maestro Piero non era stato sempre, come ora, amante solo della quiete e del silenzio: oh no! I suoi occhietti brillanti di luce lo dicevano ridendo che anche lui un giorno – quanti anni avanti! – era corso dietro a quella bella signora con le ali che tutti i giovani hanno inseguito e che si chiama la signora Gloria. Oh, maestro Piero era stato anche lui giovane, entusiasta, aveva anche lui sognato tante belle cose.... Aveva composta molta musica ch’era pur piaciuta, era stato applaudito, aveva conosciuto la luce dei saloni pieni di belle dame, il chiasso dei teatri affollati, il calore dei battimani.... Era stato lì lì per attaccarsi agli svolazzi del manto della bella signora che s’è detto! Poi, poi.... il tempo era passato, come fa sempre; la gioventù che tante cose fa parer belle, se n’era andata con esso, l’entusiasmo s’era a poco a poco calmato e i sogni s’eran fatti più tranquilli.... Nel frattempo aveva preso moglie, s’era trovato fra le braccia un bel bamboccione tutto vita che non voleva saperne affatto delle crome e delle biscrome del suo buon papà.... e aveva finito, non sapeva neppur lui come, per trovarsi così, vecchietto tutto pelle e nervi, vivo come una anguilla, solo, abbandonato dalla sposa che se ne era volata per la vita migliore senza aspettarlo e dal figliuolo che s’era dato all’entusiasmo più pratico del commercio....

Siccome il buon maestro Piero, nei tempi della fortuna, aveva fatto come la formica della favola, s’era trovato infine un po’ d’argento in tasca; ne aveva fatto due gruzzoli: uno lo aveva dato al figliuolo chè ne andasse con esso a caccia della fortuna, con l’altro s’era trovato il cantuccio più quieto del mondo e se lo era comprato. Ecco tutto, e come n’era felice!...

Però del suo passato, de’ giorni delle belle idee e degli entusiasmi, una cosa gli era rimasta fedele ed amica: la spinetta. Oh! la sua spinetta!... Era di fabbrica francese: l’aveva comprata a Parigi, nei primi anni del secolo, in un’asta pubblica. Era un tesoro. Diceva una scritta appiccicatavi che su quella vecchia tastiera gialla e tutte gobbe, aveva posato le mani Maria Antonietta. Sicuro, quella spinetta aveva appartenuto alla Corte gaia, folleggiante e poi miseranda: sbucata poi fuori, come tanti altri oggetti del genere, dopo i giorni grigi della Rivoluzione era venuta a finire nelle mani del buon maestro Piero, che aveva destinato la vecchia reliquia a dividere con lui la pace de’ suoi ultimi giorni. E la spinetta, insieme con l’enorme fascio degli scartafacci musicali ingialliti dal tempo e pieni di polvere, eran adesso gli ultimi fidi amici rimasti al buon maestro Piero di quei bei giorni a parlargli della sua Arte, rimastagli buona amica ma come lui invecchiata e amante ormai di quiete e di solitudine.

Poi c’era l’orto.... Oh, egli era un ben devoto amante di quei quattro palmi di terreno, diviso in piccole aiuole rotonde, quadrate, triangolari, piantate alla rinfusa di fiori vistosi, dai vividi colori e dal profumo soave e di fagiuolini, fave, insalate, cavoli.... Qua e là s’innalzavano, sorrette da cannuccie intrecciate, grandi piante prosperose di poponi e di zucche, dalle grandi foglie mostruose nella piccolezza dell’orto; e certi altissimi malvoni che sembravano alberi, agitavano il loro pennacchio di fiori rosei con l’aria di persone felici nella loro rozzezza benevola. V’erano de’ finocchi in fiore che aprivano il loro verde ventaglio profumato, picchiettato di puntini vividi sopra le placide lattughe, prosperose e grasse, nelle loro oneste foglione, come buone massaie posate.... Tutto all’intorno correva la pergola, ricca, verdissima, piena di foglie e, a suo tempo, di grappoli color del rubino.... Come era felice il buon maestro Piero, quando se la passeggiava da padrone nel suo bell’orto ove le piante facevano a quale veniva su più rigogliosa! E come le conosceva e come le accudiva le sue care piante! Di tutte maestro Piero sapeva i difetti, le malattie, le debolezze; e come era sicuro nel genere di cura o di rimedio da applicare ad un cespo stantìo o ad una piantolina anemica o invasa dai piccoli verdi parassiti degli orti!...

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La prima volta che, invitato da maestro Piero, misi piede nelle quattro o cinque camerette nelle quali era tutto il suo alloggio, mi parve di entrare nella bottega di un rigattiere. Le pareti sparivano sotto un diluvio di quadretti, ritratti, stampe con l’effigie di vecchi maestri, artisti, cantanti e cantatrici dimenticati da anni: e poi v’erano vecchi manoscritti di musica rinchiusi in cornici dorate, protetti dal vetro, autografi preziosi o cari al buon maestro. Poi ancora, una intera famiglia di violini, di tutte le grandezze e di tutti i colori, senza corde, polverosi, e qualcuno sfondato. Poi, in paterno amplesso, un trofeo di flauti, archetti di violino, un clarinetto, un oboe, e un bel fagotto panciuto, il tutto legato, tenuto insieme da una corona di metallo – di latta, forse – ma dipinta a foglie di lauro ad oro: un ricordo di qualche serata di trionfo e di applausi.... In mezzo a tutte queste sue care carabattole un bel ritratto ad olio di Rossini – del buon Rossini prospero e rigoglioso degli ultimi anni di gloria – che se la rideva bonariamente, con la sua aria di allegro burlone, nel suo faccione pieno e divenuto, pel tempo, a dispetto del buon pittore che lo aveva dipinto, d’un bel color di arancio. Attorno al grande Maestro v’erano altri ritratti sbiaditi di altri minori amici e compagni d’arte di maestro Piero, tutti dimenticati, morti e seppelliti da un pezzo....

La famosa spinetta, quella di Maria Antonietta, troneggiava nell’angolo più sicuro e riparato della saletta, sotto un diluvio di carte giallastre manoscritte. E di carte di musica, stampate e manoscritte, ce n’era un po’ da per tutto: tra i violini, sotto i quadri, sui tavolini e perfino per terra, sotto i piedi. Negli angoli ve n’eran intere cataste. Un mucchio di vecchiumi, su cui la polvere si depositava da anni e anni, tranquillamente e pazientemente.

Pur tuttavia due ritratti, sopra il caminetto, si appartavano dagli altri e attiravano subito l’attenzione. Erano una bella donna, giovane ancora e dall’aria dolce, e un bel ragazzotto tarchiato e dagli occhi vivi e ridenti. – Il mio buon angelo che non è più.... e il mio marmocchio, che ora ha venticinque anni, è a Milano e fa il commerciante – mi disse, la prima volta che vi posai sopra gli occhi, maestro Piero.

— Non somiglia a voi, maestro, nei gusti – notai io.

— Oh no! – rispose egli convinto.

E mi parve che nella sua esclamazione vi fosse una lontana sfumatura di melanconia.

Io era l’unico a cui maestro Piero aveva concesso, da tanti anni, l’onore di visitare la sua casa. Se ne viveva tanto tranquillo!... Anche suo figlio veniva molto raramente a trovarlo, occupato come era a Milano a fare fortuna.

Così passava il suo tempo maestro Piero, dividendo la sua vita tra una zappatina nell’orto e il suo caffè; a decifrare le sue vecchie cartaccie, a pestare la sua spinetta e a respirare la polvere in cui si disfacevano i ricordi de’ suoi bei giorni.

Era quello il paradiso di maestro Piero. Povero maestro Piero!... Anche quel modesto paradiso doveva egli perdere bentosto!...

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Avvenne che dovetti allontanarmi per qualche tempo dal mio eremo e dal paese. Ritornatovi vidi con mia grandissima maraviglia un’inaudita ed inaspettata trasformazione.

La casetta di un solo piano e l’orticello di maestro Piero erano scomparsi; e al loro posto sorgeva una elegante casina bianca a due piani, dalle persiane verdi e dal tetto di tegole rosse e lucide, scintillanti al sole. Il mio modesto eremo n’era tutto mortificato e vergognoso, così povero, vicino a tanto lusso! Dove già era stato l’orto che conosciamo era adesso un bel giardinetto all’inglese, dalle aiuole corrette, piene di fiori pomposi: gerani, garofani e gardenie; per terra la sabbia uguale e minuta copriva i piccoli viali ben curati. Uno zampillo scaturiva da una vaschetta di marmo, piena di pesci rossi.... Cercando bene, scorsi in un angolo del nuovo giardino, seduto sopra un sedile verde ed elegante, che leggeva un giornale.... maestro Piero!...

Che cosa dunque era avvenuto?

— Oh, una cosa molto semplice – mi spiegò malinconicamente maestro Piero appena gli fui vicino.

Suo figlio – il suo ragazzo, quello del ritratto – aveva alfine fatto fortuna a Milano: aveva sposato la figlia di un ricco mercante! Quando aveva condotto a far conoscere al padre la sposa, questa s’era tanto innamorata del cantuccio solitario di verde di maestro Piero che era stata presa dalla bella idea di stabilire lì la sua villeggiatura estiva. Invano il buon maestro Piero aveva fatto osservare al figlio e alla nuora che il luogo era troppo povero per gente ricca come essi.... Invano, perchè un mese dopo la visita maestro Piero si era veduto capitare ingegnere, muratori e tanta altra brava gente che in un batter d’occhio gli avevano buttata giù la cara casetta ad un piano, avevano mandato all’aria l’orticello e, a vapore, ne avevano cavato quella palazzina lì tutta bianca e rilucente e quel bel giardino!...

Io osservai il povero maestro Piero.

Era vestito di nero – un abito elegante e corretto che lo impacciava – e teneva in mano un giornale; lui che da anni ed anni aveva perduto di vista ed obliato tutti i giornali e il mondo di cui erano l’eco!

Egli guardava malinconicamente le alte agavi delle aiuole e i grassi cactus viscidi e spinosi che parevan serpenti che gli facesser le boccacce: essi ch’eran venuti a usurpare il posto ove già eran cresciuti sani e prosperosi i suoi piselli e le sue povere zucche. Lessi nel suo volto tutta la tristezza della sua nuova vita, la malinconia delle lunghe giornate di noia, là, su quei sedili di ferro inverniciato di fresco....

Mi ricordai di tutte le sue care carabattole, ingombranti le sue già quattro stanzuccie, della sua preziosa spinetta e glie ne chiesi.

— Lassù – mi rispose – tutto lassù in soffitta!

E mi mostrò tristamente il tetto dalle tegole rosse.

Non osai dirgli altro.

Ad una finestra della palazzina era sciorinato un grande tappeto a fiorami rossi e verdi; in mezzo al giardinetto, da una pergola pendeva un grosso globo di vetro a specchio, che ci rifletteva entrambi a gambe all’aria e con certi volti mostruosi e grotteschi di gnomi; dal balconcino di mezzo veniva il suono di un pianoforte che martellava un valzer di moda.... Tutti quei colori sfacciati, quel suono, quell’odore penetrante di cose verniciate da poco, sotto la luce viva del sole, mi abbacinavano gli occhi e m’infastidivano, come una cosa molesta.

Quale cambiamento!...

Dopo un po’ ch’io ero colà scese in giardino la sposa. Era una bella giovane prosperosa e molto colorita in volto. Era proprio lei che poc’anzi suonava il valzer alla moda, sul suo bel pianoforte di fabbrica francese....

Quando ero per congedarmi la signora mi domandò se voleva accettare una piccola bibita.

— Senti.... – mormorò timidamente alla nuora maestro Piero – fagli portare.... il caffè!

Compresi ciò che maestro Piero voleva dire.

Rividi la buona tazzina di caffè, del «suo caffè» che il maestro Piero d’un tempo mi offriva trionfante e tutto felice.... e voltai il capo dall’altra parte per non fargli scorgere la commozione che mi si leggeva troppo chiaramente sul volto.

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