III.

Il Castello era un tozzo fabbricato a due soli piani, sormontato da una torretta in parte dirupata. Già maniero del secolo XV, era stato rimodernato verso il seicento da un signorotto del luogo e serbava ancora le tracce di un incendio che aveva distrutto, verso quel secolo, parte de’ soffitti.

Si componeva di una stretta corte, nella quale s’entrava per un portone abbastanza ben conservato: di una scalèa molto traballante ormai, che portava nelle sale del primo piano. Quivi si apriva un vasto salone, pieno di mobili tarlati e di quadri anneriti, irriconoscibili ormai, giacchè il colore s’era trasformato sopra quelle tele mal conservate in una sorta di crosta bruna e grommosa che tutto nascondeva sotto la sua sporca caligine. Le altre stanze vuote e disadorne attestavan il più completo abbandono da secoli.

Il secondo piano invece appariva più curato e rimodernato. V’eran due stanze da letto abitabili: fornite di grandi letti vetusti di noce, riparati dal baldacchino di seta sbiadita, da certi secolari canterani, da qualche quadro abbastanza intelligibile e da vecchissime tende frangiate di qualcosa di ancor vagamente lucente che già un tempo era stato forse oro.

Accanto ad esse si apriva la vastissima sala della biblioteca: piena di vecchi libracci – alcuni dei quali di vero valore – e di cartacce di cui dirò meglio in appresso.

In uno stambugio angusto, posto precisamente accanto alla sala della biblioteca, si apriva nel muro la famosa nicchia di cui mi aveva parlato la guida e che formava appunto la più grande e misteriosa curiosità di quel vecchio rudere.

Era essa una non grande apertura nel muro, come s’è detto, sotto la quale si sprofondava il buio di un nerissimo pozzo.

Provammo io ed Edoardo a gittar giù nel nero baratro alcuni pietroni e per quanto tendessimo attentamente l’orecchio non ci fu possibile mai percepire il più lieve e lontano tonfo di caduta. I corpi che lasciavamo cadere in quel tenebroso vuoto – enormi pietroni di quattro o cinque chili di peso – dovevano veramente sprofondare nel più grande abisso, giacchè nel silenzio assoluto che ne circondava, e data la risuonanza naturale dovuta al lungo condotto, un lieve suono, per lontano che ne fosse il fondo, dovea pur giungere al nostro orecchio!...

Preso così possesso del nostro maniero ci acconciammo io ed Edoardo in una delle vecchie camere, mentre il buon Jean Bonnin nostro compagno per la vita ormai, a sentir lui, s’impossessava coraggiosamente dell’altra vicina, ove pose gongolante il quartier generale della sua loquace curiosità e irrequieta smania di nuove sensazioni mai provate.

— Io spero, – ci confessò egli, – di vedermi apparire una notte o l’altra lo spettro del Genio protettore di questo caro castello.... Che delizioso e attraente spavento sarebbe mai, da aggiungere alle tante emozioni da me già provate nelle mille ed una mie peregrinazioni pel mondo, ormai troppo ristretto per le mie brame girovaghe!...

Gli augurammo sinceramente di essere soddisfatto nel suo modesto desiderio.... a patto ci lasciasse godere tranquillamente, senza troppo stordirci con lo scoppio loquace delle sue impressioni, la nostra parte di castellani solitari.

I primi giorni passati al Castello furon da noi occupati a visitarlo minutamente, in ogni angolo, cosa del resto ben presto fatta, perchè, come si è veduto, il vecchio maniero non presentava soverchia ricchezza di locali.

L’unico luogo di esso veramente interessante era la biblioteca fra le cui annerite cartacce io sperava di trovare qualcosa di nuovo e di curioso.

Nel frattempo io ed Edoardo ci facevamo raccontare dagli abitanti giù del paese le varie leggende che sul vecchio edifizio correvano vivissime e pittoresche.

Oltre quella già nota, dell’ultimo abitante, il vecchio Diavolo scomparso misteriosamente, altre curiosissime attirarono la nostra attenzione.

La prima riguardava il fondatore del Castello di Saint-Malin, un vecchio romito, un santo che venuto a vivere in penitenza sulla vetta di quell’arido monte era stato tentato sì fieramente da S. E. il Demonio che aveva finito per capitolare. N’avea avuto in ricompensa quel castello, arredato stupendamente, da principe, pieno di belle donne e di mille raffinate delizie. Un bel giorno il brav’uomo, stanco di tante belle cose e di quella vita – lo credo bene, con tante donne in casa! – aveva pensato di pentirsi del mal passo fatto in un momento di debolezza e s’era pentito tanto sinceramente che il suddetto signor Demonio, già suo padrone e signore, aveva dovuto battere le nere adunche ali dal castello, portandosi via in fascio per vendetta tutte le belle cose, le delizie, e, s’intende – povero lui – tutte le donnine che già l’avevano tanto vivacemente popolato. Ma il Castello era rimasto in piedi, nudo e desolato, e in esso avea passato gli ultimi suoi giorni in cruda penitenza quel buon Saint-Malin, il quale aveva potuto così conservare il suo appellativo di santo che aveva posto a così duro pericolo di perdere per l’eternità.

— Dopo tutto, – aveva mormorato un po’ scetticamente l’amico Edoardo – quel buon Malin non era poi stato uno sciocco!...

Seguiva un’altra leggenda; romantica questa e di sapore medioevale, ma non meno interessante.

Pare che in una certa epoca non ben precisata il Castello fosse stato abitato da una strana coppia di sposi – la solita coppia dei tanti non meno soliti drammi medioevali.

Lui era un barbuto geloso come il suo collega Otello – lei una colombina bionda e sentimentale, rapita dal feroce consorte al famigliare maniero ov’era venuta su, bianca come un fiorellino nascosto e trepida come una ritrosa cerbiatta, fra le moine della mamma e le cure delle damigelle. Cosa avvenisse in seguito non si sa bene.... ma la leggenda narra che un giorno il terribile e feroce marito, in un impeto cieco di tremenda gelosia, facesse sparire per sempre la trepida consorte, in un modo barbaro e orrendo. La gettò nel pozzo!... In quale pozzo poi la poveretta trovasse la crudele sua fine s’immaginò in seguito – mi dissero le donnette del paese dopo che il signor zio di Edoardo ebbe scoperto il famoso trabocchetto con relativo abisso misterioso!

— Perchè poi al signor mio zio sia saltato in testa di far suo questo castello da dramma romantico non riesco ancora a comprendere: – aveva esclamato più volte il mio amico.

— Non te ne ha mai parlato? – chiesi.

— Mai.

— È strano.

— Ma mio zio era un tipo abbastanza bizzarro ed eccentrico, sai? oh, se tu lo avessi conosciuto!

— Allora mettiamo anche questa tra le altre sue eccentricità, – osservai.

— Bisogna dir così.

Noi scendevamo, al paese quasi tutti i giorni per i pasti, giacchè per la cucina era stato impossibile trovar nulla da fare nella decrepita e affumicata spelonca che già un tempo aveva servito per cuocere i pasti degli antichi abitatori del Castello, con que’ focolari smisurati che parean camere da letto, tutti neri di secolare fuliggine e di ragnateli polverosi e popolati da certi aracnidi spaventosi che tenean lontani e in rispetto con la sola loro vista.

Ci eravam perciò accordati con il padrone della famosa osteria che il lettore già ben conosce e che ha veduto accoglierci così ospitalmente al nostro primo arrivo. E le ore dei pasti eran per noi condite dai racconti pittoreschi dei buoni alpigiani che facevamo sedere accanto al nostro desco, ricompensando con buoni bicchieri del solito vinetto agreste le loro fiorite narrazioni piene per noi di vivo interesse folkloristico.

Era per tal modo che le leggende vagolanti intorno al bruno castello che ci ospitava o le altre mille popolanti giù i vari luoghi della valle, ci passavan tutte davanti, ricche dei loro ingenui e nativi colori, efficaci di tutta la loro rozza vivezza, ricche di tutto il profumo di favoloso mistero che le rendeva curiose e drammatiche.

Fra queste una non posso trascurare di far nota al lettore, perchè la vedrà più avanti riprodotta e ricordata ben altrimenti.

Vagolava dunque nella valle la lontanissima tradizione di uno strano e spaventoso fatto avvenuto giù giù, nelle più fitte ombre dei secoli. Si trattava di un paesello intero, nel quale era piovuto un brutto giorno il solito Demonio che già aveva fatto quel tale tiro che sappiamo al povero Saint-Malin, il quale era stato tanto potente da tirar nella rete nientemeno che tutti – nessuno eccettuato – gli abitanti del paesello. In una parola tutta quella brava gente, uomini e donne, fanciulli e fanciulle si eran dati anima e corpo a Lui, al terribile Nemico. Cose orrende si narravan di ciò che avveniva da quel giorno in quel dannato paese – la Chiesa era stata trasformata in un orribile inferno, tutto ciò ch’era sacro era stato profanato, vituperato indegnamente. Gli abitanti eran dati quotidianamente in braccio alle più sacrileghe orgie.... Cose orribili insomma! Sinchè il castigo era venuto e tremendo. Un mattino il sole, sorgendo radioso dalle colline a rischiarare la valle, invano avea spinto i suoi puri e caldi raggi ad illuminare il dannato paesello.... Esso era scomparso! – Sprofondato, capisce? – raccontava il buon alpigiano che mi narrava l’avventura – sprofondato durante la notte negli abissi infernali!....Il paese non c’era più: neppure una casa s’era salvata e con esso s’erano sprofondati tutti, sino all’ultimo, i suoi abitanti! Il dannato paese era piombato giù, intero, negli abissi dell’Inferno e tutti poterono vedere sul luogo ove già erano state le sue infami fondamenta come un gran lago brulicante di vermi immondi e di strane bestie mai vedute.... Sinchè il buon Dio, placato, concesse ai prati ed agli alberi di rifiorir di nuovo sopra quella terra maledetta dove tutto era scomparso... tranne una nera roccia che tutti possono ancora vedere, una strana roccia d’un nerume d’inferno che era rimasta là, arida e bruciata, ad attestare la grande colpa e la collera divina. E quella roccia che portava malefizio a chi troppo le si accostava – ed era perciò sfuggita e tenuta lontana dai pastori e da tutti – indicava il luogo ove già era stata la povera Chiesa offesa e profanata!...

*

Fin dai primi giorni, mi sentii stranamente attratto dalla Biblioteca, ove passava molte ore frugando curiosamente e rovistando qua e là.

Come ho detto, essa si componeva esclusivamente di vecchie edizioni, rilegate in pergamena e abbastanza bene conservate: v’eran molti libri rari secentisti e qualche rara edizione del cinquecento. Una enorme quantità poi di libri sacri del secolo XVIII, che contrastavano curiosamente con le diaboliche leggende del Castello.

Rovistando fra questi venerandi vecchiumi scopersi finalmente con mia grande gioia una bella Cronaca, manoscritta, d’un tal frate Francesco di Andrea della città di Turras, sopra le mirabili istorie del nostro Castello.

Era un bel codice che, a quanto potei giudicare per una mia certa pratica di topo di biblioteca, doveva risalire alla metà del secolo XV, scritto in bei caratteri umanistici in quella carta che i bibliografi chiamano bambagina, con iniziali semigotiche spesso rosse, inchiostro nerissimo, talora diluito e talora divenuto rossiccio. Esso era rilegato in mezza pelle, ben conservata la parte anteriore, quella del frontespizio: assai guasta e sciupata l’altra.

La Cronaca cominciava testualmente così:

«Qui in questo volume io, frate Francesco di Andrea della città di Turras, scriverò alcuni ricordi antichi, trovati in certi libri e memoriali d’antiqui authori, nei quali farò mentione in breve parole delle novità di Turras e di dicto Castello et d’altri lochi scripti del dicto paese di Turras e comenzeremo da Yafet uno dei figliuoli di Noè, il quale partendosi dalli fratelli dalle Montagne d’Armenia dove si posò l’archa del diluvio, e pigliando la via verso l’Europa nostra primieramente arrivò in Inghilterra et lì vi edificò Londra et Camelot et altre città, le quali poi mutarono soi nomi. Poi le genti di lui discesero e vennero stendendosi per lo paese intorno. Ultimamente arrivorno in Italia facendo paesi e castelli dove più li dilettava. Fra questi discendenti di Jafet venne uno Barone chiamato Corinto con una sua chiamata Electra, moglie bella et saggia.... Et haveva costui uno grande tesoro e homini saggi con lui.»

Come si vede il buon frate cronista prendeva le mosse per la sua storia proprio alle fonti, nientemeno che da Jafet!... E se ne veniva quindi giù bel bello narrando le varie leggende che in parte il lettore già conosce, sino ad un certo punto dove si metteva con grandi e vivi colori, nella sua barbara ingenuità, a parlare del famoso paesello, novello Sodoma e Gomorra, scomparso ne’ baratri infernali per la sua sacrilega dedizione al potente Re delle tenebre. Quivi, in margine, scritte evidentemente molto dopo, qualche secolo appresso certamente, erano certe fitte parole, la maggior parte inintelligibili, fra le quali mi riuscì dopo grande fatica a decifrar queste “...et havendo sentito si facto romor.... ne scopremmo havendo forte sospeto l’uscita.... et scopremmo mirabile cosa mai veduta nè udita che....” e le parole sparivano confuse. Seguiva subito, scritto con caratteri moderni, e con la data 187.... queste parole: “Poichè Dio ha voluto ch’io sapessi, cerchi il predestinato lettore che Fortuna ha voluto, e troverà, e anch’egli saprà e se oserà conoscerà meglio ciò ch’io per troppa umana prudenza o debolezza non seppi volere o non potei.”

Seguiva la firma recente dello zio di Edoardo.

Restai lungamente pensoso davanti a queste enigmatiche parole che per me avevano tutto il sapore di un indovinello.

Chiamato a parte Edoardo della mia scoperta, anch’egli non seppe che dire.

— Che diamine avrà mai voluto significare quel bizzarro tipo di mio zio con queste sue parole?... – si chiedeva egli perplesso.

La risposta alla nostra viva curiosità non doveva venire certamente così presto da noi.

Ricercammo bene tra le pagine del vecchio scartafaccio, ma nulla ci fu dato di scoprire che ci potesse illuminare in qualche modo.

Rovistammo per qualche giorno in tutti gli angoli della Biblioteca, mettemmo sossopra tutti i vecchi libri, suscitando nembi di polvere e provocando famose fughe di topi ivi acquartierati pacificamente da secoli, di generazione in generazione; ogni angolo, ogni cantuccio, ogni ripiano di scansia fu frugato, scrutato, indagato minutamente: ogni cartaccia fu analizzata e studiata: nulla, nulla ci venne fatto trovare che potesse soddisfare la viva curiosità che ormai si era accesa vivamente nel nostro spirito.

“Cerchi il predestinato lettore che Fortuna ha voluto e troverà” aveva lasciato detto quell’originale zio di Edoardo.

Non eravamo noi dunque i predestinati lettori che Fortuna aveva voluto?....

Noi ci chiedevamo con un vivo desiderio ormai che i fatti ci dimostrassero che realmente era così.

Cominciavamo a disperare quando il caso.... il solito caso che tante meravigliose scoperte ha aiutato a compiere, tante utili invenzioni ha fatto nascere, doveva darci la chiave, in parte almeno, del bizzarro mistero.

Stavo io dunque un giorno tenendo fra le mani il famoso manoscritto di frate Francesco che ho detto, quando gli occhi mi caddero sulla parte posteriore della legatura chè, come già ho avuto occasione di accennare, era legato d’una mezza pelle abbastanza recente, rimontante al più ad una quarantina d’anni circa. Come ho detto, la prima copertina era in ottimo stato, ma non così la seconda, cioè la detta posteriore, la quale era invece assai sciupata per effetto dell’umidità. Probabilmente sul tomo, ch’io aveva trovato sull’alto d’una scansìa, esposto all’aria, doveva esser caduta dell’acqua piovana, filtrante dal soffitto a tetto mal connesso in quel punto, la quale lo aveva ridotto in tal guisa.

La pergamena era sdruscita qua e là, ed io osservando fra gli strappi, fui colpito dalla vista di alcuni caratteri che mi apparvero sotto di essa.

Incuriosito tagliai con delicatezza e tolsi tutta la parte della pergamena deteriorata e ammuffita e mi apparve tosto una lunga striscia di carta manoscritta.

La svolsi.

Era manoscritta, recente, e della stessa mano che aveva tracciata la famosa postilla che sappiamo e che tanto ci aveva dato da fantasticare.

E, senza dubbio, era opera anch’essa dello zio di Edoardo.

Ma osservandola bene non potei a meno di dare in una viva osservazione di rammarico.

Peccato!

L’acqua filtrata attraverso la pergamena l’aveva talmente aggrinzita che i caratteri scolorati e alterati eran ormai quasi del tutto scancellati e resi inintelligibili.

Soltanto le ultime righe – risparmiate dall’umidità – eran rimaste nitide e chiare.

Esse dicevano:

“Tutto ciò è vero e reale, e fu veduto con cotesti miei occhi umani, nel pieno vigore e coscienza del mio intelletto. Provi colui che la sorte ha deciso che debba anch’egli come me conoscere e sapere: provi ed osi anch’egli come io ho osato: discenda anch’egli com’io son disceso. Sia lunga, il più lunga possibile la fune a cui si affiderà: provi ed osi come ho fatto e detto e anch’egli vedrà.»

Queste furon le sole parole che, malgrado tutti gli sforzi miei e di Edoardo, ci fu dato riuscir a comprendere in quel fittissimo ammasso di parole, scritte minutamente, che un fato avverso aveva fatto scomparire e rese un enigma.

In esse certamente qualche bizzarro mistero dovea essere rivelato.

Mistero che per noi, fatalmente, rimaneva ancora tale: mistero che ci accendeva ormai del frenetico desiderio di venirne a capo ad ogni costo.

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